Giorgio Paolucci, Avvenire, 24 agosto 2014
Il Meeting di quest’anno propone un viaggio verso le periferie del mondo e dell’esistenza. Cavalca l’onda lunga che papa Francesco continua ad alimentare con la sua predicazione e la sua testimonianza, fatta di parole ma soprattutto di gesti e di sguardi, di abbracci, mani tese, incontri imprevedibili. E di poche, ripetute parole, di frasi semplici ma che lasciano il segno. Un Papa che il 13 marzo dell’anno scorso si è presentato alla loggia di San Pietro, pochi minuti dopo la sua elezione, come uno che veniva anch’egli da una periferia, un posto “quasi alla fine del mondo”. E che in più di un’occasione ha detto che la realtà si capisce meglio guardandola dalle periferie piuttosto che dal centro, spiazzando molti dentro e fuori la Chiesa.
Già nel discorso fatto al collegio cardinalizio durante il pre-conclave, aveva detto che «la Chiesa è chiamata a uscire da se stessa e ad andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’assenza di fede, quelle del pensiero, quelle di ogni forma di miseria».
A Rimini, dal 24 al 30 agosto, arriveranno molti “periferici” per testimoniare quanto è vero che questa prospettiva aiuta a vedere e a giudicare in maniera più adeguata il reale. Non per il gusto demagogico del pauperismo o della marginalità fine a se stessa, ma perché abituati a cogliere e vivere l’essenziale, cioè quello che davvero serve a tenere in piedi l’esistenza anche quando si campa nella precarietà, quello che aiuta a percepire l’inestinguibile desiderio di compimento che abita il cuore di ogni uomo, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi condizione. Quello che permette di intuire – come recita la seconda parte del titolo del Meeting, che non va considerata un’appendice ma ciò che lo rende provocatoriamente concreto – che il destino non ha lasciato solo l’uomo, non lo ha condannato a una disperante solitudine, ma si è reso incontrabile, è diventato una compagnia concreta che genera uomini capaci di valorizzare ogni sincero tentativo di ricerca e desiderosi di costruire il bene comune. Lo racconteranno i testimoni provenienti dalle periferie geografiche ed esistenziali, lo faranno vedere le mostre e gli spettacoli, lo renderà evidente, come accade ogni volta da trentacinque anni, il popolo del Meeting, che per tanti osservatori esterni che ci vanno per la prima volta–ma anche a chi ne è diventato un abituale frequentatore – è il protagonista che colpisce di più. Giovani, tanti giovani, desiderosi di trovare risposte alle domande che si agitano nel cuore. Ma – sempre di più col passare del tempo – adulti e anziani con le stesse domande e lo stes- so desiderio che brucia dentro. Arrivano a Rimini per conoscere da vicino personaggi che possono dare una risposta alle loro domande. E per incontrarsi tra di loro, per “essere popolo” in un’epoca in cui l’individualismo detta legge e ci si occupa dell’altro prevalentemente per trovarci un tornaconto personale.
Papa Francesco continua a rilanciare la cultura dell’incontro come uno dei leit motiv del suo pontificato e come metodo privilegiato per animare i rapporti tra le persone e le genti. Lo ha fatto anche pochi giorni fa durante il viaggio in Corea: «Siamo figli dello stesso Padre. Questa capacità di empatia – ha detto ai vescovi dell’Asia – conduce a un genuino incontro in cui il cuore parla al cuore. Siamo arricchiti dalla sapienza dell’altro e diventiamo aperti a percorrere insieme il cammino di una più propfonda conoscenza, amicizia e solidarietà». La kermesse riminese ce l’ha nel sangue, la cultura dell’incontro. Tanto è vero che ormai è diventata per antonomasia “il Meeting”. Ma quello che le permette di essere luogo di incontro dove ognuno si sente “a casa” è la sua origine, la sua identità (termine troppo spesso brandito come un’alabarda da chi è sempre a caccia di nemici da combattere piuttosto che di persone da incontrare). Ancora Papa Francesco: «Non possiamo impegnarci in un vero dialogo se non siamo consapevoli della nostra identità. Dal niente, dal nulla, dalla nebbia dell’autocoscienza non si può dialogare (…). E, d’altra parte, non ci può essere dialogo autentico se non siamo capaci di aprire la mente e il cuore con empatia e sincera accoglienza verso coloro ai quali parliamo».
L’identità che ha fatto del Meeting un luogo di incontro e dialogo con uomini e donne di culture e fedi così diverse nasce dentro l’alveo della Chiesa cattolica, che universale – cioè aperta a tutti – lo è per sua natura. E che ha trovato una gemmazione feconda nel carisma di don Giussani e di Comunione e liberazione, che quest’anno celebra i sessant’anni anni dalla fondazione. Chi ha avuto la ventura di leggere la monumentale biografia del fondatore di Cl scritta da Alberto Savorana ha scoperto un uomo che ha incontrato persone d’ogni cultura e religione, arso dal desiderio di riconoscere in loro i segni della presenza di quel Cristo che fin da bambino aveva conquistato il suo cuore. Ed è interessante constatare che le decine di presentazioni di questa biografia succedutesi nei mesi scorsi (una sarà ospitata anche al Meeting, con la partecipazione di un monaco buddista) hanno avuto tra i relatori personaggi di diversa estrazione culturale e religiosa, ma che hanno riconosciuto in quelle pagine qualcosa che interpella la loro umanità. Una febbre di vita contagiosa e che continua ad ardere. Come quella portata nel mondo duemila anni da un uomo, in una periferia chiamata Betlemme.