Daniele Zappalà, Avvenire, 7 agosto 2014
«Fin da bambino, sono di continuo meravigliato dalla scienza, dal mondo, l’universo, la sua organizzazione. È sorprendente d’essere un piccolo mammifero su un piccolo pianeta, attorno a una piccola stella, in una piccola galassia, ma al contempo pure lo stato più complicato della materia che si possa immaginare». Con la voce serena e profonda di un savant d’altri tempi, l’eminente antropologo Yves Coppens non si stanca di ricordare con emozione che l’avventura della scienza nasce sempre, ancor prima che nei laboratori, in quel serbatoio di sentimenti e interrogativi aperti che ciascuno di noi si porta inevitabilmente e misteriosamente dentro fin dalla nascita. Per un puro caso? Si direbbe proprio di no, risponde Coppens. Al Meeting, lo scopritore della nostra antenata Lucy interverrà mercoledì 27 agosto alle 17 per evocare Il fascino della ricerca: dal particolare al tutto.
Professor Coppens, Einstein amava ricordare quanto le nostre conoscenze siano estremamente preziose e al contempo sempre così piccole di fronte a quanto resta da scoprire. Che ne pensa?
«Che non c’è vera ricerca senza umiltà. Un ricercatore arrogante esula dal proprio ruolo. Mi ha sempre molto sorpreso leggere, ad esempio da parte di Voltaire, che abbiamo all’incirca compreso tutto. Un vero ricercatore scopre invece esattamente il contrario. A tal proposito Einstein diceva che non c’è conoscenza senza immaginazione, il che mi pare pure molto vero, dato che occorre sempre molta immaginazione per costruire delle ipotesi di lavoro da confermare o inficiare».
Le riforme dei programmi scientifici nazionali puntano oggi sulla ricerca applicata. Il buon equilibrio fra questa e la ricerca fondamentale si preserva in modo automatico?
«Una certa distribuzione di compiti si produce naturalmente, ma i finanziamenti non tendono sempre a rispettare quest’equilibrio indispensabile. Quando si eccede nelle risorse investite nelle applicazioni, si finisce per esaurire presto le basi teoriche per comprendere le stesse applicazioni. Non bisogna dimenticare una verità di fondo, ovvero che esiste una sola ricerca che coincide con la conoscenza e dunque con la libertà».
La sua disciplina, la paleo-antropologia, è all’incrocio fra tanti saperi. La sua visione “totale” risente anche di questo?
«Naturalmente. E inforcherei forse difficilmente le staffe del chimico o del matematico. Ma la creazione delle accademie e dunque il sapere accademico si fondano sul dialogo con il pensiero di altre discipline. Le mie ricerche sono in effetti all’incrocio fra scienze della Terra, della Vita e dell’Uomo. L’en plein, in un certo senso. Secondo le diverse accademie a cui appartengo, vengo associato alle scienze dell’Universo, all’area delle scienze umane, o a quella archeologico-filologico-letteraria. Le discipline come l’antropologia hanno una responsabilità speciale, perché i ponti sono indispensabili ed occorre sempre ricordare che la scienza è generale, al di là delle singole pratiche specifiche».
Dopo lo stadio della scoperta, quello della comprensione richiede al ricercatore pure una certa dose di speranza?
«Descrivendo e poi interpretando il mondo, si resta scienziati, ma quando si cerca di comprendere come funziona il mondo con idee universali, si approda alla filosofia. E nella filosofia, giunge talvolta il momento di un superamento, di una trascendenza rispetto alle idee correnti. La trascendenza, che si può assimilare alla speranza, è una dimensione filosofica alla quale può sfociare la ricerca scientifica».
In che misura c’è somiglianza o prossimità fra la fede del ricercatore nella conoscenza o nell’esistenza di leggi universali e la fede religiosa?
«La scienza risponde ufficialmente che si tratta di una questione aperta. Personalmente, penso che ha senso ciò che ha un senso. La direzione e il significato non sono fra loro estranei. Quando si ascoltano gli astrofisici, poi i geologi, i paleo-biologi e i paleo-antropologi, emerge che si passa da una materia semplice a una più complessa, organizzata e diversificata, per poi saltare alla vita e poi ancora all’uomo, con la sua libertà. In proposito, giudico l’anima vicina alla libertà e alla responsabilità che accompagnano l’uomo, che ha appena 3 milioni d’anni, al cospetto del batterio che ne ha 3 miliardi o dei quark che ne hanno 15. Vi è dunque una direzione che non è contestabile. L’idea del caso, in senso assoluto, perde molta della sua credibilità. I vertebrati inferiori precedono quelli superiori, le spore vegetali precedono i semi, le uova precedono le placente. Vi è un senso».
Per strade visibili o sotterranee, lo slancio della ricerca scientifica e la fede religiosa possono dunque nutrirsi mutuamente?
«Ne sono convinto, perché penso che la dimensione spirituale sia inerente alla natura umana. Come la zampa di un cavallo o la zanna di un elefante, il cervello umano si è inizialmente sviluppato per trovare strategie di sopravvivenza in un ambiente difficile, ma ha poi raggiunto un livello di complessità, inerente alla sua natura, che gli ha fatto comprendere le questioni di origine e di destino, dunque il mistero della morte e la dimensione spirituale che accompagna l’uomo da quando è uomo. Semplificando un po’, si può dire proprio che l’uomo è uomo da quando è uomo. Da tre milioni d’anni, malgrado le evoluzioni che oggi conosciamo meglio, non osserviamo sconvolgimenti radicali. Siamo in una continuità senza rotture».