Contadini per scelta e non per fame

Benedetta CappelliniRassegna Stampa

La sussistenza di gran parte dell’umanità si basa su grano, orzo, ceci, fave, lenticchie, piselli, capre, pecore, bovini, maiali.
Dodicimila anni fa di queste fonti di cibo esistevano solo gli antenati selvatici, presenti tutti nella “mezzaluna fertile”, l’arco collinare che dai monti Zagros in Iran sale al Kurdistan, ai bassi Tauro in Anatolia, per scendere poi fino alla valle del Giordano. Le varianti domestiche del “Complesso occidentale” (quello orientale è basato sul riso, quello americano sul mais), comparvero simultaneamente undicimila anni fa.
Il processo di domesticazione non è semplice. Due caratteri del grano selvatico mal si prestano a mietitura e macinazione. La selezione naturale ha favorito le spighe fragili, che rilasciano il seme appena questo può riprodursi (sottraendolo a erbivori e uccelli); di conseguenza, per resistere nel terreno in attesa delle piogge, i semi sono coriacei. Gli scienziati-contadini di 11.000 anni fa hanno applicato un criterio opposto a quello naturale, selezionando spighe resistenti e cariossidi tenere e grandi.

Gli archeologi studiano l’origine dell’agricoltura e dell’allevamento fin dagli anni Trenta del Novecento, quando Gordon Childe attribuì la rivoluzione neolitica all’inaridimento del Medio Oriente conseguente alla fine della glaciazione. La pressione demografica indotta dal sconfinamento nelle superstiti zone verdi avrebbe condotto alla scoperta del modo di produrre cibo. Successivi diagrammi pollinici chiarirono invece che il paesaggio della mezzaluna fertile alla fine della glaciazione era quanto di meglio una popolazione di raccoglitori e cacciatori potesse augurarsi: coperto di praterie di piante annuali con semi ricchi di carboidrati e proteine, inframmezzate da boschi; popolato da gazzelle, uri, caprini, cinghiali. L’agricoltura nacque dunque  in una società che non si trovava sotto pressione alimentare. D’altra parte l’antropologo Marshall Sahlins, nel suo Stone Ages Economics ipotizzava che i gruppi preagricoli dedicassero alla sussistenza non più di 3-4 ore in al giorno. Molti scavi hanno esplorato siti legati all’origine dell’agricoltura e dell’allevamento, un fenomeno la cui importanza è uguagliata solo dalla scoperta del fuoco. Basti pensare che in due milioni di anni l’umanità paleolitica, pre-agricola, aveva raggiunto una popolazione di poche decine di milioni di individui, e che solo a partire dal Neolitico (l’età della nuova economia) è iniziata quella traiettoria iperbolica che in soli undicimila anni ci ha portati a sette miliardi. Eppure l’innovazione non fu determinata da bisogni alimentari.
Nel 1996 Francesca Giusti evidenziava come l’archeologia descriva i processi occorsi ma non riesca a rispondere alla domanda: «perché?». Quale anelito di cambiamento spinse l’uomo paleolitico, nomade e libero, ad attivare un processo che con la sedentarizzazione e l’aumento della popolazione sarebbe diventato irreversibile, “costringendo” a una economia che man mano introdusse la divisione del lavoro, la proprietà privata, la stratificazione sociale, la guerra? Nel 1994 Jacques Cauvin (in Naissance des divinité. Naissance de l’a gricolture ) sottolinea come il materialismo storico (secondo il quale la formazione delle idee si spiega partendo dalla prassi materiale) sia inadeguato a spiegare l’origine  ell’agricoltura, ed evidenzia che essa fu contestuale a innovazioni simbolico-cultuali, la più clamorosa delle quali è la deposizione di crani staccati dal corpo e rimodellati dopo la scarnificazione con malte e coloranti. Lo scavo di Harald Hauptmann a Nevali Çori, nella valle dell’Eufrate, uno dei primissimi villaggi agricoli sorto 10.600 anni fa, esponeva al fianco di piccole case un vano più grande, sul cui pavimento di calce erano erette stele monolitiche accuratamente scolpite a forma di T, indubbiamente antropomorfe per via della rappresentazione di braccia e mani. Era il tempio del villaggio? Nel 1995 il suo allievo Klaus Schmidt iniziava sulla collina di Gobekli Tepe, presso Urfa, dove la tradizione colloca la nascita di Abramo, uno scavo destinato a cambiare la storia della complessità sociale, amplificando le intuizioni di Cauvin.

Quelle stele che a Nevali superano di poco i tre metri a Gobekli sfiorano i sei, pesano fino a sedici tonnellate e sono disposte in vani circolari dislocati su tutta la superficie del sito. Non un’area cultuale all’interno del villaggio, ma un intero sito di venti compound, senza villaggio. La sorpresa è maggiore se consideriamo che Gobekli è di sei o sette secoli anteriore a Nevali e che non si è rinvenuto un solo osso di animale domestico e un solo seme di pianta coltivata. Gobekli Tepe sorse prima della affermazione dell’agricoltura.
Nessuno, neanche Cauvin, avrebbe osato immaginare che 11.500 anni fa una società non ancora irreggimentata dai ritmi del lavoro agricolo avesse la capacità di mobilitare centinaia di manovali e artigiani per estrarre dalla cava pesantissimi monoliti di calcare, trasportarli, confezionarli, erigerli nel contesto di migliaia di tonnellate di mura circolari; il tutto con soli strumenti di pietra. La tipologia delle punte di selce suggerisce che il sito era opera di gruppi disseminati su di un territorio del raggio di circa 160 chilometri. La loro organizzazione sociale era, evidentemente, complessa e cogente di motivazioni atte a convogliare in un “centro” consistenti risorse umane e alimentari. Le stele di Gobekli sono lastre a forma di T, relativamente sottili (spessore di alcune decine di centimetri). In alcuni casi, sulle superfici accuratamente spianate compaiono in bassorilievo lunghe braccia con mani che cingono uno dei lati sottili come se sostenessero il ventre; a volte sono presenti cintura, collana e perizoma, mai il volto e il sesso. I lati maggiori espongono figure di animali: serpenti, scorpioni, avvoltoi, gru, e poi volpi, cinghiali, leoni, tutti in posizione d’attacco, tutti maschili. Le stele inserite nei muri degli anelli guardano verso lo spazio centrale, dove sono collocate due stele più grandi. Ecco un’assemblea maneggiante, ieratica, forse totemica, forse di antenati, caricata di uno zoo aggressivo.

Klaus Schmidt (in Costruirono i primi templi) osserva che l’architettura monumentale di Gobekli Tepe, più che l’inizio, costituisce la chiusura di un ciclo. Essa fu la materializzazione di una costruzione mentale della società pre-agricola al suo culmine, quando la sedentarizzazione favorita dalla abbondanza di risorse cominciava e risolversi nella separazione fra uomo e ambiente e fra gruppo umano e gruppo umano. Sorse forse allora l’impellente bisogno di conservare quella aggregazione che gli eventi stavano incrinando, affrontato costruendo un centro in cui l’intera “nazione” poteva ritrovarsi. È possibile che l’esigenza di nutrire costruttori e pellegrini abbia contribuito a stimolare la messa a coltura di cereali e la messa in cattività di animali. L’archeologia molecolare indica che i più vicini antenati del grano domestico più arcaico, il piccolo farro (triticum monococcum), si trovano sull’altipiano basaltico del Karaçadag.

Con la rivoluzione neolitica il mondo animalista di Gobekli si decompose. I circoli vennero interrati. Gli spazi rituali dei primi villaggi agricoli sono poca cosa al confronto, quello del vicino Nevali Çori è solo una debole memoria della grande Gobekli. Duemila anni dopo, a Çhatal Hoyuk nulla ricorda gli antichi monumenti. I morti si seppelliscono sotto il pavimento degli stessi vani in cui si abita e si svolgono riti. I  cosmo totemico maschile è scomparso, sostituito da figurine femminili.

La capacità di gestire efficacemente l’ecosistema è messa a fuoco da recenti scavi francesi a Cipro. Quando i cacciatori-raccoglitori si accorsero che stavano per estinguere la fauna endemica locale importarono cinghiali, daini e capre selvatiche, trattando l’isola come una riserva di caccia. Successivamente aggiunsero pecore domestiche e il cane.

L’archeologia può oggi spiegare che l’adozione dell’agricoltura e dell’allevamento non fu determinata da cambiamenti climatici e tanto meno fu esito di scoperte inattese. Fu una decisione: della mente, non dello stomaco.