Piero Benvenuti, L’Osservatore Romano, 27 marzo 2013
Quando, verso la metà del secolo scorso, apparve ormai chiaro che l’universo non era statico, bensì in espansione, il cosmologo di origine ucraina George Gamow ipotizzò che, ripercorrendo a ritroso nel tempo l’evoluzione del cosmo, esso si sarebbe trovato in condizioni di crescente densità e temperatura. A un certo punto, tutto il gas primordiale doveva essere stato plasma, cioè gas ionizzato nel quale gli ioni positivi sono separati dagli elettroni e la radiazione vi rimane intrappolata perché i quanti di energia, i fotoni, procedono a zig-zag, di elettrone in elettrone, senza poter uscire liberamente dal plasma stesso. La continua espansione del cosmo comporta un progressivo raffreddamento del plasma e quando la temperatura scende al di sotto di qualche migliaio di gradi, gli elettroni vengono catturati dagli ioni positivi e il gas diventa neutro. Da quel momento — previde Gamow — i fotoni possono liberamente propagarsi nello spazio e, non trovando più ostacoli nel loro cammino, dovrebbero essere visibili anche oggi, provenienti da ogni direzione. Ma — proseguiva il cosmologo ucraino — tale flusso di fotoni è così flebile, che non sarà mai possibile rivelarlo.
Oggi, la previsione di Gamow è stata ampiamente confermata, smentendo invece il suo pessimismo (all’epoca comprensibile) riguardo il futuro sviluppo delle nostre capacità tecnologiche. Lo dimostra la recente mappa della sfera celeste prodotta dal satellite astronomico Planck, resa pubblica in questi giorni dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA): essa presenta, in forma di planisfero, l’immagine più dettagliata del cosmo primordiale sinora ottenuta. La “luce” raccolta da Planck e codificata nella mappa è in realtà radiazione di microonde: infatti, anche se la radiazione che ha lasciato il plasma primordiale circa 14 miliardi di anni fa, era allora composta di luce visibile (del tutto simile a quella emessa dal nostro Sole), essa si è via via spostata verso lunghezze d’onda più lunghe per effetto dell’espansione dello spazio cosmico, fino ad arrivare a noi sotto forma di microonde (come quelle dei nostri forni domestici). I colori utilizzati nella mappa sono indicativi della temperatura del gas primordiale: in blu le zone più fredde e in rosso quelle più calde. Le differenze sono minime, dell’ordine del decimillesimo di grado, ma rappresentano una informazione preziosa per ricostruire la storia dell’universo. Infatti, quelle minime variazioni di temperatura (e quindi di densità), sono i “semi” dai quali nasceranno successivamente le galassie e le stelle. Non solo: l’analisi statistica delle variazioni permette ai cosmologi di determinare la geometria del cosmo, l’età dell’universo e la sua composizione.
I nuovi dati di Planck, frutto di 15 mesi di osservazione, confermano e migliorano quelli precedentemente ottenuti dagli esperimenti BoomeRang, Cobe e Wilkinson-Map: fissano in 13,82 miliardi di anni l’età cosmo e precisano ulteriormente la suddivisione tra le principali componenti dell’universo.
La materia luminosa, cioè le stelle, le galassie e il gas ionizzato, rappresenta appena il 5 per cento mentre la materia oscura, invisibile perché non emette luce, il 27 per cento (superiore alle stime precedenti) e l’energia oscura, di cui ben poco conosciamo, il 68 per cento. Questo significa che tutto ciò che gli astronomi osservano con i loro telescopi è solo una minima parte, il 5 per cento appunto, di tutto ciò che esiste. La materia oscura si manifesta indirettamente grazie alla sua azione gravitazionale (l’effetto di lente gravitazionale, che deformando lo spazio produce una sorta di fata morgana cosmica, è dovuto anche alla sua presenza), ma non sappiamo ancora quale sia la sua natura e ancor più misteriosa è la cosiddetta “energia oscura”, responsabile dell’espansione accelerata dell’universo, ma della quale, per il momento, sappiamo solo che “esiste”.
Planck ha ulteriormente raffinato questi dati, già evidenziati dagli esperimenti precedenti, ma ha anche svelato una peculiarità del cosmo primordiale veramente inattesa, che ha già messo in agitazione i cosmologi. Si tratta dell’apparente anisotropia della distribuzione di temperatura del fondo cosmico: alcune zone sembrano essere globalmente più fredde della media circostante, altre più calde, quasi che la violentissima espansione iniziale, la cosiddetta “inflazione”, non fosse avvenuta con simmetria sferica, come fino a ora si era sempre ipotizzato.
Uno dei pilastri della cosmologia moderna, ovvero il principio per il quale ogni osservatore cosmico, in ogni luogo e in ogni epoca, “vede” lo stesso universo, potrebbe essere messo in discussione.
Fin qui le scoperte scientifiche che l’esperimento Planck — al quale ha contribuito in modo determinante l’Italia — ci ha rivelato. Esse sono interessantissime e affascinanti nel loro ambito cosmologico, ma suscitano anche riflessioni più generali, che riguardano tutti noi, non solo gli scienziati e appassionati di astronomia. Innanzitutto la conferma che ciò che “vediamo” e su cui avevamo per millenni fondato i nostri modelli di universo, rappresenti solo il 5 per cento di ciò che esiste, offre una singolare lezione di umiltà a chi pensava di poter arrivare a conoscere tutta la realtà! Certamente la nostra conoscenza progredirà e probabilmente tra qualche decennio sapremo di cos’è fatta la materia oscura, ma anche allora rimarrà il dubbio che via sia qualche componente o caratteristica del cosmo che sfugge alla nostra indagine.
Dobbiamo per questo rinunciare all’impresa? Direi proprio di no: anzi, dovremmo ancor più constatare con stupore come la nostra apparente insignificanza nell’immensità del cosmo sia sempre in grado di comprenderlo razionalmente, qualunque inattesa novità esso ci presenti. Per il credente, questa intima corrispondenza tra i fenomeni cosmici e la loro rappresentazione razionale nei modelli interpretativi creati dall’uomo, non può essere frutto del caso. Ma se questa nostra capacità di indagare i misteri del cosmo è un dono, che ci distingue e caratterizza, qual è il suo ruolo nell’economia del creato e della sua salvezza?
Tentiamo di abbozzare due linee di risposta. La prima riguarda il concetto stesso di creazione che, di fronte al modello cosmologico attuale, caratterizzato in modo singolare dal suo divenire evolutivo, si propone in modo sempre più evidente come creatio continua, come un amorevole abbraccio divino che, dal di fuori dello spazio e del tempo, sostiene nell’esistenza ogni cosa. La seconda riflessione riguarda il nostro emergere come coscienza dall’evoluzione stessa del cosmo: non siamo “collocati” nell’universo, ma siamo noi stessi prodotti dal paziente trascorrere del tempo, di complessità in complessità fino allo scoccare della scintilla dell’intelligenza che ci dà la libertà di riconoscere il nostro essere “creati ”. Allora possiamo avvicinarci al significato profondo di quell’invito all’uomo a «dominare la Terra» che Dio pronuncia nell’Eden: dominare il cosmo significa custodirlo con amore, e per custodirlo dobbiamo imparare a conoscerlo e farlo proprio, osservare la mappa di Planck come un giglio del campo e vedere nelle sue impercettibili increspature la traccia delle nostre ossa, che per nessuno e in nessun istante sono dimenticate.
Forse solo così, conoscendo, amando e custodendo questo mondo potremo portarlo con noi, sotto nuovi cieli e in nuova terra.