Marco Bersanelli, Avvenire, 22 marzo 2013
Alle 13 di ieri, 21 marzo 2013, dopo oltre vent’anni di duro lavoro e di trepidante attesa i responsabili dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa) hanno reso pubblici a Parigi i risultati ottenuti dalle osservazioni del satellite Planck e di uno sforzo congiunto di centinaia di scienziati di tutto il mondo, Italia compresa: il satellite è stato finanziato in parte anche da Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e realizzato da un gruppo di aziende coordinato dalla Thales Alenia Space. Il perno di questi risultati è una fotografia, una singola immagine: si tratta della mappa più accurata mai ottenuta dell’universo primordiale prodotta dal telescopio spaziale Planck dell’Esa. Il Planck è una sorta di «macchina del tempo»: i suoi sofisticati strumenti catturano luce (oggi la vediamo sotto forma di microonde) che ha viaggiato quasi per l’intera età dell’universo, circa 14 miliardi di anni, e dunque ci restituiscono un’istantanea di come si presentava il cosmo all’inizio della sua storia, quando la sua età era «solo» di 380.000 anni, lo 0,003% di quella attuale. In proporzione, è come vedere un bimbo di poche settimane di vita rispetto a un adulto di 50 anni. La mappa di Planck ci mostra l’universo in una fase molto iniziale, ben prima della formazione delle galassie, delle stelle e di qualunque altra realtà strutturata. Era un universo assai diverso da quello attuale, quasi completamente uniforme, mille volte più caldo e un miliardo di volte più denso. Ma in quel plasma infuocato e indistinto qualcosa già si muoveva. Nelle regioni in cui la densità era leggermente superiore alla media, la gravità richiamava altra materia facendola collassare. A un certo punto però le forze elettriche delle particelle cariche incominciavano a opporre resistenza, cambiando la compres-sione in una dilatazione, e così via. Si innestavano così delle oscillazioni di pressione, vere e proprie onde sonore che con frequenze diverse (come fossero diverse note musicali) risuonavano nel plasma primordiale, producendo i semi gravitazionali per la formazione delle strutture che oggi vediamo nell’universo attuale.
Alle 13 di ieri, 21 marzo 2013, dopo oltre vent’anni di duro lavoro e di trepidante attesa i responsabili dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa) hanno reso pubblici a Parigi i risultati ottenuti dalle osservazioni del satellite Planck e di uno sforzo congiunto di centinaia di scienziati di tutto il mondo, Italia compresa: il satellite è stato finanziato in parte anche da Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e realizzato da un gruppo di aziende coordinato dalla Thales Alenia Space. Il perno di questi risultati è una fotografia, una singola immagine: si tratta della mappa più accurata mai ottenuta dell’universo primordiale prodotta dal telescopio spaziale Planck dell’Esa. Il Planck è una sorta di «macchina del tempo»: i suoi sofisticati strumenti catturano luce (oggi la vediamo sotto forma di microonde) che ha viaggiato quasi per l’intera età dell’universo, circa 14 miliardi di anni, e dunque ci restituiscono un’istantanea di come si presentava il cosmo all’inizio della sua storia, quando la sua età era «solo» di 380.000 anni, lo 0,003% di quella attuale. In proporzione, è come vedere un bimbo di poche settimane di vita rispetto a un adulto di 50 anni. La mappa di Planck ci mostra l’universo in una fase molto iniziale, ben prima della formazione delle galassie, delle stelle e di qualunque altra realtà strutturata. Era un universo assai diverso da quello attuale, quasi completamente uniforme, mille volte più caldo e un miliardo di volte più denso. Ma in quel plasma infuocato e indistinto qualcosa già si muoveva. Nelle regioni in cui la densità era leggermente superiore alla media, la gravità richiamava altra materia facendola collassare. A un certo punto però le forze elettriche delle particelle cariche incominciavano a opporre resistenza, cambiando la compres-sione in una dilatazione, e così via. Si innestavano così delle oscillazioni di pressione, vere e proprie onde sonore che con frequenze diverse (come fossero diverse note musicali) risuonavano nel plasma primordiale, producendo i semi gravitazionali per la formazione delle strutture che oggi vediamo nell’universo attuale.
Per la prima volta Planck ha captato per intero questa «sinfonia cosmica», cogliendone tutto lo spettro, dalle frequenze più gravi e imponenti (le oscillazioni su dimensioni maggiori) a quelle più acute (le oscillazioni su scale più piccole). La mappa di Planck rivela con un dettaglio spettacolare un’istantanea di quelle fluttuazioni, dalla cui statistica possiamo risalire alle caratteristiche fisiche di quell’universo iniziale. È come osservare delle increspature su una superficie liquida: a seconda di come si presentano possiamo dedurre il tipo e la densità del liquido (se si tratta di olio o di acqua, ad esempio), la profondità, il grado di uniformità, le correnti interne, eccetera. Nel caso di Planck la superficie è il plasma primitivo, le increspature sono le oscillazioni acustiche, e da esse possiamo dedurre gli ingredienti del cosmo, la sua geometria, e addirittura risalire a fenomeni accaduti nelle prime frazioni di secondo dopo l’inizio del tempo. Dopo anni di delicate analisi, i risultati di Planck ci offrono una splendida combinazione di conferme e di imprevisti. Anzitutto Planck ha verificato in modo straordinario la validità del modello cosmologico standard. Significa in pratica che i tratti essenziali del nostro universo sono descritti molto bene da una manciata di parametri: sei numeri in tutto. Planck ha precisato il valore di quei parametri con un’accuratezza senza precedenti, rivelando fra l’altro che la materia oscura ha un’abbondanza del 20% superiore a quello che si pensava. E ha fornito una data di nascita ben precisa per il nostro universo: 13,82 miliardi di anni, con la pazzesca precisione dello 0.4%. Ma non è tutto. Le mappe di Planck hanno anche rivelato alcuni indizi – non appariscenti, quasi impercettibili – che potrebbero essere sintomo di qualcosa di più profondo. Uno dei pilastri della cosmologia moderna è il cosiddetto principio cosmologico, ovvero l’assunto che su grande scala l’universo è in sostanza ovunque uguale a se stesso. Planck ha rivelato qualche crepa in questa assunzione fondamentale. Ad esempio si osserva una lieve ma ben misurabile asimmetria tra un emisfero e l’altro del cielo; inoltre si nota la presenza di un’ampia regione “fredda” difficile da spiegare come una semplice fluttuazione statistica; e altre piccole stranezze.
Come spesso succede nella storia della scienza, non si fa in tempo a consolidare un passo che già urgono nuove domande (il satellite Planck continuerà le sue osservazioni fino al prossimo autunno). E così, per fortuna, ci si sente sempre all’inizio di una nuova avventura. Ammirando ancora una volta la mappa di Planck ritorna un pensiero: l’universo iniziale era veramente di una semplicità disarmante. Impressiona considerare come quella uniformità quasi assoluta appena mossa da un soffio di brezza (le oscillazioni acustiche) sia stata il terreno fertile per lo sbocciare della complessità, della ricchezza, della varietà che troviamo nell’universo presente. Ed ecco la vita, la coscienza, ecco noi stessi in questo quadro: Il più enigmatico dei frutti dell’universo, irriducibili a tutto ciò che ci precede e ci circonda, e allo stesso tempo materialmente dipendenti da questa storia cosmica così sottile e imponente. Dice un salmo «Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra» (Sal 138,15). Il nostro corpo e le nostre ossa hanno avuto bisogno della terra del cosmo intero, comprese quelle leggere increspature nell’universo di 13,82 miliardi di anni fa.