Carlo Soave, Tempi 2/2013
Noi uomini moderni che popoliamo tutto il pianeta siamo una specie, biologicamente parlando, giovanissima, iniziata solo 200.000-100.000 anni fa da nostri antenati che vivevano, vagabondando nell’Africa sud-orientale, in piccoli gruppi di nomadi cacciatori e raccoglitori, esposti ai capricci del clima, dell’ambiente e delle specie concorrenti (predatori e, non escluse, anche altre specie di Homo). Siamo anche una specie profondamente omogenea dal punto di vista genetico (ci sono meno differenze nel DNA di due uomini moderni presi a caso, ad esempio un indonesiano e uno svedese, che tra due scimpanzé che vivono nella stessa foresta africana) e che manifesta anche una profonda unità e fermezza psichica che attraversa le diverse culture (di fronte ai dilemmi morali la larga maggioranza degli uomini arriva alla stessa decisione, anche se l’articolazione del perché della decisione è molto varia). Come mai? Tutto ciò dipende in parte dal fatto che noi uomini moderni siamo discendenti di un gruppo (si stima non più di 1000 individui) di nomadi con una spiccata tendenza alla mobilità. Intorno a 60000 anni fa i nostri antenati si erano già diffusi dalle zone di origine dell’Africa australe fino al nord dell’Africa e da qui un piccolo gruppo è migrato verso est, lungo la fascia costiera, occupando le aree del Vicino Oriente. Questo gruppo è andato incontro a una incredibile espansione demografica e geografica: in poco meno di 20000 anni si è diffuso in Asia, Indonesia, Australia, Europa, è rientrato in Africa e qualche millennio dopo (intorno a 15000 anni fa) i suoi discendenti hanno anche attraversato lo stretto di Bering e occupato il nord e il sud America. Cosa c’era di particolare in questo piccolo gruppo di fondatori che ha permesso loro di moltiplicarsi e diffondersi in tutto il pianeta soppiantando altri ceppi di Homo che già occupavano l’Eurasia come per esempio i neandertaliani e i giavanesi? Tutto sommato erano anche loro nomadi cacciatori-raccoglitori, capaci come i loro contemporanei e predecessori di fabbricare utensili di pietra. Non lo sappiamo con certezza, sicuramente i fattori causali devono essere stati molti, ivi comprese tutte le contingenze imprevedibili di cui è punteggiata la storia, ma certamente questi nostri antenati dovevano possedere una capacità particolare, la capacità di interagire in modo positivo con l’ambiente: guardavano con attenzione ciò che avveniva spontaneamente in natura, cercavano di comprenderla, interpretarla, modificarla in modo da trarne benefici. E’ da questa attitudine che è nata, millenni dopo l’uscita dall’Africa, la più grande invenzione dell’umanità, l’agricoltura, che ha reso stanziali i gruppi nomadi, ha dato origine ai villaggi, ha promosso lo sviluppo di nuova tecnologia, ha prodotto eccedenze di cibo: è l’inizio della civiltà come noi la conosciamo. Non è stato un passaggio istantaneo, ma piuttosto un avvicendamento graduale, avvenuto in tempi successivi, e in modo indipendente l’uno dall’altro, in diverse aree del globo. I primi ad arrivarci sono stati gli abitanti della Mezzaluna fertile, un area nel Medio Oriente che forma un arco che sale verso nord da Israele attraverso la Siria fino alla Turchia e poi scende verso l’Iraq e l’Iran racchiusa dal Mar Mediterraneo a ovest, dai monti Zagros a est e dalla catena del Tauro a nord. Siamo alla fine dell’ultima glaciazione (la glaciazione di Würm, 12000 anni fa) che per più di 100000 anni aveva coperto gran parte dell’Eurasia con i ghiacci e, a seguito dell’aumento della temperatura, le pianure e gli altopiani della regione si ricoprivano di distese erbose dove crescevano spontaneamente graminacee e leguminose selvatiche (frumento, orzo, piselli lenticchie, ceci…) e l’area era popolata da animali selvatici (capre, pecore, bovidi, gazzelle, cervi, cinghiali…). L’ambiente forniva quindi abbondanti risorse alimentari e i nostri nomadi potevano permettersi anche uno stile di vita semisedentario: invece che cacciatori-raccoglitori opportunisti che si spostano in continuazione nutrendosi di ciò che trovano lungo il cammino possono fermarsi e sfruttare sistematicamente le risorse presenti sul territorio, creando rifugi temporanei e depositi scavati nel terreno per conservare almeno temporaneamente ciò che trovano. E’ la cosiddetta cultura natufiana dal nome del sito (Uadi el-Natuf) scoperto per primo in Israele negli anni 1932–1942. L’insediamento poteva ospitare tra 100 e 150 individui che si nutrivano, come risulta dai resti botanici ritrovati, di cereali selvatici, legumi, mandorle, ghiande e pistacchi e le ossa rinvenute mostrano che la preda principale era la gazzella. E’ proprio la sistematicità di esplorazione dello stesso territorio per un tempo prolungato, insieme all’osservazione attenta della natura, che fa scattare la scintilla. Le piante raccolte infatti sono piante selvatiche e si comportano come tali. Per esempio a maturità disperdono i semi nell’ambiente in quanto questo carattere è fondamentale per la sopravvivenza allo stato selvatico: se i semi restano sulla spiga o nel baccello non cadono a terra e non è possibile la successiva germinazione. Inoltre i semi devono essere dispersi nell’ambiente in modo da colonizzare aree distanti dalla pianta madre, altrimenti nella stagione successiva crescerebbero tante piantine talmente addensate una all’altra che si ostacolerebbero impedendo lo sviluppo. Infine non è detto che la stagione successiva sia una stagione favorevole alla crescita delle nuove piante: una stagione fredda o molto piovosa, o molto secca potrebbe essere fatale per la crescita. E’ opportuno allora che i semi prodotti, una volta caduti a terra e dispersi nell’ambiente, non germinino tutti nello stesso tempo e magari restino dormienti fino all’anno successivo. Molto meglio una germinazione scalare, scaglionata nel tempo: se i primi semi che germinano incontrano una stagione sfavorevole non è grave, essi moriranno, ma altri semi che germinano più avanti nella stagione possono essere più fortunati e di conseguenza la sopravvivenza della pianta (e della specie) è assicurata. Tutti questi caratteri dipendono dall’azione di specifici geni presenti nel patrimonio genetico, cioè nel DNA, di ogni pianta. Nel frumento per esempio il gene brittle rachis fa sì che a maturità l’asse (rachide) sul quale sono inseriti i semi nella spiga si spezzi in corrispondenza di ogni seme e di conseguenza i semi cadono a terra. Inoltre i semi possiedono sulla cima una lunga appendice zigrinata, l’arista, che ne facilita la dispersione (tutti ricordiamo i semi che si attaccano alle calze quando camminiamo in un prato) e infine ogni seme è ricoperto da tessuti più o meno duri (le glume e le glumelle) che lo proteggono dall’attacco dei predatori. Anche questi caratteri (presenza/assenza delle ariste, seme vestito/seme nudo, seme dormiente/non dormiente) sono geneticamente determinati e, quindi, di tanto in tanto vanno incontro a mutazioni spontanee che li rendono inattivi. Queste mutazioni sono molto svantaggiose per le piante perché le privano di caratteristiche importanti per la sopravvivenza allo stato selvatico, ma d’altro canto sono molto interessanti per dei raccoglitori. Cosa c’è di meglio che trovare spighe mature con ancora i semi attaccati al rachide, semi non ricoperti da glume che possono essere subito macinati piuttosto che sbucciati uno ad uno, semi che messi in terra prontamente germinano. E’ qui che si instaura il “dialogo” sui generis tra uomo e natura: le mutazioni sono fatti naturali, che avvengono spontaneamente modificando i caratteri delle piante, generalmente con effetti negativi sulla pianta stessa: ma il nostro antenato, raccoglitore sistematico che esplora quotidianamente il suo territorio, le nota e ne comprende il valore. Sono piante preziose, potrebbero facilitare di molto la raccolta del cibo e vale la pena vedere se questi caratteri si mantengono, cioè se la mutazione viene conservata anche nelle generazioni successive. Ha inizio quindi un doppio processo: la domesticazione, cioè la scelta da parte dell’uomo di quei mutanti spontanei con caratteristiche per lui favorevoli e la coltivazione che implica la conservazione del seme, la preparazione del terreno, la raccolta, cioè un preciso progetto culturale. Questi due processi sono alla base dell’invenzione dell’agricoltura e si sono ripetuti, sostanzialmente immodificati, in diverse parti del pianeta, in tempi diversi, con piante diverse e indipendentemente uno dall’altro documentando lo stesso atteggiamento di fondo di questi nostri antenati nei confronti dell’ambiente che li ospitava: non passivi difronte alla natura (solo raccoglitori), non dominatori (attenzione invece a ciò che già in natura avveniva), ma coltivatori cioè in rapporto continuo con il territorio in cui vivevano. Coltivare, dal latino “còlere”, non vuol solo dire mettere a frutto il territorio, ma anche attendere con premura, rispettare o, come dice sant’Agostino, essere giardinieri dell’Eden. E così, solo per citare le specie più importanti, in Cina tra le valli del Fiume Giallo e dello Yangtse si è domesticato il riso, la soia, la melanzana, la canapa, nell’Africa subsahariana il sorgo, il miglio e il riso africano, le arachidi, l’igname, il cotone, nella Nuova Guinea la banana, la canna da zucchero e il taro (una pianta dai tuberi commestibili), nelle Americhe il mais, i fagioli, le zucche, le patate, i pomodori, il girasole. E, tornando alla Mezzaluna Fertile, che ci riguarda più da vicino, questa è la patria di origine dei cosiddetti sette fondatori: frumento, orzo, avena, piselli, fave, lenticchie, ceci che, insieme all’olivo, alla vite e al lino, sono stati alla base delle grandi civiltà antiche, i Sumeri, gli Egizi, gli Assiro-Babilonesi, i Persiani, i Greci e i Romani. Il pane di frumento, simbolo per eccellenza della cultura mediterranea, è il frutto di una storia particolarissima. I progenitori dei frumenti attuali sono tre specie di graminacee che vivevano, e vivono tuttora, nell’area della Mezzaluna Fertile: il Triticum boeoticum, il Triticum urartu e l’Aegilops speltoides. Le prime due specie erano interessanti per i nostri progenitori: ogni anno, all’inizio dell’estate, producevano delle piccole spighe con 10-20 semi, ricchi di proteine e carboidrati. Però c’era il solito problema: da piante selvatiche qual’erano, queste spighe erano molto fragili e al minimo urto o colpo di vento si disarticolavano e i semi si disperdevano. Sappiamo però che esistono mutazioni genetiche spontanee che rendono alcune spighe resistenti alla rottura e ovviamente per i nostri progenitori erano le piante preferite. Comincia quindi la domesticazione e coltivazione e il primo a essere coltivato è il T. boeoticum da cui man mano scegliendo sempre le piante migliori e più produttive si genera il T. monococcum (piccolo farro, forma domestica con seme vestito, coltivato fino agli inizi del medio-evo). T.urartu e A. speltoides seguono invece un’altra via: occasionalmente e spontaneamente queste due specie si incrociano tra loro e formano un ibrido con un numero doppio di cromosomi. L’ibrido, il Triticum dicoccoides, non solo è fertile ma produce molti più semi dei suoi genitori. Per i nostri antenati è il colpo che cambia la vita: domesticare e coltivare queste piante, (il farro medio), allontana finalmente la carestia e, siccome si trovava in Palestina, ecco che questa diventa la terra dell’abbondanza. I discendenti di questa pianta diventano l’attuale frumento duro (T. durum) con il quale facciamo gli spaghetti e la pasta. La storia però non è ancora finita: il T. diccoccoides (il progenitore selvatico del frumento duro) cresceva nella stessa area dove si trovava anche un’altra piccola graminacea selvatica, il T.tauschii e, ancora una volta si forma spontaneamente tra le due specie un ibrido che incorpora i cromosomi del T. tauschii. Il nuovo ibrido è fertile ed estremamente produttivo: è il progenitore del Triticum aestivum , il frumento tenero con il quale facciamo il pane. In sintesi è una storia di “salti quantici” della natura, salti però che sono stati osservati, capiti e salvaguardati con “cura e premura”, cioè “coltivati” dall’uomo agricoltore.
Ma ci sono stati anche salti quantici culturali, nel senso di salti totalmente determinati dalla intelligenza dell’uomo. Vediamone solo qualcuno. Tutti ricordiamo la storia nella Bibbia di Giuseppe e i suoi fratelli. I fratelli, invidiosi, vendono Giuseppe ai mercanti che lo portano in Egitto, dove Giuseppe diventa il consigliere del Faraone. Ed ecco il consiglio di Giuseppe: negli anni di abbondanza, un quinto del raccolto di frumento venga custodito nei granai affinché possa essere distribuito al popolo negli anni di carestia. Ma per far ciò bisogna aver capito che non tutte le annate sono buone, che bisogna pensare al domani, che servono granai, cioè depositi costruiti apposta per conservare il grano: in sintesi ci vuole una vera politica, una politica che pensi al bene del popolo non solo per l’oggi ma anche per il domani. Facciamo un salto nel tempo in avanti. In Europa nell’alto medioevo, intorno all’anno mille, il frumento rende non più di quattro volte la quantità usata per la semina e, inoltre, si pratica il ciclo biennale: un anno i campi sono seminati a frumento e l’anno dopo a maggese, cioè i terreni sono tenuti incolti e arati ripetutamente in modo da mantenere la fertilità del terreno. Il problema è che un anno su due, non c’è raccolto e la fame incombe. Ma c’è una soluzione: passare alla rotazione frumento-piante foraggere. Nel primo anno si semina e si raccoglie frumento e nel secondo anno sullo stesso terreno si seminano piante foraggere (erba medica): queste piante, non solo ripristinano la fertilità del terreno, ma sono alimento per il bestiame che fornisce latte e carne e così si sconfigge la fame. Qui non è più la natura che porta la novità, ma è l’uomo stesso l’innovatore che trova il modo di rendere più produttivo lo stesso ettaro di terreno. E il ciclo non si ferma più. Nei primi anni del secolo scorso, la produttività del frumento è ancora intorno a 10 quintali per ettaro e questo perché le varietà di frumento coltivato sono varietà a taglia alta, cioè piante alte più di un metro che, se fertilizzati con azoto, allettavano, cioè la pianta diventava ancora più alta e finiva per cadere a terra. Conseguenza: non si poteva fertilizzare più che tanto e la produttività restava bassa. L’idea vincente è stata quella di un nostro connazionale, Nazareno Strampelli (1866-1942) che incrociò una nostra varietà con una varietà giapponese (l’Akakomugi) che portava geni di nanismo. Furono creati così frumenti a taglia bassa che potevano essere fertilizzati e la produttività passò subito da 9 a 14 quintali ettaro. L’idea fu estesa anche ad altre piante coltivate e, insieme ad altri miglioramenti, è alla base della rivoluzione verde per la quale Borlaugh prese il premio Nobel per la pace nel 1970.
La strada da percorrere quindi è molto chiara: la ricerca (genetica, fisiologia, agronomia, idraulica ecc.) è la via da percorrere per incrementare la produttività delle colture tenendo conto anche dei nuovi problemi che si affacciano. Per esempio, proprio la rivoluzione verde con i suoi indubbi vantaggi ha creato anche problemi: l’uso massiccio dei fertilizzanti azotati reso possibile con le nuove varietà ha inquinato di nitrati le falde e ora bisognerà “creare” nuove varietà di piante capaci di utilizzare al massimo l’azoto quando questo è abbondante nel terreno (al momento della fertilizzazione), ma allo stesso tempo in grado di estrarre l’azoto dal terreno quando questo è molto scarso. La lezione quindi è chiara: dobbiamo essere consapevoli che ogni vantaggio che conseguiamo comporta un contraltare problematico con cui fare i conti e questo perché non siamo in grado né ora né mai di conoscere tutti i fattori in gioco nell’equilibrio complessivo del pianeta. E poi c’è anche il problema dello spreco e dello squilibrio nella distribuzione della risorsa alimentare. Nei paesi sottosviluppati la gran parte dello spreco delle risorse alimentari si ha direttamente sul campo, a causa delle malattie che affliggono le colture, l’attacco di predatori e parassiti: nei paesi sviluppati invece lo spreco avviene nelle case: si acquista molto di più di ciò che effettivamente ci serve e ciò che non è utilizzato viene buttato. E’ necessario e urgente quindi riscoprire un criterio da cui derivare un’azione rispondente al giusto e al vero: occorre riscoprire il concetto di temperanza, rinunciare a qualcosa in nome di un valore più grande, base di ogni corretto rapporto tra uomo e uomo e uomo e ambiente. Su questa base e consapevoli dei nostri limiti, possiamo ugualmente essere fiduciosi e positivi proprio perché siamo eredi di un’esperienza millenaria che ha saputo leggere con umiltà e attenzione i segni che la natura ci inviava e la ragione ci faceva comprendere.