L’Osservatore Romano, 19 agosto 2012, di Augusto Pessina
Negli Stati Uniti Peter Singer, filosofo dell’università di Princeton e influente bioeticista (famoso come padre dei diritti degli animali), a sostegno delle tesi abortiste ha scritto sullo «Scotsman» del 15 agosto che «l’appartenenza alla specie Homo sapiens non è sufficiente per conferire un diritto alla vita». Lo stesso giorno gli ha fatto eco su LifeSiteNews.com il rabbino Bonnie Margulis, uno dei leader della Religious Coalition for Reproductive Choice’s del Wisconsin, sostenendo che togliere il diritto all’aborto violerebbe la «essenza stessa dell’essere umano».
Intanto, continuano a essere create in laboratorio nuove linee cellulari ottenute da embrioni umani alcune delle quali perfino finalizzate a test in vitro per ridurre l’uso di animali da esperimento. Una coalizione di importanti finanziatori della ricerca biomedica e gruppi di pazienti hanno presentato qualche mese fa un documento congiunto per chiedere al Parlamento europeo di continuare a finanziare le ricerche con l’uso di cellule embrionali umane.
Sperimentazioni cliniche che utilizzano cellule ottenute da embrioni umani sono ormai in corso in molte parti del mondo per verificarne sia la tollerabilità che l’efficacia. Anche in Italia vi sono sperimentazioni con cellule embrionali/fetali che, si sottolinea, sarebbero provenienti da aborto spontaneo. Ma sperare che ciò rappresenti una via etica è un’illusione.
Uno studio scientifico appena pubblicato su «BioResearch Open Access» (1, n. 4, agosto 2012) ha dimostrato che anche dopo 18 anni dal congelamento le cellule embrionali umane mantengono la loro pluripotenza e potrebbero essere utilizzate in terapie cellulari. Per questo viene suggerita la pratica del congelamento e del banking di embrioni umani come una efficace strategia biomedica per le terapie cellulari su vasta scala.
In questo panorama caratterizzato da una parossistica corsa ai risultati e al successo, un’altra voce arriva dall’Italia, dove a Rimini si apre il Meeting per l’amicizia tra i popoli che propone come tema una frase di don Giussani: «La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito». A colpire è la semplicità della proposta: guardarsi al fondo della propria natura per accorgersi che la nostra vita aspira a un “di più”. Perché, come Benedetto XVI ha ripetuto in Messico e a Cuba, «l’uomo ha bisogno dell’infinito».
Per fare esperienza di questo bisogno basta la semplicità del cuore nel vivere il quotidiano e tanto più la si scopre dove la propria debolezza si manifesta. Come ha scritto Romano Guardini, «l’eterno non è in rapporto con la vita biologica, bensì con la persona. La consapevolezza di questa perennità cresce nella misura in cui la caducità è sinceramente accettata. Chi cerca di schivarla, nasconderla o negarla, non ne prenderà mai coscienza. Il contingente lascia trasparire l’assoluto».
La sfida quindi non è superare il limite con le proprie forze, ma accettarlo quale condizione necessaria per scoprire che esiste una relazione «ultima e misteriosa» che ci definisce. Questa relazione, dalla quale nessuna ricerca scientifica, medica, biologica e neurobiologica potrà mai prescindere, rende l’essere umano (compresa la sua struttura biologica) non riducibile, non manipolabile, indisponibile.
È stata questa anche la testimonianza di Jérôme Lejeune, di cui qualche mese fa a Parigi si è conclusa la fase diocesana del processo di beatificazione e al quale proprio il Meeting dedica una mostra. Un fondatore della genetica clinica, scopritore delle cause di varie sindromi genetiche (tra cui quella di Down) che, per le sue posizioni, si è visto negare il premio Nobel. Egli amava infatti definire ogni uomo come «unico e insostituibile» proprio in forza della sua relazione con l’infinito.