“L’ecologia dell’uomo” di Benedetto XVI supera il dualismo natura-cultura

Benedetta CappelliniRassegna Stampa

IlSussidiario.net, 11 aprile 2012, Intervista a Carlo Soave di Luca Manes
Si torna a parlare del Discorso di Benedetto XVI al Bundestag di Berlino. Il Centro Culturale di Milano, in collaborazione con Euresis, promuove un incontro, nell’Aula Magna dell’Università Cattolica di Milano, dal titolo “La natura della terra e la natura dell’uomo: come riconoscere ciò che è giusto?” (il 13 aprile 2012, alle ore 21): in dialogo con Emilio Chuvieco, Docente di Geografia nell’Universidad de Alcalà (Madrid) e Coordinatore dell’Environmental Remote Sensing Group, ne discuteranno Marco Beghi, Docente di Fisica della materia nel Politecnico di Milano e Carlo Soave, Docente di Fisiologia vegetale nell’Università Degli Studi di Milano; con introduzione e coordinamento di Mario Gargantini, Direttore della rivista Emmeciquadro.

C’è una connessione stringente tra la propensione all’ecologia nell’uomo e nella cultura del secondo novecento e una sempre maggiore tendenza a considerare l’uomo solo un tassello del divenire della natura. In un passaggio del Discorso, il Papa afferma che “ esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana”.

Come nasce la settorializzazione, e quindi la separazione della materia del diritto da tutte le altre, in cui siamo immersi ora? Come si è posto il cristianesimo nel dibattito uomo-natura? È possibile vivere un’attenzione al creato, alla natura, in relazione all’attività di sviluppo, che non sia una religione della natura contrapposta alla religione della tecnologia? Su alcuni dei contenuti dell’incontro, abbiamo intervistato il professore Carlo Soave.

Alla luce delle enormi possibilità di manipolazione messe a disposizione dalle tecnoscienze, come si pone oggi il dibattito natura-cultura, naturale-artificiale?

Il problema natura-cultura tradizionalmente è pensato come antitesi tra natura, ciò che è determinato dalla nostra natura biologica, per esempio la nostra determinazione genetica, e cultura, tutto ciò che invece pertiene alla nostra capacità culturale. Un dualismo tra quanto noi siamo determinati dai geni e quanto invece dalla nostra cultura. In realtà questo dualismo è un falso. Nel senso che noi siamo un insieme dell’uno e dell’altro. Non è possibile separare ciò che siamo per natura e ciò che siamo per cultura. Quindi ogni manipolazione, che si dice messa a disposizione dalle tecnoscienze, non può che essere un insieme unico di natura e cultura.

Lo stesso problema si pone a livello di naturale-artificiale. Noi pensiamo che oggi un campo di frumento sia una cosa naturale? Assolutamente no, è totalmente artificiale. Pensiamo solamente a quanto il mondo naturale sia stato totalmente e continuamente modificato dagli organismi viventi. Quindi dov’è il confine tra naturale e artificiale? Il problema vero è quanto noi possiamo intervenire sul mondo per il bene e non per finalità di distruzione, tenendo conto che il mondo è sempre un insieme di natura e cultura. Il problema non sta nel dualismo natura-cultura, naturale-artificiale, ma piuttosto quanto il nostro operare è rivolto a un bene e come facciamo a dire cosa è bene e cosa è male.

Molto spesso si è portati a pensare che ci sia una separazione tra natura e cultura, mentre lei afferma che tra le due vi sia un’unità. Qual è la ragione di fondo di questa origine unitaria?

Quando uno parla di natura, afferma che l’organismo vivente è determinato totalmente dal suo patrimonio genetico, che quindi i geni sono determinanti e l’organismo è l’oggetto. Quando si dice cultura invece si afferma che è la situazione culturale, l’ambiente in cui vive l’organismo, che lo determina; l’ambiente culturale in questo caso è il soggetto e l’organismo è l’oggetto. Invece l’organismo è sempre il soggetto, poiché è quello che integra le informazioni che provengono dal suo dato biologico e dal suo dato ambientale, culturale. Non è una posizione dualistica tra natura e cultura ma è una posizione in cui è l’organismo il soggetto che interpreta secondo la sua potenzialità. Anche un batterio interpreta quello che viene nel mondo secondo la sua potenzialità, che certamente è molto inferiore a quella dell’uomo. L’uomo certamente è quel dato della natura in cui si riconosce questa capacità. Da sempre, però, ogni organismo vivente è il soggetto del proprio operare, attore della propria storia.

Data la complessità intrinseca degli ecosistemi e dei viventi, per la loro conoscenza sembra inevitabile una certa semplificazione e una riduzione dei fattori da considerare: come evitare che questo diventi riduzionismo programmatico?

È un problema con una storia antichissima. È evidente che il metodo di lavoro della scienza è riduzionistico, cioè si cerca di scomporre il reale nelle sue componenti. Questo è un riduzionismo metodologico. Bisogna vedere quanto questo riduzionismo metodologico diventa anche un riduzionismo programmatico, nel senso che nega l’esistente nella sua interezza. Questo sarebbe dannoso, poiché il reale è un tutt’uno. È l’organismo l’intero, non i suoi geni o l’ambiente, la natura o la cultura, il naturale o l’artificiale. Metodologicamente l’approccio scientifico è riduzionista. L’impostazione metodologica però non dice nulla sul fatto che il reale esista come intero. È un modo di affrontare il problema.

Come si evita dunque questo riduzionismo programmatico?

Le due posizioni alternative che oggi si scontrano, di fatto, sono il materialismo e l’idealismo. Queste sono le posizioni oggi esistenti. L’idealismo, sostanzialmente, del dualismo tra anima e corpo, sottolinea come le due cose siano del tutto separate. Il materialismo, invece, afferma che tutto è materiale, e siccome tutto è materiale io posso analizzarne i contenuti  uno per uno, scomponendoli. Il problema è che scomponendo, alla fine, non esiste più il reale, come unità. È una posizione monistica da una parte e dall’altra. Per cui da una parte si dice che tutta la caratteristica dell’umano è l’anima e che quindi il corpo fa parte della res extensa. Dall’altra parte si sostiene che non ci sia nulla oltre la res extensa e che quindi io la possa studiare nelle sue componenti. Il problema è che fin quando rimane un programma metodologico, di studio, va bene, ma se diventa invece una concezione di tipo ontologico, cioè di come considero l’essere, il reale, allora ci si sposta su un altro aspetto. Bisogna vedere quanto il metodo scientifico vuole diventare una posizione di questo tipo, filosofica. Fin quando rimane un approccio metodologico è fruttuoso, come ampiamente si è dimostrato.

L’urgenza applicativa, la pressione dei mercati, porta frequentemente a intervenire sulla natura quando ancora le conoscenze specifiche sono limitate (es. energia, biomedicina …); d’altra parte non si può rinviare l’intervento all’infinito, in attesa di conoscenze complete. Cosa significa allora l’invito di Benedetto XVI a “rispettare la natura”?

Questo è un punto interessante, perché è evidente che un’ecologia è sempre una politica. La domanda indica quali devono essere i criteri dell’agire. Perché l’urgenza applicativa, la pressione dei mercati, sottolineano una preoccupazione dell’agire. Bisogna intendersi su un punto. Noi non potremo mai conoscere, mai considerarci padroni fino in fondo dei nostri oggetti, del nostro reale, perché non ne possiamo conoscere fino in fondo tutti gli elementi in gioco. Questo è un elemento intrinseco della nostra situazione. Noi possiamo considerarci padroni di una cosa quando ne conosciamo tutti i fattori in gioco. Ma quando potremo fare ciò? Mai. Sarà sempre una tendenza. Se noi siamo consapevoli di ciò, ne derivano due aspetti fondamentali. Un primo aspetto è la prudenza. Se io devo andare a Napoli con la macchina, che non è nuovissima, prima di partire controllo le gomme, l’olio, i freni. Cioè, sono consapevole delle intrinseche limitazioni di questo strumento; in questo esempio, della mia capacità di conoscere il reale. Allora, non è che non parto per Napoli; parto, ma con tutte le precauzioni possibili. Lo stesso nei confronti dell’energia, delle applicazioni biomediche…  So che non sono perfette, ma non è che per questo non le uso. Ne sono consapevole, e dunque sono continuamente attento non solo alle conseguenze positive che mi aspetto del mio agire ma anche agli aspetti negativi che possono saltare fuori. Tenendo conto che la parola prudenza ha anche in sé la parola previsione: il cercare di prevedere quali potrebbero essere le conseguenze non solo positive, ma anche negative.

E il secondo aspetto?

Una volta, quando ero bambino, a casa mia, si faceva il venerdì di magro. Non si doveva mangiare la carne. Era un’abitudine diffusa per tanti. Qual era il motivo di questa rinuncia? Il motivo vero di questa rinuncia era rinunciare a qualcosa in nome di un bene maggiore. Era il concetto di temperanza. La temperanza è esattamente una virtù ecologica: il pensare che sia opportuno limitarsi in vista di un bene maggiore. Questo, insieme alla prudenza, è l’atteggiamento da usare. Non soltanto, poi, si rinuncia a qualcosa in nome di un bene maggiore, ma, in secondo luogo, ci si rende conto che se ci si limitasse potrebbero esserci più risorse per tutti, e meno impatto sull’ambiente. Questa doppia opposizione, prudenza e temperanza, che tra l’altro sono due virtù cardinali, sono due parole oggi non più usate. Dovrebbero essere rimesse nella nostra posizione di fronte a tutte le problematiche ecologiche.

Come si declina nel campo della scienza questa rinuncia in nome di un bene maggiore?

Non è tanto nel campo della scienza in termini di conoscenza, quanto in termini di applicazione. Quindi più nel campo di una tecnoscienza. Un esempio relativamente all’uso energetico: per pensare di poter avere un’energia illimitata, da una parte bisogna cercare di migliorare le fonti energetiche, ma, dall’altra parte, si dovrebbe cercare di limitare e di essere temperanti nell’uso dell’energia. Le due cose non sono separate, devono andare insieme.