L’informatico con la tonaca

Benedetta CappelliniRassegna Stampa

Avvenire, 11 agosto 2011, Francesco Ognibene
Da qualche tempo, a ogni nuovo compleanno, rinnovava il piccolo vezzo di spingersi subito sopra il gradino successivo, aumentandosi l’età di un anno, come a voler dire che potevano bastare. Per padre Roberto Busa, spentosi a 97 anni nella serata di martedì all’Aloisianum di Gallarate (dove si celebreranno i funerali domani alle 10), il secolo di vita era ormai a un passo, sebbene la sua presenza si andasse appannando. E a chi lo incoraggiava a non aver fretta di passare all’altra sponda replicava con un sorriso paziente di aver già vissuto a sufficienza, e di aver provveduto a lasciare consegne, beni e biblioteca a chi di dovere.
«Sono nullatenente», scherzava: e non c’era da stupirsene, considerato lo stile di vita essenziale dell’infaticabile giramondo. L’uomo che ha cambiato la storia dell’informatica “convertendo” il computer da ferraglia buona giusto per far calcoli velocemente a protesi della vita quotidiana con la quale dialogare viveva già immerso nello splendore abbagliante del Logos che l’aveva affascinato sin dall’ingresso in seminario nel 1928, trascinandolo in un’impareggiabile avventura cristiana e scientifica. Di lui le biografie ufficiali ricorderanno – giustamente – anzitutto i grandi meriti intellettuali e l’opera anticipatrice nel campo delle nuove tecnologie applicate al linguaggio e alle scienze umane, che ha fatto di lui il vero pioniere degli ipertesti. Senza la sua ardita intuizione (parliamo del 1946) la storia del computer avrebbe preso un’altra piega. Padre Busa, vicentino, compagno di formazione sacerdotale di Albino Luciani, gesuita dal 1933 e sacerdote dal 1940, ha non solo aperto una strada, ma l’ha anche spianata, messa in sicurezza, codificata e attrezzata con metodicità: non gli interessava essere il primo, ma tracciare minuziosamente una mappa e metterla a disposizione di tutti.
Ecco perché pochi storici dell’informatica ne conoscono davvero i meriti, che invece tra i nomi che hanno fatto la storia dell’industria tecnologica sono ben noti. Bill Gates e Steve Jobs, Google e Facebook hanno schiuso altre soglie decisive, ma arrampicandosi senza saperlo sulle spalle di questo gesuita imponente e pacato che nulla lasciava all’improvvisazione crescendo generazioni di studiosi con la sua inconfondibile pedagogia della pazienza e un’intelligenza umanistica rimasta viva e contagiosa ben oltre i 90 anni. È impossibile però cogliere il segreto più profondo di padre Busa senza partire dal suo sentirsi nel vivo di un mondo che è tutto nelle mani buone di Dio. A ben vedere, e ripensando al suo modo di spiegare gli infiniti garbugli dell’esistenza umana, ha sempre vissuto nell’ansia di vedere il Padre faccia a faccia, di colmare  l’attesa di entrare in quel mistero che aveva iniziato a esplorare diventando il massimo conoscitore del pensiero di Tommaso d’Aquino. Per
Busa la scienza e la preghiera, la vita religiosa (con l’obbedienza ai superiori anche nelle minuzie) e quella culturale, l’intelletto analitico e la contemplazione, la Messa quotidiana e gli impegni continui in sempre nuovi progetti accademici sono sempre stati un corpo vivo e inseparabile. Il desiderio di conoscere e la certezza che la risposta a ogni domanda umana sta nell’amicizia con Cristo, e in un mistero al quale affidarsi serenamente nell’attesa che si sveli, in lui hanno convissuto in un’armonia evidente a chiunque abbia avuto la fortuna di conoscerlo.

È certo che nell’anticamera newyorkese del big boss di Ibm Thomas Watson, nel 1949, l’allampanato e sconosciuto gesuita vicentino si sia presentato non solo per tentare di convincere il mito vivente dell’industria elettronica a seguirne le stravaganti visioni umanistiche (e ci riuscì) ma anche per il desiderio sempre vibrante di portare Dio là dove lo si stava mettendo alla porta, proprio a opera di chi mostrava con i successi della tecnologia di cosa è capace l’inaudito dono dell’intelligenza creata. Fino all’ultima fibra della sua anima, padre Busa è stato anzitutto un prete autentico, un modello di gesuita di cui sant’Ignazio può andare fiero. Frequentando i leader dell’industria informatica e i luminari delle università di tutto il mondo ha sempre mostrato anzitutto il desiderio e la curiosità di vedere le persone così come sono. Ha percorso il mondo seminando amicizia e spirito cristiano anche là dove trovava un’apparente indifferenza religiosa: un seme sparso a piene mani dalla sua base operativa di Gallarate a Roma, Milano, Pisa e Venezia, dai laboratori di calcolo negli Stati Uniti alle università dell’Europa orientale (frequentate ancora in piena guerra fredda) e, più di recente, del Maghreb e dell’Asia. Ma la sua vera casa accademica, insieme alla Gregoriana, è stata l’Università Cattolica, che lo annovera tra le proprie glorie, e dove ha fondato il Gircse, avamposto mondiale della linguistica computazionale. Cattolica e Gregoriana raccolgono ora la sua imponente eredità, insieme alla nidiata di ricercatori che ha avviato a una disciplina esigente e difficile, nel rispetto assoluto della regola di creare strumenti per l’analisi testuale da mettere a disposizione di altri, senza cercare la ribalta.
Solo con questo rigore, sempre stemperato da un’acuta bonarietà, si spiega l’impressionante opera che resta legata al suo nome: quell’Index Thomisticus che in 56 volumi composti in trent’anni di lavoro grazie a schede perforate e nastri magnetici, e poi approdato ai bit delle tecnologie digitali, analizza parola per parola l’opera omnia dell’Aquinate alla ricerca della ratio che ne governò le scelte concettuali e terminologiche. È  qui il nocciolo del “metodo Busa”: scandagliare la lingua di letterati e teologi per giungere al nucleo del loro pensiero, superando l’ostacolo di secoli, idiomi, culture e religioni. Una ricerca dell’uomo vero, del suo segreto, dell’impronta del Creatore.