Come è nata la collaborazione tra l’Agenzia spaziale e il Pontificio Consiglio della Cultura? È stata la scienza che, strada facendo, si riconosce “bisognosa” della religione o è la religione che ha deciso di “chiamare” la scienza per avanzare nella comprensione della natura e dell’universo in particolare?
Credo che all’origine vi sia il riconoscimento, da parte di entrambi, del valore unificante della cosmologia: ogni dato scientifico, ogni ragionamento filosofico o teologico, e anche ogni intuizione artistica, acquista maggior significato se collocato in uno scenario cosmologico che ne faccia emergere la valenza universale e antropologica. Forse la più grande scoperta scientifica del secolo scorso è stata quella di riconoscere, in modo ormai inequivocabile, la caratteristica evolutiva dell’universo, sia a livello fisico che biologico: ogni nuova ricerca che miri ad un progresso della conoscenza deve confrontarsi, per avere un senso, con la categoria del divenire del cosmo. All’atto pratico e molto semplicemente, per l’Asi era importante presentare al grande pubblico i risultati degli esperimenti di astrofisica e di cosmologia spaziale e delle esplorazioni del sistema solare mettendo in evidenza come non siano più delle missioni fini a sé stesse, ma facciano parte di una rete ben coordinata a livello internazionale che opera con un obiettivo cosmologico comune, quello di conoscere meglio e con maggiori dettagli l’evoluzione dell’universo. Il progetto Stoq ambiva presentare una rinnovata filosofia della natura, fortemente ancorata alle conoscenze scientifiche cosmologiche, per evidenziarne poi i legami con la ricerca teologica attuale, chiedendo aiuto, ove possibile, alla poesia e all’arte. È stato quasi automatico riconoscere il mutuo vantaggio nel coordinare il nostro lavoro, ciascuno impegnando e mettendo a disposizione le proprie competenze specifiche e – come ama ripetere spesso il cardinale Ravasi, citando Schelling – “custodendo castamente il confine”. L’utente del nuovo portale avrà quindi la possibilità di costruire un proprio percorso, scientifico-filosofico-teologico-artistico, utilizzando il materiale autorevole offerto in rete.
Il cardinale Baronio, ai tempi del caso Galileo, aveva detto che “la Bibbia fu scritta per mostrarci come andare in Cielo, non come va il Cielo”, sottolineando i diversi ambiti di studio e di “autorità” delle due discipline. Appena archiviato il 2009 con il grande successo dell’anniversario galileiano delle prime osservazioni lunari e delle celebrazioni dell’Anno internazionale dell’astronomia, ora la nascita del Portale di cosmologia – annunciata solo poche settimane fa – e la Stoq Lecture. Siamo all’inizio di una nuova epoca nei rapporti tra scienza e fede?
L’Anno internazionale dell’astronomia è stato per noi una formidabile opportunità per presentare i risultati della nostra ricerca e discuterne con il grande pubblico, con un’intensità e una continuità temporale mai sperimentate prima. Ciò che ci ha colpito è stato constatare che l’interesse maggiore non era rivolto solo e semplicemente ai “fenomeni” astronomici, per quanto strabilianti essi siano, ma soprattutto alle questioni di fondo che l’osservazione astronomica solleva in modo naturale: qual è l’origine e il destino dell’universo, perché esiste, dove si colloca e che ruolo ha l’uomo in tutto questo.
Domande cosmologiche, ma evidentemente anche filosofiche e teologiche che evidenziano l’esigenza, da parte di tutti di rivolgersi agli “esperti” (in questo caso gli scienziati astronomi) perché li aiutino a trovare delle risposte convincenti. Di fronte a questa esigenza, lo scienziato serio, che onestamente riconosca i limiti del proprio metodo d’indagine e della propria esperienza necessariamente limitata, deve lui stesso chiamare in aiuto altre discipline complementari, la filosofia prima di tutto, per non rischiare di cadere in affermazioni apodittiche o addirittura arroganti. Mi sembra che il clima culturale attuale offra finalmente la possibilità di un dialogo sereno, rigoroso e non prevaricante tra discipline che nel passato erano sembrate a volte in conflitto.
La costruzione pratica del portale, proprio perché realizzato in stretta coordinazione da più parti, avrà l’ulteriore vantaggio di costringerci ad analizzare a fondo il problema dei “linguaggi” adottati in autonomia da ciascuna disciplina. Infatti, se la filosofia e la teologia hanno mantenuto nei secoli un vocabolario compatibile (potremo dire multilingue) così non è avvenuto per la scienza che ha sviluppato un suo linguaggio tecnico molto specifico che non ha di solito riscontro diretto con i termini filosofico-teologici. Molti inciampi passati e recenti, dagli ingenui affrettati concordismi alle presunte incompatibilità tra scienza e fede, sono sicuramente riconducibili ad una errata “traduzione”. Visto in questa prospettiva il portale non è dunque una semplice realizzazione tecnica, ma un appassionante progetto di ricerca.
Anche se l’indagine dell’universo è in continuo progresso, l’uomo nel cosmo è ancora “solo” e appare una creatura davvero eccezionale. Tale singolare stato suscita molti e profondi interrogativi già da molto tempo e non soltanto in ambito religioso. Saranno discussi durante la Stoq Lecture?
Anche se riuscissimo a scoprire la presenza di vita extraterrestre, le distanze cosmiche – e la limitata velocità di trasmissione delle informazioni – impediscono di stabilire qualsiasi tipo di contatto fisico. L’uomo deve rassegnarsi a rimanere “solo” a considerare quanto fulminea sia la sua apparizione se paragonata alla durata dell’evoluzione cosmica. Ciononostante, l’uomo si riconosce capace di svelare l’intima struttura razionale del cosmo che non è, appunto, caos, ma intelligibile. L’uomo può pertanto ardire di proiettarsi razionalmente anche al di là di quanto può sperimentare, oltre il fondo cosmico.
Il famoso “principio antropico”, formulato da John Barrow e Frank Tipler nel lontano 1986: è ancora un nodo del dibattito attuale, vivacizzato dal recente riscaldarsi del movimento dell’Intelligent Design?
Personalmente ho sempre guardato al principio antropico con un certo sospetto, direi quasi con disagio: non v’è dubbio che l’evoluzione dell’universo abbia messo in evidenza una serie di quantità fisiche che sembrano avere valori fissati con incredibile precisione. Un minimo scostamento nel valore primordiale produrrebbe, proprio per effetto dell’evoluzione, variazioni macroscopiche nell’epoca attuale che, a loro volta, renderebbero l’universo totalmente diverso da quello che invece osserviamo e di fatto “inabitabile”. Attribuire però questo fine tuning, questa determinazione precisa delle condizioni iniziali ad un “principio” che impone tali valori per far sì che l’universo sia fertile e permetta l’emergere dell’uomo, mi sembra pericoloso. Ricordo che quando studiavo all’università, uno dei rompicapo posti dal modello cosmologico allora vigente era quello legato al cosiddetto parametro di densità Oo il cui valore, molto vicino ad 1, indicava che la geometria a larga scala dell’universo doveva essere piatta, euclidea.
Un’infinitesima deviazione dall’unità in epoca primordiale avrebbe generato universi con geometrie fortemente “curve”, che sarebbero ricollassati su sé stessi o espansi con incredibile rapidità, in entrambi i casi prima di permettere l’evoluzione biologica come la conosciamo sul nostro pianeta. Per spiegare questo valore così specifico e preciso alcuni proponevano di invocare il principio antropico: peccato che successivamente l’ipotesi di una fase di inflazione (cioè di espansione esponenziale) delle dimensioni dell’universo primordiale dimostrava come il valore Oo = 1 venisse raggiunto naturalmente, qualunque fosse il valore iniziale, alla fine dell’inflazione stessa. In definitiva il principio antropico assomiglia molto al “dio delle lacune” che interviene ogniqualvolta la scienza non riesce a spiegare una stranezza, per poi dover arretrare quando una nuova ipotesi scientifica la comprenda. Mi sembra molto più utile e corretto dal punto di vista epistemologico lasciare che la scienza proceda con il suo metodo, affinando progressivamente i modelli interpretativi dei fenomeni spazio-temporali che osserva e riesce a misurare, e lasciare al linguaggio teologico, logicamente successivo o comunque intimamente correlato all’atto di fede, il compito di interpretare la connessione significante di tutti gli enti nel Lògos, ciò che san Tommaso chiama piano divino della creazione (ars divina). Come scrive limpidamente Edith Stein, nell’opera Essere finito e Essere eterno, è “dietro questo “piano”, dietro il “progetto artistico” della creazione, che si trova (senza esserne separata nell’ordine dell’essere) la pienezza eterna dell’essere e della vita di Dio”.
Detto in poche parole, secondo lei “siamo figli delle stelle”?
Se ci limitiamo ai risultati della ricerca scientifica e a una visione riduzionista del mondo, possiamo senz’altro dire di essere figli delle stelle: gli atomi di ferro che ciascuno di noi ha nelle molecole dell’emoglobina che scorre nelle nostre vene, tutti, nessuno escluso, si sono formati nel cuore di una stella che, alla fine del suo ciclo, è esplosa come supernova e ha sparso per l’universo tutto il materiale di cui era costituita. Ho sentito una volta un collega americano definirci “scorie nucleari”: credo che anche un convinto materialista possa ammettere che “figli delle stelle” è più elegante. Se invece io, considerando non solo gli eventi esterni che mi hanno portato alla vita, ma tutti gli atti che la compongono, riesco ad intravvederne il nesso, allora – facendo proprie le parole di Edith Stein – “allora incomincio a rallegrarmi per il lume di gloria in cui anche a me sarà svelato questo nesso significante. Ciò che noi cogliamo del senso delle cose, ciò che entra nel nostro intelletto, si rapporta a quel tutto significante come alcuni suoni perduti di una sinfonia lontana, che mi sono portati dal vento”.