Le tre meditazioni di questo Avvento 2010 vogliono essere un piccolo contributo alla necessità della Chiesa che ha portato il Santo Padre Benedetto XVI a istituire il “Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione” e a scegliere come tema della prossima Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi il tema “La nuova evangelizzazione per la trasmissione delle fede cristiana”.
In questa prima meditazione prendiamo in esame lo scientismo. Per comprendere cosa si intende con questo termine, possiamo partire dalla descrizione che ne ha fatto Giovanni Paolo II:
“Un altro pericolo è lo scientismo; questa concezione filosofica si rifiuta infatti di ammettere come valide forme di conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze positive, relegando nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa e la teologia, sia il sapere etico ed estetico”[2].
Possiamo riassumere così le tesi principali di questa corrente di pensiero:
Prima tesi. La scienza, e in particolare la cosmologia, la fisica e biologia, sono l’unica forma oggettiva e seria di conoscenza della realtà. “Le società moderne, ha scritto Monod, sono costruite sulla scienza. Le devono la loro ricchezza, la loro potenza e la certezza che ricchezze e potenze ancora maggiori saranno in un domani accessibili all’uomo, se egli lo vorrà […]. Provviste di ogni potere, dotate di tutte le ricchezze che la scienza offre loro, le nostre società tentano ancora di vivere e di insegnare sistemi di valori, già minati alla base da questa stessa scienza”[3].
Seconda tesi. Questa forma di conoscenza è incompatibile con la fede che si basa su presupposti che non sono né dimostrabili né falsificabili. In questa linea l’ateo militante R. Dawkins si spinge fino a definire “analfabeti” quegli scienziati che si professano credenti, dimenticando quanti scienziati ben più famosi di lui si sono dichiarati e continuano a dichiararsi credenti.
Terza tesi. La scienza ha dimostrato la falsità, o almeno la non necessità dell’ipotesi di Dio. È l’affermazione a cui hanno dato ampio risalto i media di tutto il mondo nei mesi scorsi, a causa di una affermazione dell’astrofisico inglese Stephen Hawkins. Questi, contrariamente a quanto aveva scritto in precedenza, nel suo ultimo libro The Grand Design, Il Grande disegno, sostiene che le conoscenze raggiunte dalla fisica rendono ormai inutile credere in una divinità creatrice dell’universo: “la creazione spontanea è la ragione per cui esiste qualcosa”.
Quarta tesi. La quasi totalità, o almeno la grande maggioranza degli scienziati sono atei. Questa è l’affermazione dell’ateismo scientifico militante che ha in Richard Dawkins, l’autore del libro God’s Delusion, L’illusione di Dio, il suo più attivo propagatore.
Tutte queste tesi si rivelano false, non in base a un ragionamento a priori o ad argomenti teologici e di fede, ma dall’analisi stessa dei risultati della scienza e delle opinioni di molti tra gli scienziati più illustri del passato e del presente. Uno scienziato del calibro di Max Planck, il fondatore della teoria dei “quanti”, dice, della scienza, quello Agostino, Tommaso d’Aquino, Pascal, Kierkegaard ed altri avevano affermato della ragione: “La scienza –dice – conduce a un punto oltre il quale non ci può più guidare”[4].
Io non insisto nella confutazione delle tesi enunciate che è stata fatta da scienziati e filosofi della scienza, con una competenza che io non ho. Cito, per esempio, la puntuale critica di Roberto Timossi, nel libro L’illusione dell’ateismo. Perché la scienza non nega Dio, che reca la presentazione del Card. Angelo Bagnasco (Edizioni San Paolo 2009). Mi limito a una osservazione elementare. Nella settimana in cui i media diffusero l’affermazione ricordata, secondo cui la scienza ha reso inutile l’ipotesi di un creatore, mi son trovato nella necessità, nell’omelia domenicale, di spiegare a dei cristiani molto semplici, in una cittadina del Reatino, dove è l’errore di fondo degli scienziati atei e perché non dovevano lasciarsi impressionare dallo scalpore suscitato da quell’affermazione. L’ho fatto con un esempio che forse può essere utile ripetere anche qui, in un contesto così diverso.
Ci sono uccelli notturni, come il gufo e la civetta, il cui occhio è fatto per vederci di notte al buio, non di giorno. La luce del sole li accecherebbe. Questi uccelli sanno tutto e si muovono a loro agio nel mondo notturno, ma non sanno nulla del mondo diurno. Adottiamo per un momento il genere delle favole, dove gli animali parlano tra di loro. Supponiamo che un’aquila faccia amicizia con una famiglia di civette e parli loro del sole: di come esso illumina tutto, di come, senza di lui, tutto piomberebbe nel buio e nel gelo, come il loro stesso mondo notturno non esisterebbe senza il sole. Cosa risponderebbe la civetta se non: “Tu racconti fandonie! Mai visto il vostro sole. Noi ci muoviamo benissimo e ci procuriamo il cibo senza di esso; il vostro sole è un’ipotesi inutile e dunque non esiste”.
È esattamente quello che fa lo scienziato ateo quando dice: “Dio non esiste”. Giudica un mondo che non conosce, applica le sue leggi a un oggetto che è fuori della loro portata. Per vedere Dio occorre aprire un occhio diverso, occorre avventurarsi fuori della notte. In questo senso, è ancora valida l’antica affermazione del salmista: “Lo stolto dice: Dio non esiste”.
2. No allo scientismo, sì alla scienza
Il rifiuto dello scientismo non ci deve naturalmente indurre al rifiuto della scienza o alla diffidenza nei confronti di essa. Fare diversamente sarebbe un far torto alla fede, prima ancora che alla scienza. La storia ci ha dolorosamente insegnato dove porta un simile atteggiamento.
Di un atteggiamento aperto e costruttivo verso la scienza ci ha dato un esempio luminoso il neo beato John Henry Newman. Nove anni dopo la pubblicazione dell’opera di Darwin sulla evoluzione delle specie, quando non pochi spiriti intorno a lui si mostravano turbati e perplessi, egli li rassicurava, esprimendo un giudizio che anticipava di un secolo e mezzo quello attuale della Chiesa sulla non incompatibilità di tale teoria con la fede biblica. Vale la pena riascoltare i brani centrali della sua lettera al canonico John Walker:
“Essa [la teoria di Darwin] non mi fa paura […] Non mi sembra filare logicamente che venga negata la creazione per il fatto che il Creatore, milioni di anni fa, abbia imposto leggi alla materia. Non neghiamo né circoscriviamo il Creatore per il fatto che abbia creato l’azione autonoma che ha dato origine all’intelletto umano, dotato quasi di un talento creativo; assai meno allora neghiamo o circoscriviamo il suo potere, se riteniamo che Egli abbia assegnato alla materia leggi tali da plasmare e costruire mediante la propria cieca strumentalità attraverso innumerevoli ère il mondo come lo vediamo[…]. La teoria del signor Darwin non necessariamente deve essere atea, che essa sia vera o meno; può semplicemente star suggerendo un’idea più allargata di Divina Prescienza e Capacità…. A prima vista non vedo come ‘l’evoluzione casuale di esseri organici’ sia incoerente con il disegno divino – È casuale per noi, non per Dio”[5].
La sua grande fede permetteva a Newman di guardare con grande serenità alle scoperte scientifiche presenti o future. “Quando un diluvio di fatti, accertati o presunti, ci si rovescia addosso, mentre infinti altri già cominciano a delinearsi, tutti i credenti, cattolici o no, si sentono sollecitati a esaminare quale significato abbiamo tali fatti”[6]. Egli vedeva in tali scoperte una “una attinenza indiretta con le opinioni religiose”. Un esempio di questa attinenza, io penso, è proprio il fatto che negli stessi anni in cui Darwin elaborava la teoria dell’evoluzione delle specie, egli, indipendentemente, enunciava la sua dottrina dello “sviluppo della dottrina cristiana”. Accennando all’analogia, su questo punto, tra l’ordine naturale e fisico e quello morale egli scriveva: ”Come il Creatore riposò il settimo giorno dopo l’opera compiuta, e tuttavia egli ‘opera ancora’, così egli comunicò una volta per tutte il Credo all’origine, eppure favorisce ancora il suo sviluppo e provvede al suo incremento”[7].
Dell’atteggiamento nuovo e positivo da parte della Chiesa cattolica nei confronti della scienza è espressione concreta l’Accademia Pontificia delle scienze, in cui eminenti scienziati di tutto il mondo, credenti e non credenti, si incontrano per esporre e dibattere liberamente le loro idee su problemi di comune interesse per la scienza e per la fede.3. L’uomo per il cosmo o il cosmo per l’uomo?
Ma, ripeto, non è mio intendo impegnarmi qui in una critica generale dello scientismo. Quello che mi preme mettere in luce è un aspetto particolare di esso che ha un’incidenza diretta e decisiva sulla evangelizzazione: si tratta della posizione che occupa l’uomo nella visione dello scientismo ateo.
È ormai una gara tra gli scienziati non credenti, soprattutto tra biologi e cosmologi, a chi si spinge più avanti nell’affermare la totale marginalità e insignificanza dell’uomo nell’universo e nello stesso grande mare della vita. “L’antica alleanza è infranta – ha scritto Monod -; l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo”[8]. “Ho sempre pensato –afferma un altro – di essere insignificante. Conoscendo le dimensioni dell’Universo, non faccio che rendermi conto di quanto lo sia davvero… Siamo solo un po’ di fango su un pianeta che appartiene al sole”[9].
Blaise Pascal ha confutato in anticipo questa tesi con un argomento che nessuno ha potuto finora e potrà mai confutare:
“L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo; un vapore, una goccia d’acqua bastano a ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire, e la superiorità che l’universo ha su di lui; mentre l’universo non ne sa nulla”[10].
La visione scientista della realtà, insieme con l’uomo, toglie di colpo dal centro dell’universo anche Cristo. Egli viene ridotto, per usare le parole di M. Blondel, a “un incidente storico, isolato dal cosmo come un episodio posticcio, un intruso o uno spaesato nella schiacciante e ostile immensità dell’Universo”[11].
Questa visione dell’uomo comincia ad avere dei riflessi anche pratici, a livello di cultura e di mentalità. Si spiegano così certi eccessi dell’ecologismo che tendono a equiparare i diritti degli animali e perfino delle piante a quelli dell’uomo. E’ risaputo che ci sono animali accuditi e nutriti molto meglio di milioni di bambini. L’influsso si avverte anche in campo religioso. Vi sono forme diffuse di religiosità in cui il contatto e la sintonia con le energie del cosmo ha preso il posto del contatto con Dio come via di salvezza. Quello che Paolo diceva di Dio: “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti 17, 28), lo si dice qui del cosmo materiale.
Per certi aspetti, si tratta del ritorno alla visione pre-cristiana che aveva come schema: Dio – cosmo – uomo, e alla quale la Bibbia e il cristianesimo opposero lo schema: Dio – uomo – cosmo. In altre parole, il cosmo è per l’uomo, non l’uomo per il cosmo. Una delle accuse più violente che il pagano Celso rivolge a giudei e cristiani è di affermare che “c’è Dio e, subito dopo lui, noi, dal momento che siamo creati da lui a sua completa somiglianza; tutto ci è subordinato: la terra, l’acqua, l’aria, le stelle; tutto esiste per noi ed è ordinato al nostro servizio” [12].
C’è però anche una profonda differenza: nel pensiero antico, soprattutto greco, l’uomo, seppure subordinato al cosmo, riveste un’altissima dignità, come ha messo in luce l’opera magistrale di Max Pohlenz, “L’uomo greco”[13]; qui invece sembra che si prenda gusto a deprimere l’uomo e spogliarlo di ogni pretesa di superiorità sul resto della natura. Più che di “umanesimo ateo”, almeno da questo punto di vista, di dovrebbe parlare, a mio parere, di anti-umanesimo, o addirittura di disumanesimo ateo.
Veniamo ora alla visione cristiana. Celso non si sbagliava nel farla derivare dalla grande affermazione di Genesi 1, 26 sull’uomo creato “a immagine e somiglianza” di Dio[14]. La visione biblica ha trovato la sua più splendida espressione nel Salmo 8:
Quand’io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai disposte,
che cos’è l’uomo perché tu lo ricordi?
Il figlio dell’uomo perché te ne prenda cura?
Eppure tu l’hai fatto solo di poco inferiore a Dio,
e l’hai coronato di gloria e d’onore.
Tu lo hai fatto dominare sulle opere delle tue mani,
hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi.
La creazione dell’uomo a immagine di Dio ha delle implicazioni per certi versi sconvolgenti sulla concezione dell’ uomo che il dibattito attuale che ci spinge a portare alla luce. Tutto si fonda sulla rivelazione della Trinità recata da Cristo. L’uomo è creato a immagine di Dio, il che vuol dire che egli partecipa all’intima essenza di Dio che è relazione d’amore tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Solo l’uomo, in quanto persona capace di relazioni, partecipa alla dimensione personale e relazionale di Dio.
Questo significa che egli, nella sua essenza, anche se ad un livello creaturale, è ciò che, a livello increato, sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, nella loro essenza. La persona umana è “persona” proprio per questo nucleo razionale che la rende capace di accogliere la relazione che Dio vuole stabilire con essa e allo stesso tempo diventa generatore delle relazioni verso gli altri e vero il mondo. E’ evidente che c’ è un fossato ontologico tra Dio e la creatura umana. Tuttavia, per grazia (mai dimenticare questa precisazione!), questo fossato è colmato, così che esso è meno profondo di quello esistente tra l’ uomo e il resto del creato.
4. La forza della verità
Proviamo a vedere come si potrebbe tradurre sul piano dell’evangelizzazione questa visione cristiana del rapporto uomo-cosmo. Anzitutto una premessa. Riassumendo il pensiero del maestro, un discepolo di Dionigi Areopagita ha enunciato questa grande verità: “Non si devono confutare le opinioni degli altri, né si deve scrivere contro una opinione o una religione che sembra non buona. Si deve scrivere solo a favore della verità e non contro gli altri”[15].
Non si può assolutizzare questo principio (a volte può essere utile e necessario confutare delle dottrine false), ma è certo che l’esposizione positiva della verità è spesso più efficace che non la confutazione dell’errore contrario. È importante, credo, tener conto di questo criterio nell’evangelizzazione e in particolare nei confronti dei tre ostacoli menzionati: scientismo, secolarismo e razionalismo. Più efficace che la polemica contro di essi è, nella evangelizzazione, la esposizione irenica della visione cristiana, facendo assegnamento sulla forza intrinseca di essa quando è accompagnata da intima convinzione e viene fatta, come inculcava San Pietro, “con dolcezza e rispetto” (1 Pt 3,16).
L’espressione più alta della dignità e della vocazione dell’uomo secondo la visione cristiana si è cristallizzata nella dottrina della divinizzazione dell’uomo. Questa dottrina non ha avuto lo stesso rilievo nella Chiesa ortodossa e in quella latina. I Padri greci, superando tutte le ipoteche che l’uso pagano aveva accumulato sul concetto di deificazione (theosis), fecero di essa il fulcro della loro spiritualità. La teologia latina ha insistito meno su di essa. “Lo scopo della vita per i cristiani greci – si legge nel “Dictionnaire de Spiritualité” – è la divinizzazione, quello dei cristiani d’occidente è l’acquisizione della santità…Il Verbo si è fatto carne, secondo i greci, per restituire all’uomo la somiglianza con Dio perduta in Adamo e per divinizzarlo. Secondo i latini, egli si è fatto uomo per redimere l’umanità…e per pagare il debito dovuto alla giustizia di Dio”[16]. Potremmo dire, semplificando al massimo, che la teologia latina, dietro Agostino, insiste di più su ciò che Cristo è venuto a togliere – il peccato -, quella greca insiste di più su ciò che egli è venuto a dare agli uomini: l’immagine di Dio, lo Spirito Santo e la vita divina.
Non si deve forzare troppo questa contrapposizione, come a volte si tende a fare da parte di autori ortodossi. La spiritualità latina esprime a volte lo stesso ideale anche se evita il termine divinizzazione che, giova ricordarlo, è estraneo al linguaggio biblico. Nella Liturgia delle ore della notte di Natale riascolteremo la vibrante esortazione di san Leone Magno che esprime la stessa visione della vocazione cristiana: “Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricordati chi è il tuo Capo e di quale Corpo sei membro”[17].
Purtroppo certi autori ortodossi sono rimasti fermi alla polemica del secolo XIV tra Gregorio Palamas e Barlaam e sembrano ignorare la ricca tradizione mistica latina. La dottrina di san Giovanni della Croce, per esempio, secondo cui il cristiano, redento da Cristo e reso figlio nel Figlio, è immerso nel flusso delle operazioni trinitarie e partecipa della vita intima di Dio, non è meno elevata di quella della divinizzazione, anche se espressa in termini diversi. Anche la dottrina sui doni di intelletto e di sapienza dello Spirito Santo, così cara a san Bonaventura e agli autori medievali, era animata dallo stesso afflato mistico.
Non si può tuttavia non riconoscere che la spiritualità ortodossa ha qualcosa da insegnare su questo punto al resto della cristianità, alla teologia protestante ancor più che alla teologia cattolica. Se c’è infatti qualcosa di veramente opposto alla visione ortodossa del cristiano deificato dalla grazia, questo è la concezione protestante, e in particolare luterana, della giustificazione estrinseca e forense, per cui l’uomo redento è “nello stesso tempo giusto e peccatore”, peccatore in sé stesso, giusto davanti a Dio.
Soprattutto possiamo imparare dalla tradizione orientale a non riservare questo ideale sublime della vita cristiana a una elite spirituale chiamata a percorre le vie della mistica, ma a proporla a tutti i battezzati, a farne oggetto di catechesi al popolo, di formazione religiosa nei seminari e nei noviziati. Se ripenso agli anni della mia formazione vi scorgo una insistenza quasi esclusiva su una ascetica che puntava tutto sulla correzione dai vizi e l’acquisto delle virtù. Alla domanda del discepolo sullo scopo ultimo della vita cristiana un santo russo, san Serafino di Sarov, rispondeva senza esitare: “Il vero fine della vita cristiana, è l’acquisizione dello Spirito Santo di Dio. Quanto alla preghiera, il digiuno, le veglie, l’elemosina e ogni altra buona azione fatta nel nome di Cristo, sono solo mezzi per acquisire lo Spirito Santo”[18].
5. “Tutto è stato fatto per mezzo di Lui”
Il Natale è l’occasione ideale per riproporre a noi stessi e agli altri questo ideale che è patrimonio comune della cristianità. È dall’incarnazione del Verbo che i Padri greci fanno derivare la possibilità stessa della divinizzazione. Sant’Atanasio non si stanca di ripetere: “Il Verbo si è fatto uomo affinché noi potessimo essere deificati”[19]. “Egli si è incarnato e l’uomo è divenuto Dio, poiché è unito a Dio”, scrive a sua volta san Gregorio Nazianzeno [20]. Con Cristo viene restaurato, o riportato alla luce quell’essere“ a immagine di Dio” che fonda la superiorità dell’uomo sul resto del creato.
Notavo sopra come l’emarginazione dell’uomo porta con sé automaticamente l’emarginazione di Cristo dal cosmo e dalla storia. Anche da questo punto di vista il Natale è l’antitesi più radicale alla visione scientista. In esso sentiremo proclamare solennemente: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1,3); “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1, 16). La Chiesa ha raccolto questa rivelazione e nel Credo ci fa ripetere: “Per quem omnia facta sunt”: Per mezzo di lui tutto è stato creato.
Riascoltare queste parole mentre intorno a noi non si fa che ripetere: “Il mondo si spiega da solo, senza bisogno dell’ipotesi di un creatore”, oppure “siamo frutto del caso e della necessità”, provoca indubbiamente uno shock, ma è più facile che una conversione e una fede sbocci da uno shock del genere che da una lunga argomentazione apologetica. La domanda cruciale è: saremo capaci, noi che aspiriamo a rievangelizzare il mondo, di dilatare la nostra fede a queste dimensioni da capogiro? Crediamo noi davvero, con tutto il cuore, che “tutto è stato fatto per mezzo di Cristo e in vista di Cristo”?
Nel suo libro di tanti anni fa Introduzione al cristianesimo lei, Santo Padre, scriveva: “Con il secondo articolo del ‘Credo’ siamo davanti all’autentico scandalo del cristianesimo. Esso è costituito dalla confessione che l’uomo-Gesú, un individuo giustiziato verso l’anno 30 in Palestina, sia il ‘Cristo’ (l’unto, l’eletto) di Dio, anzi addirittura il Figlio stesso di Dio, quindi centro focale, il fulcro determinante dell’intera storia umana…Ci è davvero lecito aggrapparci al fragile stelo d’un singolo evento storico? Possiamo correre il rischio di affidare l’intera nostra esistenza, anzi, l’intera storia, a questo filo di paglia d’un qualsiasi avvenimento, galleggiante nello sconfinato oceano della vicenda cosmica?”[21].
A queste domande, Santo Padre, noi rispondiamo senza esitazione come fa lei in quel libro e come non si stanca di ripetere oggi, nella veste di Sommo Pontefice: Sì, è possibile, è liberante ed è gioioso. Non per le nostre forze, ma per il dono inestimabile della fede che abbiamo ricevuto e di cui rendiamo infinte grazie a Dio.
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1) Benedetto XVI, Motu Proprio “Ubicunque et semper”, n.
2) Giovanni Paolo II, Parole sull’uomo, Rizzoli, Milano 2002, p. 443; cf. anche Enc. “Fides et ratio”, n. 88
3) J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano, 1970, pagg. 136-7.
4) M. Planck, La conoscenza del mondo fisico, p. 155, (cit. da Timossi, op.cit. p. 160)
5) J.H. Newman, Lettera al canonico J. Walker (1868), in The Letters and Diaries, vol. XXIV, Oxford 1973, pp. 77 s. (Trad. ital. Di P. Zanna).
6) J.H. Newman, Apologia pro vita sua, Brescia 1982, p.277
7) J.H. Newman, Lo sviluppo della dottrina cristiana, Bologna 1967, p. 95.
8) Monod, op. cit. p. 136.
9) P. Atkins, citato da Timossi, op. cit. p. 482.
10) B. Pascal, Pensieri, 377 (ed. Brunschwicg, n. 347),
11) M. Blondel et A. Valensin, Correspondance, Aubier, Parigi 1957, p. 47.
12) In Origene, Contra Celsum, IV, 23 (SCh 136, p.238; cf. anche IV, 74 (ib. p. 366)
13) Cf. M. Pohlenz, L’uomo greco, Firenze 1962.
14) In Origene, op. cit., IV, 30 (SCh 136, p. 254).
15) Scolii a Dionigi Areopagita in PG 4, 536; cf. Dionigi Areopagita, Lettera VI (PG, 3, 1077).
16) G. Bardy, in Dct. Spir., III, col. 1389 s.
17) S. Leone Magno, Discorso 1 sul Natale (PL 54, 190 s.).
18) Dialogo con Motovilov, in Irina Gorainoff, Serafino di Sarov, Gribaudi, Torino 1981. p. 156.
19) S. Atanasio, L’incarnazione del Signore, 54 (PG 25, 192B).
20) S. Gregorio Nazianzeno, Discorsi teologici, III, 19 (PG 36, 100A).
21) J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia 1969, p.149.