La scienza ci racconta una storia meravigliosa, quella del mutare delle sembianze del mondo fisico, dalle particelle alle galassie. Quando ad esempio con il satellite Planck scrutiamo le profondità dell’universo, raccogliendo la prima luce rilasciata 13,7 miliardi di anni fa da un stato ad altissima temperatura e densità, vediamo letteralmente in diretta l’alba del tempo. I progressi della fisica hanno chiarito molti fattori della prodigiosa storia dell’universo aprendo al tempo stesso nuove sfide che in futuro potrebbero portarci a modificare anche profondamente la nostra attuale concezione cosmologica. Ma nonostante le recenti uscite del collega Stephen Hawking, non c’è vera scoperta scientifica che possa offuscare la domanda vertiginosa sulla creazione: ultimamente, da dove viene tutto ciò?
Nei miliardi di anni l’universo è passato da uno stato di massima semplicità a una fioritura impensabile, nella quale hanno trovato posto la complessità e la vita, fino alla coscienza. Alcuni scienziati, forse preoccupati di evitare ogni cenno finalistico, propongono che la straordinaria predisposizione dell’universo alla vita sia un puro effetto di selezione. Ad essi si è unito anche Hawking, con il suo ultimo libro divulgativo annunciato nei giorni scorsi da un battage mediatico internazionale senza precedenti. Essi postulano l’esistenza di una moltitudine di universi, sconnessi e inaccessibili, nei quali le proprietà di base (leggi fisiche, valore delle costanti, dimensioni spazio-temporali…) assumono tutti i possibili valori, diversi da quelli che abbiamo “quaggiù”, nel nostro universo. Noi vediamo un cosmo adatto alla vita semplicemente perché tra gli innumerevoli universi (che insieme costituirebbero il cosiddetto “multiverso”) non potevamo che ritrovarci in uno di quelli compatibili con essa. Non ci sarebbe dunque bisogno di una scelta preordinata da parte di un creatore. Per la verità l’idea non è affatto originale, visto che fu proposta nel 1895 dal filosofo William James, e da allora è stata più volte riciclata in diverse versioni in ambito cosmologico. Ma dal punto di vista scientifico questa visione soffre di una grave malattia: essa non può essere verificata o falsificata, essendo le altre regioni del “multiverso” per definizione causalmente sconnesse dalla nostra. Il che allo stato attuale rende quest’idea più simile a una opzione metafisica che a una teoria scientifica, e come tale andrebbe presentata – indipendentemente dalla fama dell’autore – e eventualmente paragonata ad altre visioni metafisiche.
Ma ammettiamo per un momento, facendo leva sulla fantasia, che un domani troveremo nuovi percorsi che ci permetteranno di parlare in modo scientificamente sensato di una realtà fisica che eccede quello che oggi chiamiamo “universo”: sarebbe davvero interessante! Ma in quel caso avremmo solo spostato più in là l’orizzonte, come quando Bessel nel 1838 misurò la prima distanza di una stella (61 Cygni), o quando Hubble nel 1922 mostrò che l’universo non coincide con la nostra Galassia ma è un oceano di miliardi di galassie. L’universo sarebbe ancor più vasto di quel che oggi pensiamo, ma la domanda fondamentale resterebbe intatta: da dove proviene, ultimamente, tutto ciò?
«L’universo ha creato se stesso dal nulla, non c’è bisogno di alcun creatore», risponde Hawking, caricando l’affermazione della sua pesante autorità di scienziato. Ma che cos’è allora questo “nulla” dal quale tutto avrebbe preso le mosse? Hawking risponderà che è il “vuoto” quantistico primordiale nel quale una fluttuazione può dare origine a una particella, e in linea di principio a realtà fisiche più complesse. Ma questo significa che il “vuoto” dei fisici è radicalmente diverso dal “nulla” del filosofo e del teologo. Anzi, se le cose fossero davvero andate così, quel “vuoto” iniziale finirebbe per essere l’opposto del “nulla”: sarebbe la realtà fisica più “piena” che si possa immaginare, il seme creato dal quale sboccia il fiore dell’universo.
Rinasce perciò inevitabile la domanda: questo “vuoto” primordiale, da dove viene? E le leggi della fisica, che in esso agiscono, chi se l’è inventate? Se anche ci fossero moltitudini di universi con leggi diverse, da dove verrebbe la meta-legge così ben congegnata da generare tutto ciò? L’esigenza di spiegazione della ragione umana non si arresta: nessuna “teoria del tutto” potrà mai acquietare la sete di indagare oltre.
Ma c’è un’ultima, più pungente domanda: perché? È la stessa domanda del bambino. E del filosofo: «Perché l’essere invece che il nulla?», direbbe lui. Oppure del poeta: «A che tante facelle?». Perché il fiore, a che scopo l’universo? Perché noi, in questo immenso alveo cosmico, così stranamente capaci di comprendere il reale? Perché questa bellezza del mondo, che la scienza ci consente di contemplare sempre più in profondità? Perché il dolore, perché il nostro infinito desiderio, la nostra sete di conoscenza e di felicità? Ecco l’esigenza abissale, alla quale la scienza non è capace neanche di balbettare una risposta. Da dove proviene l’esserci delle cose, ora? L’evidenza della creazione non va cercata anzitutto nel passato, ma nella sorpresa che le cose ci sono in ogni istante, ora: io non mi faccio da me, ogni cosa, se potesse pensare, dovrebbe dire: «Io non mi faccio da me». Quel momento drammatico di 13,7 miliardi di anni fa, quando tempo e spazio ebbero inizio, è un segno grandioso della contingenza dell’universo. Ma la creazione non è relegata a quel remoto evento. Essa è l’atto misterioso che trae dal nulla ogni istante di ogni stella o fiore o bimbo dell’universo.