Quale bene dalla scienza?

Benedetta CappelliniEditoriale

Meeting di Rimini 2010
“Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore”: è il titolo del prossimo Meeting di Rimini, al quale anche quest’anno Euresis darà un contributo per quanto riguarda i vari eventi di carattere scientifico. E’ un tema che chiama in causa in modo profondo l’esperienza scientifica perché, come ogni tensione alla conoscenza, essa è una manifestazione di quell’impeto umano che “ci spinge a desiderare cose grandi”. La scienza è un’espressione peculiare della nostra sete innata di senso, di verità e di bellezza, che si esprime in questo caso come ricerca dell’ordine unitario nascosto dietro alla varietà dei fenomeni naturali che si presentano alla nostra esperienza. Negli ultimi quattro secoli, da Galileo a oggi, la scienza moderna ha ottenuto successi sorprendenti, e ha prodotto applicazioni tecnologiche che non cessano di proliferare e che influiscono sulla nostra mentalità in modo profondo e pervasivo.
Ma qual è veramente il bene che ci può venire dalla scienza? Quale contributo positivo offre la conoscenza scientifica alla persona? Ci sono naturalmente i molti benefici applicativi di cui tutti godiamo, dalle comunicazioni alla medicina. Ma quali condizionamenti inducono, e a quale responsabilità ci chiamano? E che dire della ricerca fondamentale, che dell’innovazione è condizione necessaria? La comprensione della struttura dell’universo, la scoperta della natura profonda della materia o della complessità del nostro cervello, la grandezza e l’unità del quadro che s’intravvede, sono in se stessi un bene per tutti, oppure no?  E a quali condizioni? E’ decisivo porsi apertamente queste domande in un tempo in cui la crisi economica mondiale rischia di condurre la ricerca fondamentale su un binario morto. Proprio chi si occupa di scienza ai massimi livelli può portare una testimonianza credibile della grandezza e, al tempo stesso, della non-autosufficienza del conoscere scientifico. Questo accadrà anche quest’anno al Meeting: un’occasione da non perdere.
Ma una cosa è sicura: se è vero che scienza e tecnologia pongono la speranza di un bene, esse non assicurano la felicità. La scienza non basta all’uomo – come, di per sé, non gli bastano la filosofia o la teologia. E’ vera e drammatica l’affermazione di San’Agostino, citata da Benedetto XVI nel famoso discorso alla Sapienza, “il semplice sapere rende tristi”. C’è un tratto profondo di quella tristezza che in qualche modo ci accomuna tutti. Perché la nostra esigenza di felicità e di verità ha un orizzonte sconfinato, un orizzonte che non si può circoscrivere entro gli esiti finiti delle sue, pur mirabili, conquiste conoscitive o progettuali. Noi siamo fatti per l’infinito, e nessuna conoscenza parziale sazia la nostra sete. Così la vena di tristezza che, insieme alla gratitudine,  accompagna ogni nostra esperienza di scoperta o di nuova conoscenza è un invito a renderci conto della natura irriducibile del nostro cuore.
Nell’attuale clima culturale, permeato da versioni riciclate della vecchia riduzione scientista, possiamo renderci conto di che cosa accade della nostra mentalità se trattiamo il reale come se fosse riducibile a ciò che di esso possiamo conoscere con il metodo scientifico e controllare con la tecnologia. I sintomi sono sotto i nostri occhi: una ragione che tende a ridursi ad astrazione, la perdita del valore della singola persona, l’affievolimento del senso del reale fino al venir meno del gusto della corporalità delle cose. Al contrario, l’esperienza di chi vive in prima persona la ricerca scientifica come lavoro e passione mostra che occorre un territorio umano più vasto della sola ragione scientifica per apprezzare e sostenere la scienza stessa.