Augusto Pessina, Avvenire, 25 maggio 2010
Riproponiamo il commento di Augusto Pessina, così come è stato pubblicato su Avvenire del 25 maggio 2010. È una riflessione che non ha solo carattere tecnico e l’autorevolezza di un esperto nel campo (Pessina è Presidente della Associazione Italiana di Colture Cellulari e professore di Microbiologia e Virologia alla Università degli Studi di Milano), ma anche la consapevolezza che il senso della «vita» ha un respiro immensamente grande, più dei tentativi che portano l’uomo a manipolare organismi viventi con tecnologie di livello sempre più elevato. Ho sentito con le mie orecchie in convegni e dibattiti chiamare «progetto di vita» un embrione umano interamente formato e in sviluppo nel grembo della madre. Ho letto nei giorni scorsi sui giornali che un piccolo microscopico battere è «vita». Mi sembra un bel passo avanti.
Chiamare la manipolazione fatta da Craig Venter «creazione di vita artificiale» è veramente fuori da ogni paradigma perché non solo non c’è stata alcuna creazione e poco o niente è stato fatto di artificiale, molto direi di artificioso.
Infatti il gruppo di Rockville ha usato una «vita» già esistente il cui Dna è stato sostituito con un Dna preparato in laboratorio e la cui sintesi è stata fatta utilizzando cellule di lievito e quindi altri «esseri viventi».
Tutto questo non diminuisce l’importanza del lavoro fatto da Venter e l’alto livello tecnologico espresso da questo lavoro che pare sia costato la bellezza di 30 milioni di dollari. Il fatto più inquietante è che i mezzi di comunicazione hanno caricato questo risultato di fattori ideologici che hanno alimentato grande confusione.
Il grande scienziato Erwin Chargaff (il cui lavoro sull’accoppiamento delle basi ha permesso di scoprire la doppia elica del Dna) scriveva: «Non sappiamo cosa sia la vita, eppure la manipoliamo come fosse una soluzione salina». In questo caso hanno manipolato il risultato di un esperimento tecnologico trasformandolo nella risposta a quelle domande che la filosofia e la scienza si pongono da millenni e cioè «cosa è la vita». Non solo, ma hanno introdotto un concetto di vita assolutamente riduttivo: una cosa è la vita biologica, altro è «la vita» nel senso personale che ognuno di noi percepisce.
Eppure nel clima di nichilismo in cui ci tocca vivere forse questo modo di porre il problema potrebbe anche aver qualche risvolto positivo. Quello di aiutare ciascuno a riporre la domanda giusta: ma allora «cosa è la vita ?».
È probabile che anche il più sprovveduto dei lettori possa rendersi conto che questa domanda va oltre la biologia, perché è una domanda che riguarda il senso stesso della «vita umana», visto che è un soggetto umano che la pone. Che senso avrebbe discutere sulla «vita» in modo astratto? Interessa davvero una discussione biologica che non abbia una ricaduta sul senso del proprio esistere e di quelli cui si vuole bene?
Scrive ad esempio Luigi Giussani: «Cosa è la vita più che la salute, i soldi, il rapporto tra l’uomo e la donna, i figli, il lavoro? Cosa è la vita più di questo? Cosa implica ? La vita implica tutto questo, ma con uno scopo di tutto, con un significato».
Perfino Karl Popper scrive: «Non sappiamo come si possa spiegare, e se sia spiegabile che noi viviamo su questo piccolo meraviglioso pianeta. Ma noi siamo qui ed abbiamo ogni motivo per stupircene ed esserne riconoscenti. È certo un miracolo. Tutti gli uomini sono filosofi e ve ne sono alcuni che reputano la vita priva di valore perché essa ha un termine. Trascurano che l’argomento opposto è altrettanto sostenibile: se non vi fosse una fine la vita non avrebbe alcun valore. Trascurano che è in parte il costante pericolo di perdere la vita che ci aiuta a comprenderne il valore».
Ma non è proprio questo senso della sua finitezza che pone alla coscienza, per contraccolpo, l’interesse per ciò che dura? Per ciò che sia eterno?
È questa profonda riflessione che fa dire al grande teologo Romano Guardini: «L’eterno non è in rapporto con la vita biologica, bensì con la persona. Essa non conserva quest’ultima perpetuandola, bensì la realizza in senso assoluto. È man mano che la fine si avvicina che si vede chiaramente che la vita ha un significato che trascende la vita stessa».
Ma questo significato non ce lo può dare la scienza e tanto meno la tecnologia. Questo significato lo potremo trovare solo se avremo il coraggio di andare al fondo della nostra umanità, dove nasce il desiderio di infinito e di eterno, cioè a quel «cuore» di cui ogni uomo è fatto, l’immagine e la somiglianza con il suo Creatore.
(*) Presidente Associazione Italiana di Colture Cellulari
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