Viaggio all’inizio del cosmo

Benedetta CappelliniRassegna Stampa

Alla caccia della luce primordiale, quella liberata 14 miliardi di anni fa dal Big Bang. E dell’energia oscura che 5 miliardi di anni orsono ha impresso un’imprevista accelerazione all’espansione dell’universo. Le parole per descrivere gli obiettivi della missione di Planck, il satellite osservatorio dell’Agenzia spaziale europea (Esa) lanciato il 14 maggio di un anno fa dal poligono di Kourou nella Guyana francese, più che a un report scientifico rimandano alla trama di un racconto di fantascienza o di un film fantasy tipo La bussola d’oro. Eppure il pellegrinaggio spaziale di Planck è realissimo e la sua ricerca è seria, talmente seria che decine di persone ci stanno dedicando la vita, mossi da autentica passione. «Il segreto in queste cose è lavorare con gente che ha la dedizione e l’entusiasmo per portarle avanti. Sono imprese molto complesse, che durano una vita e che si realizzano attraverso un grande lavoro di squadra, e questo è uno degli aspetti affascinanti del mio lavoro: condividere giorno per giorno questa avventura con tante persone dalle quali è bello imparare ogni volta o poter ricominciare insieme». Marco Bersanelli, docente di Astronomia e astrofisica alla Statale di Milano, è un componente del nucleo storico della missione Planck. All’inizio degli anni Novanta si trovava a Berkeley, California, quando venivano studiati i dati raccolti da Cobe, il satellite della Nasa che stava compiendo la prima missione sulla radiazione cosmica di fondo, che sarebbe il residuo termico e luminoso del Big Bang (detta anche “fondo di microonde”). Insieme ad altri formulò all’Esa la proposta di un’analoga ma più potente missione europea. Oggi che è divenuta realtà e lui è instrument scientist di uno dei due strumenti della sonda, Bersanelli irradia letizia che testimonia speranza. Speranza è coltivare una certezza per il futuro che nasce da qualcosa che è certo nel presente. Nel caso dell’astrofisico milanese le certezze del presente sono due: l’essere affiancato da «un team di giovani ricercatori straordinari che tutto il mondo ci invidia» e «l’alta qualità delle informazioni che, dalla metà dell’agosto dello scorso anno, Planck ci sta inviando».

Ecco, a 300 giorni dalla partenza, cosa ci sta raccontando Planck dell’universo e della sua storia dalla sua orbita distante 1,5 milioni di chilometri dalla Terra?

Quello che Planck ci racconta dell’universo e della sua storia lo si comincerà a sapere fra un anno circa. Adesso siamo nel pieno della raccolta delle informazioni, abbiamo appena concluso la prima scansione del cielo, e non abbiamo ancora nessuna analisi completata sull’universo primordiale. Ma le prime immagini della nostra galassia, che lascia la sua traccia nelle osservazioni, danno già risultati astrofisici di notevole interesse. E soprattutto dimostrano che i due strumenti montati sul satellite stanno funzionando alla grande. Siamo entusiasti di vedere che tutto il sistema, che è uno dei più complessi che sia stato mai inviato nello spazio, funziona a dovere.

Di che tipo di strumenti si tratta?

C’è un telescopio che guarda in profondità il cielo e sul suo piano focale sono collocati i due strumenti, che in realtà sono due mosaici di rilevatori: uno è simile a un insieme di ricevitori radio molto sensibili, l’altro corrisponde a una schiera di termometri. Il primo risuona sulle onde che arrivano dal fondo dell’universo, l’altro ne misura la temperatura. Il tutto raffreddato a temperature molto vicine allo zero assoluto.

Qual è il contributo italiano al progetto?

C’è moltissimo di italiano in Planck. L’Italia gioca un ruolo decisivo con un team scientifico che comprende, oltre al nostro gruppo milanese, anche l’Inaf di Bologna, la Sissa e l’Osservatorio di Trieste, l’Osservatorio di Padova, le Università della Sapienza, di Roma 2, di Padova e di Trieste. Il tutto con l’apporto dell’industria spaziale, in particolare della Thales Alenia Space di Milano e Torino, e con il supporto dell’Agenzia spaziale italiana. È motivo di soddisfazione vedere il nostro paese in prima fila in un’impresa del genere.

Per il profano: i dati raccolti sono delle immagini, dei tracciati, delle temperature o cos’altro?

Sono la temperatura del cielo punto per punto. E da queste misure possiamo costruire una mappa dell’intensità della luce primordiale; mettendo insieme punto per punto la temperatura e quindi l’intensità di questa luce, possiamo creare delle immagini.

Sarà possibile un giorno “fotografare” il momento del Big Bang?

Con Planck, se siamo fortunati, potremo avere indizi indiretti di cose che accadevano nell’universo a 10 alla meno 35 secondi dopo il Big Bang: un infinitesimo straordinario. Ma misurando direttamente la luce primordiale non potremo mai andare oltre la regione vista da Planck; non perché non potremo costruire telescopi più potenti, ma perché l’universo stesso diventa opaco oltre quel limite. Forse in un lontano futuro potremo rilevare non più la luce ma i neutrini, che sappiamo che sono stati rilasciati in un tempo ancora più vicino al Big Bang. I neutrini potrebbero portarci un’immagine o un’informazione diretta da un tempo ancora precedente. Ma per quanto ci si avvicini, quello che chiamiamo l’istante del Big Bang ci sfugge sempre.

Da qualche parte ho letto che l’universo è piatto. Cosa vuol dire? A noi sembra molto tridimensionale.

Piatto non vuol dire che è un piano, ma che è euclideo. Cioè che nelle tre dimensioni non abbiamo una curvatura. Che l’universo è euclideo vuol dire che se noi prendiamo tre punti nello spazio a grandi distanze, diciamo qualche miliardo di anni luce, il triangolo che formano questi tre punti ha angoli la cui somma fa ancora 180 gradi, proprio come in un “normale” triangolo. Questo vuol dire che l’universo è piatto. Se l’universo fosse curvo, dati tre punti molto distanti tra loro, la somma degli angoli sarebbe diversa da 180 gradi.

Quel che lei dice ispira un’altra domanda: l’universo ha una struttura matematica o siamo noi che applichiamo uno schema per dare un senso a quello che ci troviamo davanti?

Come diceva Einstein, la cosa più incomprensibile dell’universo è il fatto che l’universo sia comprensibile. La matematica è un linguaggio che la nostra mente è capace di sviluppare. Che questo linguaggio umano descriva la realtà fisica fino a livelli profondissimi, questo resta un grande mistero. L’ordine che compagina l’universo è descrivibile proprio secondo il linguaggio matematico, e questo è un fatto: non si tratta di uno schema che applichiamo noi, ma di una corrispondenza che scopriamo, e che ci lascia stupefatti. Diceva Paul Eugene Wigner, premio Nobel per la fisica: «Il fatto miracoloso che la matematica sia adeguata a descrivere le leggi della fisica è un dono che noi non comprendiamo e non meritiamo». Non è un sapere di cui l’uomo ha bisogno per sopravvivere: l’uomo è sopravvissuto benissimo fino a pochi secoli fa pur senza conoscere le leggi dell’espansione dell’universo, della meccanica quantistica. Eppure siamo in grado di conoscerle e le stiamo conoscendo.

Ma quel che si impara da missioni come Planck è solo sapere puro, come abbiamo detto adesso, o può avere applicazioni tecniche?

Il motivo per cui noi fisici ci dedichiamo a queste cose è una sete di conoscenza: scoprire com’è strutturato l’universo, da quali ingredienti è costituito, quali sono i fattori determinanti la sua evoluzione. Poi quello che succede è che nello spingere la tecnologia a livelli nuovi per rispondere alle domande sulla fisica dell’universo, ci si accorge che certe cose hanno un’utilità pratica. La storia dell’astronomia è piena di ricadute nel campo della medicina, delle telecomunicazioni, dei trasporti, dei nuovi materiali. È come con la Formula 1: la si corre per passione, ma molti suoi accorgimenti dopo qualche anno diventano dotazioni di serie sulle nostre automobili.
Si legge spesso che l’universo è formato per il 4 per cento di materia ordinaria e di un 96 per cento di materia e di energia oscure, delle quali non sappiamo quasi nulla.

Ma se non ne sappiamo nulla, come possiamo dire che costituiscono il 96 per cento dell’universo?

Dagli effetti che producono. La materia oscura è materia invisibile che agisce gravitazionalmente: osservando la rotazione delle galassie, oppure il movimento all’interno delle galassie o negli ammassi di galassie, noi ci accorgiamo che c’è molta più materia gravitazionalmente attiva di quella visibile, costituita dalle stelle. L’energia oscura, che dovrebbe rappresentare il 70 per cento della materia, è una scoperta più recente e ancora soggetta a dibattito. La maggior parte degli astrofisici si è convinta della sua esistenza attraverso l’osservazione di supernove lontane (esplosioni di stelle), che ci hanno fatto scoprire una cosa sorprendente e fino a una decina di anni fa imprevista: che l’espansione dell’universo sta accelerando. Tutti quanti si era convinti che l’espansione dell’universo fosse in costante rallentamento a causa della gravità, che si oppone all’espansione. E invece oramai sappiamo che l’universo, negli ultimi 5 miliardi di anni circa, ha ricominciato ad accelerare. Per spiegare questo dobbiamo ipotizzare l’esistenza di questa energia invisibile, l’energia oscura, della cui natura fisica però non abbiamo la più pallida idea.

Ma perché chiamarle materia oscura ed energia oscura? Non sarebbe meglio chiamarle materia ed energia invisibili?

Sì, sarebbe più corretto. Forse il termine “oscura” è piaciuto mediaticamente. Sarebbe molto più corretto dire trasparente o invisibile o cristallina.

La luce invece riguarda il 4 per cento di materia conosciuta, che però non è tutta luminosa…

Esatto. In realtà la materia ordinaria è questo 4 per cento, ma solo una frazione di questo 4 per cento è in materia di cui vediamo direttamente la luce.

Se ne conclude che la luce è estremamente rara nell’universo. Che spiegazione vi date di questo?

La luce non è rara, è la materia che è in grado di emettere luce che è rara. E tuttavia per ogni barione, cioè per ogni particella di materia ordinaria, ci sono dieci miliardi di fotoni, le particelle della luce. Dunque di luce ce n’è tanta! Il grosso della luce nell’universo è rappresentato dal fondo di microonde, che è la luce primordiale. Il resto viene dalle stelle e altre sorgenti, ed è una piccola parte. La luce è un messaggero straordinario nell’universo, perché attraversa lo spazio per miliardi di anni. La luce che Planck sta osservando ha fatto un viaggio di 14 miliardi di anni, porta un messaggio che viene dal profondo del tempo dell’universo. E la cosa stupefacente è che ogni fotone che porta questo messaggio per miliardi di anni, nel momento in cui arriva a destinazione scompare. Come un maratoneta che sacrifica la sua vita per portare il suo ultimo messaggio.

Arriva a destinazione dove?

In questo caso nei detector di Planck, ma anche andando a interagire con un pianeta, con una stella, con qualunque struttura di quel 4 per cento di materia ordinaria dell’universo.

Ma allora che cos’è la luce?

Cosa sia la luce è un grande mistero. Ha come due anime: una corpuscolare e una ondulatoria, è allo stesso tempo una particella e un’onda. Questa è una delle grandi scoperte dell’inizio del Novecento, che ha rivoluzionato il nostro modo di guardare a tutte le particelle e che ha dato origine alla meccanica quantistica. La luce è un messaggero che ci porta conoscenze su tutto l’universo ma trascende la nostra capacità di visualizzare la sua natura.

Da bambini ci si chiedeva: l’universo è davvero infinito? E se invece ha una fine, cosa c’è dopo la fine dell’universo? Oggi queste domande ingenue hanno un qualche senso o una qualche risposta?

Alcune risposte si possono dare, altre non ancora e altre ancora forse non le potremo mai dare. Noi possiamo dire con sicurezza che l’universo accessibile alla nostra osservazione è finito. Ha senso parlare di un oltre? Il problema è che andando verso questo orizzonte dell’oltre si va verso quello che è l’inizio dell’espansione dell’universo, cioè ci si avvicina al momento in cui spazio e tempo hanno preso l’avvio. Parlarne, anche dal punto di vista epistemologico, non è facile. Se l’universo, come abbiamo detto prima, ha una geometria euclidea, possiamo estrapolare questa fino a immaginare che lo spazio nel suo insieme abbia un’estensione infinita. Tuttavia questo noi lo potremo verificare solo in un volume finito, e quindi molto probabilmente quelle riguardo all’universo al di là dell’orizzonte osservabile credo che resteranno domande fondamentalmente aperte e non verificabili scientificamente.

L’universo ha avuto origine col Big Bang e si espande accelerando. Che accadrà quando questa espansione avrà fine?

La scoperta dell’accelerazione ha un po’ scombinato le idee che si avevano al riguardo. Se continuerà dovremo aspettarci che in un lontano futuro – parliamo di miliardi di anni – tutte le galassie che oggi possiamo osservare intorno a noi nell’universo usciranno dall’orizzonte. Questa accelerazione “stirerà” lo spazio fino al punto che noi saremo fuori dal contatto visivo con tutto ciò che va al di là dell’universo locale, cioè della nostra galassia e qualche galassia intorno a noi. Però bisogna aggiungere una cosa: questo scenario dell’accelerazione, siccome è legato all’energia oscura di cui non sappiamo niente, introduce una grande incertezza sul futuro della dinamica dell’universo. Nulla per esempio vieta di pensare che il processo fisico che agisce in questa accelerazione possa in un futuro portare a un’inversione e quindi a una contrazione.