Le ragioni della «misteriosa efficacia della Matematica»

Benedetta CappelliniEditoriale

di Marco Bramanti.
Quando, anche a livello divulgativo, si affronta il problema dei fondamenti della matematica, si sottolinea spesso il cambiamento di prospettiva che la svolta assiomatica di fine ‘800-inizio ‘900 ha portato nel modo di concepire la matematica: secondo le idee di David Hilbert (1862-1943), che sono il frutto dello sviluppo concettuale di tutto il 19° sec. (dalla nascita delle geometrie non-euclidee ai grandi tentativi fondazionali di fine ‘800, fino all’imbarazzante “crisi dei fondamenti”), le teorie matematiche sono degli “schemi di discorso” che non si riferiscono ad oggetti ben precisi, ma parlano di qualunque cosa soddisfi gli assiomi.  Gli oggetti di una teoria sono, appunto, implicitamente definiti dalla lista di assiomi che noi assumiamo.
In questa prospettiva sembra non aver senso chiedersi se le nostre teorie affermino qualcosa di “vero”, se si intende per verità la corrispondenza tra quanto si afferma e quanto “è in realtà”, proprio perché la realtà degli oggetti matematici (se mai è esistita) pare essersi dissolta nell’indefinitezza dei concetti di partenza.
Ciò che rimane a dar fondamento a una teoria matematica è la sua coerenza logica: l’assenza di contraddizioni, attuali e potenziali, tra le conseguenze degli assiomi è garanzia della sensatezza del discorso; garanzia del fatto che la teoria stia affermando qualcosa di vero: attorno a cosa? Attorno a “qualunque cosa soddisfi gli assiomi”. Peccato che, come ben noto, dopo i teoremi di Gödel del 1931 sappiamo che non è possibile dimostrare la coerenza di una teoria formale come l’aritmetica (o più potente di essa) dall’interno della teoria stessa. In altre parole non è possibile fornire una dimostrazione assoluta della coerenza delle nostre teorie: qualunque dimostrazione di coerenza dell’aritmetica che utilizzasse una teoria diversa finirebbe con lo scaricare il problema su quello della coerenza di quest’altra teoria, quindi fornirebbe una dimostrazione di coerenza relativa.
Apparentemente la matematica si trova quindi da ottant’anni in uno stato di “stallo fondazionale”: dopo aver accettato come una lezione della storia il fatto che le nostre teorie non possano avere a fondamento l’evidenza delle loro premesse, in quanto non può essere evidente un’affermazione che riguarda un oggetto che non è conosciuto a priori, e aver così posto l’enfasi sul problema della coerenza della teoria, scopriamo che una dimostrazione assoluta di questa coerenza è un compito impossibile.
Tutto ciò dovrebbe gettare un’ombra di pessimismo sulla possibilità di aver fiducia nell’attività matematica. E d’altro canto, un po’ schizofrenicamente rispetto a queste consapevolezze, si ribadisce spesso lo stupore per la “misteriosa efficacia della matematica” nel descrivere la realtà naturale, citando a questo proposito il celebre articolo di E. Wigner del 1960, “On the unreasonable effectiveness of mathematics in the natural sciences”. Appare chiaro che matematici e fisici, in generale, nella matematica credono sul serio; ma sono in imbarazzo nel “dare le ragioni della loro fede”.
Provare a dare queste ragioni è un rischio da cui però non ci si può sempre sottrarre.
Riguardo al problema della coerenza delle nostre teorie, occorre anzitutto rivendicare che la matematica non consiste unicamente in un insieme di teorie formali. Tanto per cominciare ogni teoria può essere vista da due punti di vista diversi: “dall’interno”, come teoria formale, in cui gli oggetti sono definiti implicitamente dalla lista di assiomi; da questo punto di vista cambiare un assioma significa parlare di oggetti diversi; ma anche “dall’esterno”, come qualcosa che è stato prodotto da esseri umani con un obiettivo ben preciso: capire e indagare certi “oggetti informali” che in qualche misura sono già presenti nella nostra intuizione. Dopo tutto, lo stadio di “teoria formale” è normalmente l’ultimo e non il primo nello studio di una nuova disciplina matematica: scegliamo gli assiomi come i punti di partenza che in un dato momento sembrano migliori per poter ottenere come conseguenza quel nocciolo di proprietà importanti che già conosciamo, e poterne ricercare di nuove.
Questo deve aver fatto Euclide, quando dopo 300 anni di tradizione matematica greca compose il suo trattato, gli “Elementi”, in cui dava sistemazione al corpus di conoscenze che si era accumulato. Osserviamo cos’è accaduto quando, 2200 anni dopo, nel 1899 Hilbert ha riformulato la geometria euclidea in forma di teoria assiomatica moderna: ha cambiato quasi tutto riguardo agli assiomi, ma il teorema di Pitagora non è certo andato perduto! Questa vicenda ci insegna a relativizzare un po’ l’aspetto formale delle teorie: quando si guarda una teoria “dall’esterno”, in senso informale, come una nostra creazione orientata all’indagine di certi oggetti, i teoremi non sono meno importanti degli assiomi: se si dovesse cambiare una premessa, lo si farebbe in modo da salvare il più possibile le “buone conseguenze” che queste hanno già mostrato di avere.
La storia della geometria e quella della teoria degli insiemi sono due buoni esempi di come, nei momenti critici di revisione dei fondamenti, i matematici siano bravi a cambiare le premesse salvando buona parte delle conseguenze. Interpretare questi punti di svolta in senso formalista, come delle cesure totali (“la nuova teoria parla di oggetti diversi rispetto alla vecchia”) sarebbe riduttivo: non terrebbe conto delle motivazioni reali con cui i matematici progrediscono nella ricerca. C’è una certa stabilità storica delle teorie matematiche di cui il formalismo da solo non rende ragione, ma che si può capire vedendo le teorie dall’esterno, come strumenti di indagine di “qualcosa che c’è già nella nostra intuizione”.
Questo naturalmente costringe ad un passo ulteriore, ossia a chiedersi: a cosa si riferiscono le nostre teorie matematiche? Cosa sono questi “oggetti informali” presenti alla nostra intuizione, e che relazione hanno con la realtà?
La risposta a mio avviso è variegata, ma non così difficile, se riflettiamo sulla nostra esperienza matematica.
Gli oggetti matematici “abbastanza elementari”, come i numeri reali o i numeri naturali sono oggetti del pensiero suggeriti da riflessioni su nostre esperienze reali: dall’idea fisico-geometrica di “continuo unidimensionale” (punti su una retta) traiamo l’intuizione su cosa siano i numeri reali; dalle nostre esperienze di conteggio e di confronti tra insiemi finiti traiamo la nostra intuizione su cosa siano i numeri naturali. Oggetti matematici più complessi (ma “concreti”), come lo spazio delle funzioni definite su un intervallo, sono costruiti a partire dai più semplici, così che la teoria complessa si riferisce ad oggetti più semplici; infine, oggetti astratti, come il concetto generale di spazio vettoriale, sono definiti per astrazione e generalizzazione a partire dai precedenti, e ad essi si riferiscono, come la teoria generale ai suoi esempi concreti.
C’è quindi un insieme di esperienze, e di idee e intuizioni mutuate da queste esperienze, che costituisce il fondamento della nostra fiducia in quel nocciolo di idee matematiche più semplici su cui poi, con costruzioni e astrazioni successive, fondiamo anche tutto il resto. E questa catena razionale, per quanto vaga possa sembrare, àncora le nostre teorie matematiche informali a qualcosa di stabile.
Un ultimo passo che mi sta a cuore, in questo discorso, consiste nell’affrontare la domanda: questi oggetti matematici, oltre ad essere oggetti del pensiero eventualmente suggeriti dalle nostre esperienze, hanno anche essi stessi qualcosa di reale?
Per rispondere, riflettiamo su questo. Dal punto di vista intuitivo, informale, un oggetto è descritto da tutte le sue proprietà. Queste proprietà discendono da assiomi e definizioni mediante i nostri ragionamenti deduttivi. Ora, dal punto di vista formalista, si è soliti identificare anche queste regole deduttive con assiomi convenzionali; ma io ritengo (e credo non sia difficile convincersene su base puramente logica) che le regole con cui ragioniamo non siano totalmente riducibili a convenzioni: esiste un livello della nostra mente a cui io non decido in base a quali regole ragionare ma, semplicemente, penso per come sono fatto.  Le “leggi del pensiero” esistono in noi, anche se non sono “fatte” (cioè arbitrariamente scelte) da noi; e decidono di come, a partire da definizioni e assiomi che noi fissiamo, discendono le proprietà degli oggetti matematici. Perciò questi oggetti mantengono un’alterità rispetto a noi. Le loro proprietà non sono “a nostra disposizione”, ma ci sfuggono continuamente (e proprio per questo sono oggetto di indagine), così che gli oggetti che creiamo sembrano “vivere di vita propria”.
Questo li avvicina a ciò che noi chiamiamo “oggetti reali” e rende la ricerca matematica una scoperta e non un gioco.

Su questi temi e su questi interrogativi saremo invitati a riflettere e ad esplorare direttamente visitando la mostra che l’Associazione Euresis sta preparando per il prossimo Meeting per l’Amicizia tra i Popoli di Rimini.

* Dipartimento di Matematica. Politecnico di Milano