Incontro con Tommaso Bellini, Professore di Fisica Applicata all’Università di Milano. Docente di Fisica e Tecnologie Fisiche per il corso di laurea in Biotecnologie
Quando: Novembre 2009
Dove: Vacanza-studio di alcuni studenti universitari di Milano-Bicocca
Nello scorso mese di novembre un gruppo di studenti universitari di Milano-Bicocca, in occasione di una vacanza-studio, ha chiesto al prof. Tommaso Bellini (*) una riflessione sulla dinamica del conoscere così come emerge dall’interno dell’esperienza della ricerca scientifica. Queste note tracciano il suo intervento, che affronta l’esperienza della conoscenza a tanti livelli. Sono dunque note necessariamente piuttosto introspettive e personali: come ha detto lo stesso prof. Bellini, “non vedo altro modo di affrontare questo tema.”
Pochi giorni fa ero per lavoro in un luogo freddo di montagna. Per alcune mattine mi sono svegliato durante albe terse e algide. Aspettavo che i primi raggi di sole penetrassero nella valletta del motel, per uscire a prendere un po’ di caffè, a ripulire l’auto dalla neve, a catturare un po’ di luce. Aprivo la porta e scendevo i pochi scalini di legno per poi percorrere una stradina normalmente sterrata, in questo caso coperta da una neve che scricchiolava sotto i piedi. L’impatto con il freddo intenso, con il sole di montagna ma soprattutto, chissà perché, proprio con lo scricchiolio della neve, era inebriante. Non so quali alchimie regolino le nostre reazioni. A volte si riceve il pugno nello stomaco dell’olimpica indifferenza dell’inanimato. Altre volte, come questa che sto raccontando, è invece quasi una voce che chiama, e ci si trova desiderosi di penetrare, di immergersi, di catturare e di perdersi in questi presagi di bene. C’era anche, qualche stanza più in là, un signore che usciva alla stessa ora e che si ostinava a bere il suo caffè all’aperto, tutto imbacuccato, dondolando da un piede all’altro. C’era uno scambio di sorrisi aperti, e qualche battuta sul freddo, sulla neve, sul caffè. Erano parole simpatiche proprio perché palesemente inadeguate a questo senso di bene, che – almeno così i pareva – stavamo in qualche modo condividendo.
Noi tutti abbiamo numerosissime storielle così, episodi di attrazione. Spesso – o almeno talvolta – le circostanze della vita ci attraggono, suscitano in noi voglia e interesse, generano desiderio e attesa. Anche di più questi eventi di attrattiva accadono nei rapporti con altre pe rsone, per cui a volte basta uno sguardo, un ammiccamento, un piccolo gesto in cui percepiamo intenzionalità per farci sentire meglio, per suscitare un certo ottimismo su ciò che il domani potrà portare. Ma non è di questo che vorrei parlare, anche se ciò che dirò non è distante dalla dinamica del sorgere della compagnia umana. Vorrei parlare dell’attrattiva della realtà naturale e percettiva, magari provata in solitudine. Tutti abbiamo questa esperienza. Per quanto mi riguarda, questo incoercibile presagio di bene, che in questo episodietto era all’origine dell’impressione della neve e delle battute sul caffè, è anche all’origine della mia attività di ricerca scientifica.
Ho per la prima volta visto Paolo ai concorsi di ammissione del Collegio Borromeo di Pavia, dove sono poi rimasto per gli anni dell’università. Non gli ho parlato, ma l’ho notato, vestito con un completo bianco, grande barba e capelli rossicci, scarpe rosse e una potente voce dal tono alto, che assisteva un ragazzo che era svenuto. Pochi giorni dopo l’ho rivisto nella classe delle matricole di fisica. In quel periodo la vita correva ben più rapidamente della mia capacità di formarmi delle opinioni. Così, senza averne avuto una particolare intuizione, Paolo ed io abbiamo incominciato a studiare insieme Analisi 1. In comune avevamo ben poco. Paolo sapeva fare un po’ di tutto. Era proprio molto diverso da me. Però avevamo entrambi l’ambizione di capire quello che studiavamo. Abbiamo cominciato a spiegarci i teoremi, era una corsa continua ai contro-esempi, alle funzioni strane. Le cose che avevamo da dirci erano queste – anche con urgenza, telefonandoci o come contenuto della prima frase quando ci incontravano (“sai che…?, “ho trovato questo!”, “ho capito quello!”). Ci univa l’ambizione di capire, e il piacere di capire. Era un’esperienza molto intensa, per me la prima esperienza intensa legata alla conoscenza scientifica. Viene da chiedersi cosa sia in realtà l’ambizione di capire. Non è detto che si sappia che cos’è neppure se la si vive. Paolo ed io non lo sapevamo e forse non ce lo chiedevamo nemmeno. Da come l’ho vissuta direi che questa ambizione nasce da una specie di preconcetto positivo, dall’aspettativa di un bene che viene come conseguenza del capire. Chiedersi quale sia questo bene è un’altra questione difficile. Risposte immediate ma insoddisfacenti sono il possesso delle nozioni, la gratificazione del capire, il successo in qualcosa. In realtà, quando uno studia con interesse, quando cerca di capire, mi pare non sia a niente di questo che mira. E’ qualcosa di più misterioso, secondo me.
Avendo terminato il dottorato all’Università di Pavia, dovevo decidere cosa fare. Mi avevano detto che l’unica possibilità nel campo della ricerca era andare in America con una borsa di studio. Così avevo fatto domande e concorsi per avere queste borse, essendo però al contempo molto spaventato dalla rivoluzione che ci sarebbe stata nella mia vita. Fortunatamente, uno degli scienziati da cui sarei potuto andare a lavorare era in visita a Milano, ed essendo appunto un po’ sulle spine, ho fatto in modo di riuscire ad incontrarlo. Così ho incontrato Noel, un tardo pomeriggio estivo, al bar di fisica della Statale a Milano. Alto, magro e ossuto, occhi brillanti tra barba e occhiali, gesti veloci e precisi delle mani. Ricordo che dopo poco che parlavamo ha preso in mano la mia e la sua cannuccia con cui stavamo bevendo. Erano quelle cannucce col soffietto, che si piegano. Dando alle cannucce una forma un po’ ad “S”, mi spiegava con intensità ma soprattutto con intenzionalità quale fosse la natura dell’ordine molecolare dei cristalli liquidi ferroelettrici. Già in quell’inizio, e molto di più negli anni che sono seguiti, ho trovato in Noel lo stesso senso di bene, di aspettativa che avevo condiviso con Paolo, e per di più sotto forma per me molto contagiosa. Noel ha una capacità di lasciarsi interessare dai fatti scientifici – e anche oltre ai fatti scientifici – e una apertura nel voler condividere che sempre sono per me sorgente di buon umore. Ma è soprattutto questa sua istintiva aspettativa, intensa e autorevole, che mi rianima ogni volta che incontro Noel e che mi pare richiami la frase di Pavese che avete scelto come motto della vacanza “L’unica gioia al mondo è cominciare. E’ bello vivere perché vivere è cominciare, sempre ad ogni istante“.
Assieme a Noel ho vissuto i momenti più intensi di scoperta. C’è stata una volta, dopo qualche anno che lavoravamo insieme, che stavamo discutendo per l’ennesima volta un problema che non riuscivamo a risolvere, un fenomeno che mostrava una apparente regolarità che non capivamo. Eravamo alla mensa dell’Università di Boulder e stavamo – come al solito – scribacchiando sui tovagliolini di carta, non avendo mai imparato a portarci della carta per scrivere quando andiamo a pranzo. Quella volta è partito un dialogo che, nel giro di qualche battuta, ci ha portato a vedere la soluzione. E’ stato un momento molto intenso, un tipo di esperienza che ho rivissuto solo poche volte. L’intensità ha impresso quel momento nella memoria: non solo mi ricordo come è successo, ma anche a quale tavolo della mensa eravamo seduti, il fatto che ci fosse bel tempo, cosa disegnavamo sui tovagliolini. L’intensità vissuta nella scoperta è uno specchio dell’attesa che ci si porta dentro. Un’attesa che travalica i confini dell’esperienza intellettuale, coinvolgendo tutta la vita. L’attesa di un bene globale, che mi fa ricordare che il cielo era azzurro, sebbene il cielo non avesse niente a che fare – apparentemente – con il fenomeno di cui ci stavamo occupando.
Un’altra volta, più recentemente, Noel mi ha telefonato di notte (non ha mai badato molto alle differenze di fuso orario). Era piuttosto eccitato. Voleva dirmi che le nostre osservazioni sullo strano comportamento dei frammenti di DNA hanno delle implicazioni importanti nel contesto delle ipotesi sull’origine della vita. Se ne era appena reso conto e voleva dirmelo (“What’s the purpose of life?” era stata la frase d’inizio della telefonata – piuttosto d’impatto per me che mi ero appena svegliato per lo squillo del telefono alle tre di notte). Questa osservazione, che è stata cruciale dal punto di vista dell’eco del nostro lavoro, era invece importante, ma non rivoluzionaria, rispetto al coinvolgimento mio in quel lavoro. Il riconoscere l’importanza del tema studiato – cosa di meglio che non l’origine della vita? – è stato per me una specie di amplificazione di un sentimento che già c’era nell’investigare le sorprendenti strutture che si formano in modo spontaneo da frammenti di DNA e RNA. Che ciò possa essere all’origine del fatto che il DNA è stato eletto come la molecola della vita aggiunge certo tensione ed aspettativa, ma per così dire “in linea” con l’attesa che segretamente muove la ricerca. Un’attesa già tendenzialmente illimitata, di un bene che conti davvero.
Io credo che ogni forma di conoscenza sia mossa da questo tipo di aspettativa. Trovo fortissime analogie, dentro di me, tra l’eco prodotta da un fenomeno naturale osservato in laboratorio – una proprietà del DNA, tanto per rimanere nell’esempio – e l’impatto emotivo della neve che scricchiola. E in effetti se si paragonano le descrizioni di scienziati e di artisti sull’origine del loro lavoro non si trovano grandi differenze. Ho recentemente letto “Il mestiere di scrivere” dello scrittore americano Raymond Carver (1983). Dice: “A costo di sembrare sciocco, uno scrittore a volte deve essere capace di rimanere a bocca aperta davanti a qualcosa, qualsiasi cosa – un tramonto o una scarpa vecchia – colpito da uno stupore semplicemente assoluto”. Sia per gli scienziati che per gli artisti questa attrattiva sperimentata muove un lavoro di indagine. Ancora Carver: “Il compito dello scrittore è di investire quel qualcosa appena intravisto con tutto ciò che è in suo potere. Egli deve metterci tutta l’intelligenza e tutta l’abilità letteraria che possiede, tutto il suo senso delle proporzioni e della forma, dell’essenza reale delle cose esterne e del modo in cui lui – e nessun altro – le vede.” E’ facile trovare citazioni di scienziati importanti che esprimono, nel contesto della scienza, la stessa dinamica. Dapprima un impatto di attrazione che è quasi una chiamata: “Quando noi guardiamo un fenomeno fisico particolare, per esempio un notte piena di stelle, ci sentiamo profondamente commossi, sentiamo un messaggio dentro di noi che viene dalla natura” (Carlo Rubbia), oppure “L’uomo che ha perso la facoltà di meravigliarsi e di umiliarsi davanti alla creazione è come un uomo morto, o almeno cieco” (Albert Einstein). Un impatto seguito da un movimento di investigazione: ”La stessa emozione, la stessa meraviglia e lo stesso mistero nascono continuamente ogni volta che guardiamo a un problema in modo sufficientemente profondo. […] Mai preoccupati che la risposta ci possa deludere, con piacere e fiducia solleviamo ogni nuova pietra per trovare stranezze inimmaginabili che ci conducono verso domande e misteri ancora più meravigliosi” (Richard Feynman).
Questo lavoro, questo investire di Carver, questo sollevar pietre di Feynman, che nasce da una attrattiva, è descritto in un modo secondo me bellissimo da Van Gogh in una lettera al fratello Theo (1889): “I cipressi stanno occupando continuamente i miei pensieri. Vorrei farne qualcosa di analogo alle tele dei girasoli, perché mi pare incredibile che non siano ancora stati mai resi come li vedo io. La bellezza delle loro sagome e proporzioni è come quella di un obelisco egiziano. E il loro verde ha in sé un aspetto di questa loro grandezza. Sono un getto di nero in un paesaggio assolato, ma è una tonalità di nero del tipo più interessante. Non riesco ad immaginare un colore più difficile da catturare con precisione. E in più dovresti vederli contrastare col blu, o piuttosto dovresti vederli immersi dentro al blu. Per dipingere la natura che si incontra da queste parti, come del resto dappertutto, devi rimanerci dentro a lungo.” E’ interessante aggiungere che i dipinti che produce in quel periodo sono di cipressi il cui colore è la somma di moltissimi colori. Anche di quel periodo sono dipinti di boschi in cui i tronchi sono viola.
In questa frase di Van Gogh c’è tutto quello che io so dire sulla dinamica del conoscere. Innanzitutto non vogliamo un’adesione fotografica alla realtà dei nostri sensi o del nostro intelletto. Vogliamo qualcosa di meglio. La frase di Van Gogh ha dentro una strana e giustissima autorevolezza. Quando dal suo pennello uscirà il colore corretto, lui lo saprà. Vogliamo poter aderire alla realtà che ci chiama secondo quel criterio intimo e incontrovertibile che ci ha permesso di riconoscere l’attrattiva di partenza. E se il tronco viola si avvicina all’origine della attrattiva con cui il tronco mi chiama, il tronco deve essere viola. Deve, perché il criterio intimo è oggettivo. E’ intimo, e quindi proprio del soggetto che vive l’esperienza, ma oggettivo allo stesso tempo. In un certo senso c’è una doppia oggettività. Una prima oggettività data dal corpo reale del cipresso con tutte le sue proprietà e una seconda oggettività data dal criterio intimo che mi dice se la mia rappresentazione del cipresso è adeguata.Particolari da: “Strada di campagna di notte in Provenza” e da: “Sottobosco con due figure”.
Il percorso della conoscenza scientifica non è molto dissimile. La conoscenza scientifica, come ogni forma di conoscenza, come anche la visione artistica dei cipressi, è il formarsi di una rappresentazione interiore della realtà che ci circonda. Una rappresentazione che ci mette in grado di “capire” la realtà, ovvero di identificare i nessi tra le cose, così come avviene quando “capisco” un gesto di un altro, ovvero vivo nel mio intimo il rimando che implica. O anche quando capisco il colore dei “cipressi”, ovvero riesco a riprodurre il rimando che quel colore genera. Nella scienza il linguaggio è diverso, ma il meccanismo simile. Quando “capisco” perché gli atomi di ferro sono sempre uguali tra loro, vuol dire che vedo un nesso tra molti fenomeni, che si chiama meccanica quantistica, in cui si colloca il fatto che le specie atomiche abbiano identità ben definite.
Questa rappresentazione interiore si forma attraverso un analogo percorso tra realtà e soggettività. Osservo la realtà e verifico la mia rappresentazione rispetto a dei criteri di logicità e di senso che ho dentro. I quali sono, nella mia esperienza, oggettivi e incontrovertibili. Quando con Noel capimmo quel fenomeno seduti ad un tavolino della mensa, quello che era in azione era proprio questo criterio intimo ma incontrovertibile che ci diceva che il nesso che avevamo intravisto con un altro fenomeno noto era pertinente ed efficace a “spiegare” il nostro fenomeno. Ed entrambi lo abbiamo visto nello stesso momento.
Alle volte si è tentati di pensare che, essendo la scienza più formalizzata e condivisa rispetto all’espressione artistica, ad essa corrisponda meno interiorità. Io non sono convinto che sia così. Ecco un esempio. In fisica ci sono spesso materiali che hanno comportamenti diversi a seconda del valore di qualche parametro (tipo: ad alta temperatura così, a bassa temperatura cosà). C’è un valore del parametro in corrispondenza del quale il comportamento cambia. Io tendo a pensare che quel valore “divida” due comportamenti diversi. Mi sarà capitato una dozzina di volte, lavorando con Noel, di notare che invece per lui quel valore “unisce” due comportamenti diversi. Questa differenza – ed altre analoghe osservate con altri – mi è sempre parsa come la punta dell’iceberg della differenza tra i nostri mondi interiori. Il fatto è che quale sia il mondo interiore altrui che corrisponde ad un dato pensiero o una data formula, è un mistero insondabile. Proprio per questo l’oggettività e l’autorevolezza del criterio, interno in ciascuno, a cui la veridicità della rappresentazione corrisponde, è un aspetto spettacolare della dinamica del conoscere.
A me però pare che ancora più interessante della dinamica della conoscenza sia il chiedersi che cosa la spinga. Che cos’è quel presagio di bene, quel preconcetto positivo, quella segreta speranza, così strutturale al nostro stesso esistere, che anima l’investigazione di scienziati, di artisti e di chiunque cerchi di catturare mediante conoscenza l’essenza dell’esistere?
Perché dipingere i cipressi in modo vero? Cosa ci si guadagna?
Perché scoprire la legge secondo la quale alcune molecole si auto-assemblano? Cosa ci si guadagna?
E’ l’aver capito, l’aver formulato una teoria di successo? E’ l’aver dipinto un capolavoro? E’ la gratificazione per la propria capacità?
Certamente questo conta molto, consolida la propria autostima, conferma il proprio talento. Ma non è il termine vero della speranza iniziale. La felicità per la conoscenza acquisita, anche in una esperienza di successo, passa in fretta e il ripensare al sapere che si è raggiunto non ha la forza del bene presagito né la capacità di risuscitare l’entusiasmo del momento della scoperta. Io credo che si tratti di una apertura ben più vasta.
Credo si tratti dell’affacciarsi di una speranza senza limiti. Della speranza di essere felici. Della speranza di imbattersi in qualcosa che faccia veramente e definitivamente la differenza. Della speranza di un qualche bene duraturo. Della speranza di avvicinarsi al cuore del mistero che ci circonda.
Vorremmo poter afferrare l’essenza dell’attrattiva della vita, ciò che permea quelle circostanze in cui ci sentiamo chiamati. La neve scricchiolante sotto le suole, che in quella circostanza ha risvegliato in me il piacere di vivere, mi è apparsa come un pertugio, una piccola via che può avvicinare al segreto della vita. Se fossi un artista cercherei di catturare quel momento, di dirne l’assoluta verità motivato dalla suscitata speranza di un rapporto col mistero. Allo stesso modo lo scienziato scava cercando l’origine dei fenomeni naturali, percorrendo quella piccola via al mistero che è parsa percorribile al suo intelletto, nella indefinita speranza di un bene vero e definitivo.
La realtà continua a chiamare con la sua attrattiva. E’ un richiamo profondo, che tocca le vene più intime del nostro essere, del nostro desiderio. Questo richiamo non smette mai. Anche se uno non riconosce la domanda di bene che c’è dentro. Però nel tempo, se la speranza di andare veramente da qualche parte viene continuamente delusa dall’esito finito ed effimero degli sforzi, l’attrattiva stessa prende un vena amara. Viene il sospetto che non porti da nessuna parte, che non sia una via. Che in fondo si tratti solo di una fuga emotiva dal quotidiano, sorretta da confortanti sentimenti di scopo e di autostima. Che non ci sia alcun luogo vero dove andare.
Jack Kerouack, il padre dei “beatnik”, è uno scrittore che ho letto da giovane e tenuto molto in considerazione. Kerouack è stato per molti anni un campione di voglia di vivere e di desiderio intenso, e così è passato alla storia. Sulla parete di fianco alla mia scrivania c’è un manifesto con una sua fotografia e una frase sua tipica “Gli unici che io stimi uomini sono i pazzi, i pazzi per la vita, i pazzi dalla voglia di dire, i pazzi per il desiderio di essere salvati” (On The Road, 1957). Kerouack ha concluso il suo ultimo libro, “Vanità di Dulouz” (1967), con la amarissima considerazione che nonostante nella vita avesse fatto “tutto quello che un uomo deve fare”, nonostante il successo e tutto il resto “non ne è venuto fuori niente”. Cioè, l’inseguimento dell’attrattiva può diventare un’esperienza amara. Anche per i più tosti. (Non è però detto che questa sia effettivamente l’ultima parola per il grande Kerouack: stanno pubblicando i diari, che portano, pare, qualche sorpresa).
C’è bisogno di un sostegno. Di una speranza fattuale. Di una esperienza in cui questa dinamica di speranza e investigazione non porti continuamente a smentite, non venga continuamente delusa, come invece pare che accada nella normalità della vita.
Io lavoro in modo molto condiviso. Lavoro in un gruppo che mi piace molto. Il lavoro di ricerca è reso estremamente piacevole dall’affettuosa condivisione in cui nasce e si sviluppa. Sono molto riconoscente alla vita per questa condizione. Anche questo però, di per sé, non basta.
Voglio in particolare provare a descrivere una condizione di grandissimo aiuto che trovo pertinente al dramma della conoscenza che ho descritto. Senza il mio amico Marco non credo che riuscirei a vivere questa dinamica del conoscere sperando che sia una strada vera verso un bene vero. Metà delle cose che ho qui descritto e il fatto stesso che io riesca a metterle a fuoco nascono da questa amicizia, da panini al bar, da cose fatte insieme, da stati d’animo raccontati, da episodi guardati, commentati, giudicati assieme. Con Marco ho vissuto momenti di questa dinamica dell’attrattiva, dell’indagare, del capire anche se in un contesto un po’ diverso dal normale lavoro di ricerca. Forse la cosa più entusiasmante è stata con lui iniziare ad avventurarsi in nuove – nuove per noi – tematiche scientifiche, nell’idea che potessero diventare l’oggetto di mostre che l’Associazione Euresis, di cui entrambi facciamo parte, propone al grande pubblico. Saprei raccontare momenti specifici, in strada, o al bar, o nella sede di Euresis, in cui abbiamo insieme fatto passi avanti decisivi in alcuni di questi temi. E’ stato discutendo con lui della natura della matematica che ho visto chiaro per la prima volta questa doppia natura soggettiva-oggettiva del pensiero scientifico, di cui ho detto prima. E mi ricordo esattamente dove ci trovavamo. L’unicità di questa esperienza sta nel forte contesto di bene in cui accade, nell’abbraccio della condizione umana che accoglie queste esplorazioni, anche quando sono un po’ inquietanti. La forza della fede cristiana che anima Marco è per me una grandissima fonte di speranza, della speranza che tutta la dinamica qui descritta sia un modo di camminare a tentoni verso un bene vero.
L’amicizia di Marco mi ha portato alla consapevolezza che alla fine il dramma della conoscenza converge all’unica grande questione se la realtà sia o meno opera di Uno che ci chiama. La speranza che quest’Uno ci sia dà dignità a questa dinamica attrazione-investigazione e a tutto il mio lavoro di scienziato.
In questo contesto l’investigazione scientifica è, in un qualche senso, un contributo alla conoscenza del volto del Mistero. Che cosa veramente questo voglia dire è secondo me una questione ancora in gran parte da esplorare e descrivere. Ciò può apparire sorprendente, dopo tutti questi anni di scienza e di dibattito sulla conoscenza scientifica. E’ però vero che in questi ultimi decenni la consapevolezza di che cosa siano scienza e conoscenza sono molto mutate, e con esse la visione di quale possa essere il ruolo del soggetto che le vive. Nel mutare della sensibilità sulla condizione umana, quando guardiamo all’esperienza che viviamo siamo continuamente di fronte all’inesplorato. Sarei molto contento se questo mio sforzo di introspezione fosse di stimolo per un approfondimento più corale e condiviso.
Concludo tornando a Noel. Un anno fa circa, nell’ultima sera della mia permanenza a Boulder, ci stavamo salutando in strada davanti a casa sua. Era tardi, era inverno, mi ricordo un grande buio, stava cominciando a nevicare. Dopo un bel po’ di silenzio, Noel dice: “tu pensi che la vera domanda sia perché tutto questo accade a noi, vero?”
Perché questa attrattiva accade a noi? è per condurci? e dove? e Chi?
E’ una domanda tremenda, capitale, che il nostro cuore non riesce a contenere appieno, provocata da ogni aspetto della vita e certamente implicata nella dinamica del conoscere.
Commenti o approfondimenti possono essere inviati a: tommaso.bellini@unimi.it
Contributo di Andrea Soranno – Febbraio 2010
(Dipartimento di Biochimica dell’Università di Zurigo)
Un aspetto che trovo interessante nell’esperienza scientifica (ma è proprio della vita in generale), è che ciò che hai davanti per essere conosciuto e approfondito richiede sempre una affezione. Richiede che ci si implichi completamente, portando con sé le proprie domande e i propri desideri. Per esempio, mi diceva l’altro ieri un mio collega riferendosi al nostro lavoro: «a cosa serve il nostro lavoro? siamo solo un piccolo ingranaggio in una grande macchina?».
Certo si può guardare al fare ricerca come ad un atto di supremazia della propria ragione sul caos del mondo. Ma sinceramente ciò che mi stupisce sempre è la possibilità di cogliere, a volte, per un attimo, uno sprazzo di verità. E’ l’esperienza che si fa quando ti è dato di comprendere o scoprire qualcosa: in quel momento si sperimenta la strana corrispondenza tra quello che ci è dato di capire e quello che accade nella realtà… Se sono sincero mi accorgo che potrebbe non essere così, potrebbe non esserci e invece c’è, questa corrispondenza. Per un attimo sono sulla soglia di qualcosa di più grande, che si lascia conoscere. Direi che l’affezione non è ultimamente verso il proprio lavoro, ma passando attraverso tutti questi aspetti si rivolge agli squarci di verità intravista.
Tuttavia perché questa stessa passione permanga anche in futuro non basta che il mio lavoro di ricerca mi appassioni ora, adesso… Non c’e’ nulla di automatico: volere bene implica sempre il riaffermare il motivo che ne è all’origine, attraverso tutte le difficoltà, la noia e la stanchezza… Necessita il partire per riscoprirlo, poggiando sulla bellezza che si è intravista e che non si può dimenticare, attendendo uno squarcio di verità.
A proposito di queste tue note, tu commentavi: «Questa è la dinamica della conoscenza che conosco io. Mi chiedo se esista una dinamica più “redenta”, che in qualche modo inglobi un’ipotesi di bene più esplicita nel processo della conoscenza.»
Non so se esista una dinamica “più” redenta, ma non sono d’accordo che in quella descritta da te manchi una qualche sorta di redenzione… Nella mia esperienza una “dinamica redenta” (per usare le tue parole) è quando le cose che faccio non sono più banali, sono – in qualche modo – “salvate” dal loro finire nel niente, dal loro essere inutili o incomplete.
Ma, come fai notare tu, questa “salvezza” non accade certo per un semplice sforzo della nostra volontà: «L’amicizia di Marco mi ha portato alla consapevolezza che alla fine il dramma della conoscenza converge all’unica grande questione se la realtà sia o meno opera di Uno che ci chiama. La speranza che quest’Uno ci sia dà dignità a questa dinamica attrazione-investigazione e a tutto il mio lavoro di scienziato.»
Mi piace questo orizzonte, perché non elimina niente delle difficoltà e della bellezza della mia avventura umana, e sottolineo MIA, lasciandomi il gusto di scoprire rapporti inaspettati ed eppure così necessari… Per questo motivo ringrazio della tua amicizia e di quella degli amici dell’Associazione Euresis.
Contributo di Francesco Brignoli – Febbraio 2010
Buongiorno, mi chiamo Francesco Brignoli e sono matricola di Fisica in Città Studi.
Mi è capitato tra le mani, inviato da un’amica, il suo intervento-testimonianza che ha fatto agli studenti della Bicocca. L’ho appena letto e riletto.
Ho deciso di scriverle per dirle che di fronte a quanto racconta ho provato quella cosa rara e grandiosa che si chiama corrispondenza. Quello che racconta di sé ha riletto con una lucidità impressionante (mettendole a fuoco, come scrive) certe intuizioni che mi accompagnano da ormai un bel po’ di tempo.
E’ incredibile come ho trovato chiaro quanto lei racconta sul primo insorgere della sete di conoscenza, molto più di quanto tante volte altri abbiano provato a teorizzarmelo. Capisco benissimo perché possa centrare in una stessa testimonianza parlare della ferita per la neve che scricchiola e del desiderio di capire, dell’ambizione di capire Analisi I.
Le racconto perché.
La corrispondenza che ho provato mentre leggevo credo nasca in primis dalla mia passione per la fotografia, e poi dal mio essermi lanciato, per non molto di più che un’intuizione, nello studio della fisica. Vado con ordine nel raccontare due tra le cose più care che ho.
E’ ormai quattro anni che faccio foto, e, presa seriamente quella che in breve è diventata una delle mie più grandi passioni, sono nati scatti interessanti, confronti ed episodi per me molto importanti (due mostre e un paio di incontri). Questa passione è una di quegli strumenti che mi è dato, ormai posso dirlo, per capire di più il mio desiderio di essere felice, chi sono, perché mi è stato fatto un cuore così desideroso da non bastargli nulla.
Quando mi capita di parlarne, dico sempre quello che nelle prime battute del suo intervento ha detto lei (non con tale lucidità, ma dentro al mio cuore che non riesco ad esprimere lucidamente con le parole è quello): che quello che in primis colpisce è un’attrazione, una totale corrispondenza tra quello che cerco nella vita e un oggetto, una neve che scricchiola, un caffè, una scarpa vecchia. Che quello che si vuol fare con lo strumento a me dato, la fotografia, è il volerla rendere mostrando parimenti la realtà e il mio sentimento verso di essa, che mi ha portato a fermarla in uno scatto. Che (incredibile, qui usa le mie stesse parole) di fronte a quanto esercita una attrazione, il modo di fare una foto è dettato da due criteri, “una prima oggettività data dal corpo reale e una seconda data dal criterio intimo che mi dice se la mia rappresentazione è adeguata”. Io e la realtà, che voglio rendere per come è e per come meglio esprime la ferita, la terribilmente bella corrispondenza che mi genera.
Dopo questi episodi arrivo a fisica, più per un’intuizione che per altro, probabilmente per l’intuizione che il modo che questa materia ha di indagare verso la verità fosse quello più in linea col mio cervello e con quanto mi interessa. Non insomma per un pallino di vecchia data, che pure avevo negli anni delle medie sino alla seconda liceo, ma che poi, com’è destino di ogni pallino, era sfumato. Il mio desiderio, la mia domanda di fronte allo studio cui devo e dovrò dedicare anni e forse tutta la mia vita è stato fortissimo in questi mesi. Nei primi giorni quasi sfidavo la fisica a potermi ferire come mi avevano ferito Ungaretti, Montale, Leopardi nell’ultimo anno di liceo. Una sfida alla matematica a non essere arida come sempre mi era sembrato. La sorpresa è stata che Analisi Matematica rispondeva a tale sfida, che il mio professore faceva trapelare una passione che era tutto meno che arida, che la verità che sa trovare con una limpidezza inequivocabile la matematica è terribilmente corrispondente al mio desiderio di verità quanto lo era Montale. Che un bel teorema, se capito tanto da saperlo possedere in ogni singolo passaggio, non ha niente di meno che “I limoni”. La matematica mi è parsa – in questo semestre di studio terribilmente gustato con un mio amico (tra l’altro in una maniera del tutto simile, benché non così profonda, a quella con cui lei descriveva la preparazione di Analisi col suo amico, con quel desiderio di capire, con quel confronto serrato, con questo venirsi a cercare quando quel maledetto Taylor con resto di Peano si lasciava abbracciare un pochino di più) – mi è parsa parlasse una lingua al cuore, non solo alla mente e al suo piacere di sentirsi corrispondere. Non so ancora leggere meglio questa corrispondenza, ma non può essere solo un piacere della mente, come a volte certe fotografie sembrano dover piaccere solo agli occhi e non parlare al cuore, non avvicinare al Mistero con più chiarezza di prima.
Sì, le nostre passioni sono le strade privilegiate su cui siamo messi per capire di più il nostro desiderio, e per avvicinarci di più al Mistero, per diventare più suoi, perché un po’ meno mistero diventi. Sono le strade, lo dico perché così è nella mia vita e perché tale è il mio più vero interesse, su cui sono messo per amare e saper dire di più sì a Gesù Cristo.
Grazie, spero di essermi quantomeno spiegato. Io ho scritto col cuore in mano.
Contributo da “Anonimo” – Febbraio 2010
Quale voce viene sul suono delle onde
che non è la voce del mare?
E’ la voce di qualcuno che ci parla,
ma che, se ascoltiamo, tace,
proprio per esserci messi ad ascoltare.
E solo se, mezzo addormentati,
udiamo senza sapere che udiamo,
essa ci parla della speranza
verso la quale, come un bambino
che dorme, dormendo sorridiamo.
Sono isole fortunate,
sono terre che non hanno luogo,
dove il Re vive aspettando.
Ma, se vi andiamo destando,
tace la voce, e solo c’è il mare.
(“Le isole fortunate”) Fernando Pessoa
Contributo di Martino Giorgioni – Marzo 2010
(Dipartimento di Geologia, Politecnico di Zurigo)
Mi colpisce quando dici: “se si paragonano le descrizioni di scienziati e artisti sul loro lavoro non si trovano grandi differenze” … “non vogliamo un’adesione fotografica alla realtà dei nostri sensi o del nostro intelletto. Vogliamo qualcosa di meglio” … “una rappresentazione che ci mette in grado di ‘capire’ la realtà” … “questo è un criterio intimo, ma incontrovertibile”.
Mi sono accorto che queste cose sono verissime perché riguardano l’esperienza di conoscenza di ogni uomo.
Scienziati e artisti, per il tipo di attività che fanno, possono essere in qualche modo favoriti a prendere coscienza di ciò, ma questa esperienza la fanno tutti perché questo desiderio di bene di cui parli è proprio di ciascun uomo.
In effetti, mi trovo d’accordo con te soprattutto perché sono un uomo, oltre che uno scienziato. Il fare scienza mi aiuta, ma non è ciò che veramente mi fa capire quello che scrivi. Quando dici che il percorso della conoscenza scientifica “non è molto dissimile” da quello dell’artista io direi che nella sostanza sono esattamente la stessa cosa. Sono diversi nella forma, perché utilizzano metodi diversi, ma tendono al medesimo fine che è un fine puramente umano: cercano la risposta ad un bisogno umano.
Occorre essere veramente uomini per potersi stupire davanti ad un cielo stellato, alla neve che scricchiola, ai cipressi, così come davanti alle molecole di DNA o, come nel mio caso, alle rocce. Se ci penso può sembrare assurdo: cosa c’è di più banale di una roccia?
Chiunque le ha viste, si trovano ovunque, sono inanimate e sempre uguali; eppure fin da quando ero piccolo, e ancora lontano dalla scienza, di fronte alle rocce io ho sempre vissuto quel fascino e quell’interesse che tu hai descritto. Per questo, alla domanda “cosa ci si guadagna?”
Io posso solo rispondere: ci guadagno la possibilità di realizzare il mio bisogno di uomo. Come dici tu è una cosa soggettiva (infatti per me sono le rocce e per te le molecole), ma allo stesso tempo oggettiva, perché questo bisogno ce lo abbiamo tutti.
L’altra cosa sorprendente è che, proprio perché c’é in ballo il mio bisogno umano, mi accorgo che la scienza non mi basta.
Come dici tu: “C’è bisogno di un sostegno. Di una speranza fattuale” che il puro fare scienza non è in grado di fornire. Mi sembra emblematico il fatto che tu non parli tanto delle cose che studi o delle scoperte che hai fatto, quanto delle persone che avevi accanto, con cui hai condiviso il lavoro. Come a dire che per essere veramente uomini nella scienza, come in tutto il resto, non basta studiare, occorrono dei maestri, cioè persone in cui vediamo concretizzata la possibilità di risposta al nostro vero bisogno e che ci diano un metodo per poterla raggiungere. Come per te Noel e Marco, così per me siete tu e gli amici della comunità di Zurigo. Grazie a voi mi si conferma che questa “aspettativa di bene” che intuisco nella geologia è vera, non è un’illusione o una credenza. Altrimenti la geologia mi avrebbe già stufato.
Ultima cosa: mi interessa molto la “domanda tremenda e capitale” con cui concludi. Penso che questa sia la domanda propria di ogni persona, ma per ciascuno la risposta è intima ed ognuno deve scoprirla nella propria vita. Questa domanda mi assale tutti i giorni e, più vado avanti, più conosco cose e persone, più essa diventa incombente. Proprio grazie all’amicizia con persone come te e quelli della comunità di Zurigo però io mi accorgo che per me la risposta a questa domanda c’è, esiste, ma è inafferrabile: non inesistente, né irraggiungibile.
Inafferrabile perché non riesco mai a definirla completamente (o in altre parole scientificamente), ma giorno dopo giorno, anche attraverso le rocce, posso conoscerla sempre di più.
Contributo di Andrea Moro – Aprile 2010
Professore di Linguistica – Università Vita Salute – Milano
Carissimo Tommaso,
non che non me lo aspettassi: con il tocco speciale di quei fotografi che fanno diventare magiche anche due scarpe abbandonate sulla spiaggia, le tue riflessioni mi hanno provocato profondamente; provocato e aiutato al contempo a capire meglio cose che sapevo di provare ma che non riuscivo a fermare; sai come quei sogni verso il far del giorno, quelli che quando appena ti concentri spariscono dalla coscienza?
Quella neve che scricchiolava sotto le tue scarpe alla mattina presto e ti commuoveva senza ragione apparente ha lasciato il segno.
Ripercorro dunque il tuo discorso e trovo nascosto un ragionamento, una catena di pensieri che non ti lasciano scampo: mi son lasciato condurre e ad ogni svolta sentivo non solo di riconoscere il sentiero ma di poterlo vedere meglio. Mi son deciso a scriverti perché ho capito che un compagno di viaggio cosciente è in fondo quello che cerchiamo, quello che cercano tutti quelli che non si lasciano vivere dai fatti e non aspettano semplicemente che tutto finisca. Dunque mi sono messo in marcia insieme a te, seguendo i passi.
Non aspettarti da me conclusioni ad effetto, ma non perché non ne sia capace – certo che non ne son capace – non aspettartele perché proprio tu stesso ci stai dicendo che non ci sono conclusioni ad effetto, ma solo inizi ad effetto perché può stare solo nel riconoscere e aderire a un inizio il nostro contributo: la conclusione è di un Altro. In fondo, lo dici già all’inizio, sia pure con il travestimento di un incontro: quelle “parole simpatiche proprio perché palesemente inadeguate” sono la cifra dell’amicizia. Ci si è simpatici davvero proprio quando si condivide l’inadeguatezza, perché è l’inadeguatezza che fa condividere la più profonda delle forme di conoscenza: quella che ci dice che siamo creature incomplete, inadeguate come le nostre parole se prese da sole.
Già ma perché l’inadeguatezza non ci disorienta, non ci paralizza in un nichilismo avvilente? Perché capiamo che questa sensazione di inadeguatezza è un sintomo positivo: è l’esperienza di chi riconosce che si deve tener conto dell’insopprimibile richiamo verso la felicità, di chi comprende che se facessimo come se l’inadeguatezza non ci fosse sarebbe uno sforzo contro natura: una rimozione radicale di un nostro bisogno. Lasciami dire che sono stato indeciso se dire “insopprimibile” perché da quel che si sente, sono in tanti – chissà perché – a tentare e certe volte a riuscire a sopprimere i nostri desideri profondi: costoro devono aver paura a mettersi in gioco. Costoro, che fanno a meno del senso di inadeguatezza, che si sentono ricchi, devono aver paura di perdere qualcosa, se non accettano di sentire che da soli la ricchezza non ce la si costruisce, che da soli non saremmo nemmeno mai nati. Costoro rinunciano a capire perché hanno paura di perdere qualcosa. Ma torniamo alla neve che scricchiolava sotto le tue scarpe.
C’è un punto chiave che tu svolgi a carte scoperte.
Dici che l’ambizione di capire, e il piacere di capire, vengono da un preconcetto positivo, dall’aspettativa di un bene che viene come conseguenza del capire. Sai, tu ed io condividiamo molto nel nostro lavoro, condividiamo innanzitutto un metodo, e sappiamo come nella scienza i preconcetti siano pericolosissimi: sono la fonte primaria degli errori, ma perché allora questa volta accogliamo un preconcetto? Aspetto a rispondere e ti racconto una cosa mia. Da ragazzo lessi per la prima volta l’Edipo Re. Non mi interessava tanto lo scandalo del figlio che si trova marito della madre, mi colpiva in quella tragedia il desiderio inarrestabile di Edipo di voler capire chi fosse la causa del male del mondo, del suo mondo; mi colpiva la sua insopprimibile voglia di andare avanti anche quando perfino il suo consigliere più fidato gli diceva di fermarsi. E mi colpiva alla fine che proprio quando lui inizia a vedere proprio in quel momento lui si acceca: perde gli occhi proprio quando vede. Mi aveva molto turbato quel racconto. Mi aveva stimolato una domanda che mi porto dentro da sempre: ma mi conviene sapere? Non corro forse il rischio di perdere gli occhi anch’io?
Qualche neopositivista lo incontri sempre che ti dice che sì, che certo che conviene, sennò non avremmo gli antibiotici, la tecnologia, ecc. ecc. Certo, ha ragione: meglio una pastiglia che morire di polmonite, ma mi basta questo per convincermi che conviene sapere? Sapere cosa? Sapere fin dove? Mi basta sapere come si fa a vivere centoventi anni in salute per morire tranquillo? Sarebbe stato come se Edipo si fosse fermato alla descrizione del primo messaggero, quello che gli parla di un omicidio di tanti anni fa. Semplicemente, noi non possiamo fermarci nel cammino del sapere perché quello che vogliamo intensamente sapere è se siamo destinati al bene o se invece è tutta un’illusione. Lasciami una battuta da linguista: se dovessi riscrivere un dizionario inventerei nuova che volesse dire sia sapere che vivere, perché vivere senza (cercare di) sapere non è nemmeno vivere.
Tu ed io, e molti altri, siamo fortunati a fare un lavoro che ci piace e ci porta spesso a renderci conto di cosa significa “sapere”: tu scopri le simmetrie nella realtà naturale, io cerco di fare lo stesso nelle strutture del linguaggio umano. Tu ed io abbiamo infinite occasioni per cogliere “un nesso tra molti fenomeni” e di questo esserne come inebriati. Ma son convinto che la vita offre queste occasioni a chiunque non la viva in anestesia generale: a chiunque, cioè, quando apre gli occhi la mattina, si accorge di aprirli e si chiede perché. Di “maglie rotte nella rete che ci stringe” – tanto per ricorrere a Montale – la vita ce ne offre, a tutti indistintamente, quante vogliamo. Semmai è cieco chi non le vede, o vuole esserlo perché ha paura di mettersi in gioco.
Siamo tornati al punto di partenza, a quelle albe terse e algide quando andavi a catturare un po’ di luce fuori dal Motel. Anche queste mie parole sono palesemente inadeguate e forse non varrebbe nemmeno la pena che te le scrivessi, se non fosse che in chiusura tu mi fai capire come si fa ad andare avanti. Lo fai quando parli di Marco, del tuo amico Marco senza il quale non riusciresti a “vivere questa dinamica del conoscere sperando che sia una strada vera verso un bene vero”. Ecco: da quelle parole palesemente inadeguate si capisce tutto.
Sentirsi inadeguati è la nostra salvezza, perché qualcosa è inadeguato quando si misura con qualcos’altro di più grande, e quel qual cos’altro è l’esperienza della nostra tensione al bene. E quel tuo sottolineare che solo con qualcuno si riesce a procedere, già qui in questa vita, ci fa capire che da soli non ce la si fa.
Ci vuole un amico, ma siccome anche l’amico non è che abbia tante più risorse di noi, se paragonato alla domanda ultima, si capisce subito quel che ci vuole: ci vuole di arrendersi all’esperienza di un Dio che ha condiviso con noi tutto, anche il desiderio di sapere e, soprattutto, facendosi come noi, ha condiviso il pregiudizio di un bene finale. Non so se in Palestina nevicasse tanto duemila anni fa, ma certo, anche Cristo deve essersi meravigliato della neve che scricchiolava sotto le sue scarpe.
Contributo di Silvia Biffi – Aprile 2010
Dottorato in Fisica – Università degli Studi di Milano
E’ davvero la comprensione intellettuale che rende felici?
Mi sembra che questa questione vada con un’altra, forse meno seria, che ponevi qualche giorno fa in laboratorio: “ma perché Pinocchio ha voluto diventare bambino?”.
Credo che l’aspetto decisivo sia un senso di appartenenza a qualcosa. Cogliere il segreto della vita, sentirci veramente vivi, afferrare questa cosa così intensa che ogni tanto percepiamo – quello che dici con l’esempio della neve – mi sembra che nasconda al suo interno un richiamo al far parte di questa realtà. Davvero è una realtà che ci chiama.
Imparando, scoprendo come la realtà funziona ti fa sentire un po’ di più parte di essa. Impari il suo linguaggio, comunichi con lei. E’ come essere a conoscenza di un segreto di famiglia. Lo sai solo se fai veramente parte della famiglia. E viceversa, se lo sai puoi dire di essere parte della famiglia.
Come l’ingrediente segreto della zuppa dall’ingrediente segreto – hai visto Kung Fu Panda? – Essere entrato in contatto con questa realtà “viva”, questo sì penso possa rendere felici. Il momento in cui “capisci” qualcosa, è il momento in cui “salti di livello”, hai come un contatto più intenso con questa realtà in cui sei immerso.
Non sono sicura neppure che la grande domanda della scienza sia se la realtà è o meno opera di un Uno che ci chiama. O magari sì, la domanda potrebbe essere questa, ma credo e spero che questa risposta la scienza non riuscirà mai a darla. Andrebbe contro alla libertà dell’uomo.
Non so se la scienza aiuta o meno a conoscere Dio.
In certi momenti mi è parso di sì, in altri momenti, e anche in questo, mi pare che sarebbe come cercare di conoscere una persona studiandone la cartella clinica. Come se io potessi conoscerti meglio guardando l’esito del tuo esame del sangue. Anche no…. Eppure racchiude un fascino a cui non resisto. Non so se è solo il senso di appartenenza, o se c’è dell’altro. Sono piuttosto confusa.
Capisco che mi diverto, capisco che quello che faccio mi piace, capisco che sento un richiamo, ma non capisco che cosa sia, da dove venga, dove mi porti. Mi sa che identificare questa voce è la mia fatica del momento. Un “presagio di bene”. Ci ho messo un po’ a metabolizzare quest’espressione. Mi ero sempre fermata solo a un “senso di bello”, a una bellezza da cogliere.
Un presagio di bene è qualcosa di più. Bello, molto bello. Anche questo mi risuona moltissimo.
C’è anche un’altra domanda, dietro a tutto ciò: quando uno trova un barlume di risposta alla domanda “Dio c’è?”, poi cosa fa?
Non è che mi sento di dire di essere sicura al 100% che Dio c’è. Però ho vissuto dei segnali per me forti che mi indirizzano verso una risposta positiva.
E adesso? Adesso che mi sento un pochino “in vacanza” dato che comincio a intuire che il mondo non devo salvarlo io e basta, perchè l’ha già salvato Lui, adesso che si fa? Che scopo, che senso dare alla vita una volta che si ha questa consapevolezza? E’ un po’ che me lo chiedo. Per ora la sola risposta che mi sembra convincente è anche la più semplice, forse troppo semplice per riuscire ad accettarla di buon grado…
Credo (per ora, magari poi cambio idea) che la risposta sia di godersi la vita, gustando questo bene incontrato, cercandolo nelle persone, nelle cose, nel funzionamento del mondo o quant’altro. La mia speranza è che in fondo siamo già salvi, siamo già cercati, siamo già amati e accolti per ciò che siamo. Il resto è una specie di gioco, che siamo liberi di prendere un po’ come vogliamo.
Non vuol dire che sia tutto facile, anzi, spesso non c’è proprio nulla di facile. Ma questa speranza è ciò che mi sostiene. Sapere che le cose dipendono da me, ma anche no.
Cioè, io arrivo dove riesco, dove posso, poi c’è un Altro che mi viene incontro.
Per ora è la cosa migliore che ho trovato.
Contributo di Giovanni Dell’Orto – Aprile 2010
Arnitsu
Caro Tommaso, ti ringrazio per questo tuo contributo al cammino che la vita mi sta chiedendo di fare nelle cose che mi accadono (che accadono a me come dice Noel).
E’ il cammino che mi sta portando ad un sempre più forte presagio di un bene per me e i miei cari.
Non è un bene raggiunto attraverso un ragionamento , che mi renderebbe violento nel sostenerlo. Ma un bene percepito e sperimentato permesso dal niente che sono, ma che che proprio perchè non è mio mi rende più certo della sua presenza, della sua rispondenza alle situazioni a prima vista avverse. DESIDERABILE!
E’ per questo indicabile a chi mi sta intorno dicendo un TU.
L’esperienza che qualcuno si è fatto compagno della mia domanda di bene , mi rende indomito e “baldanzoso” nella prospettiva che ogni atto della vita da questa domanda è mosso e niente più spaventa perchè la risposta c’è per me e per chiunque.
Contributo di Paolo Reverberi – Maggio 2010
ICARE
Ciao Tommaso,
nella tua nota parli di una cosa che conosco, lo strano presentimento di bene che, nonostante tante obiezioni, stranamente mi fa rimanere sempre in attesa che improvvisamente la bellezza mi accada.
Ma espliciti anche un aspetto che mi sembra bellissimo e che ho spesso negletto: il mondo interiore che ciascuno si porta appresso, l’impronta indelebile dell’amore di chi ci ha creato e che è mistero insondabile per tutti tranne che per Lui. Dell’anima non sento più parlare dai tempi dell’ora di religione delle elementari: ci avevano detto e io ho fatto il disegno sul quaderno, che l’anima fosse simile a una radio a transistor da cui il Signore ci mandava i suoi messaggi (o forse era la coscienza?).
Ma in me prevale come un preconcetto negativo, la vergogna del peccato: questo mondo interiore non è salvato, non è presentabile se non nei suoi risvolti sentimentali che possono fruttare un po’ di compassione.
Non è dono salvato, cuore del mio fare e del mio incontrare, ma è roba mia da trafficare sotto banco per ottenere benefici secondari.
Ladro non erede, come direbbe Giacomo Contri.
Ma poi mi interroga sempre questo bozzare di mondi interiori del nostro vivere quotidiano.
E nonostante i momenti di scoramento e disincanto che sono solo la normalità di questo mondo, accade talvolta che quando si intuisce l’interiorità altrui, anche quando questa ci pare la più strana, ci si scopre a guardarsi con la speranza che si palesi il bello.
Contributo finale di Tommaso Bellini – Settembre 2010
Amici cari che mi avete scritto, e amici che avete letto, mi permetto di aggiungere una nota alla fine di questo scambio di racconti di noi, di questo scambio pieno di accoratezza, di dolcezza, di amicizia, di intelligenza, che mi ha portato a riflettere su che cosa abbia questo magico potere di convogliare un senso di compagnia, di aiuto fraterno, di amichevole affetto.
Provo a raccontarvi come la penso io.
LA SCATOLA NERA
Yuka è una scienziata giapponese con cui ho cominciato a chiacchierare a Lamezia in aeroporto aspettando il bus di un congresso. Una donna quarantenne, molto magra. Sulle sue spalle il suo bagaglio di viaggio magro come lei. La linea degli occhi molto inclinata, le mani magre e lunghe, le scarpe di tipo economico sempre in posizione convergente.
Molto diversa dal mondo cui sono abituato, anche se un po’ mi ricordava Michi, una ragazza giapponese dalla storia triste con cui ho brevemente lavorato in passato. Abbiamo osservato le persone che uscivano dalle porte scorrevoli degli arrivi, in attesa di due altri colleghi giapponesi. Abbiamo commentato quello che passava, soprattutto famiglie italiane con carrelli carichi di montagne di bagagli. Così abbiamo un po’ legato, abbastanza per poi parlarci spesso nei giorni che sono seguiti.
Ho recentemente letto La fine del mondo e il paese delle meraviglie, un romanzo di Haruki Murakami, probabilmente il più importante scrittore giapponese vivente.
Racconta di una città i cui abitanti hanno perso il cuore. Ciò non impedisce loro di vivere, di socializzare, anche di innamorarsi. La perdita è più sottile e più profonda.
Ho chiesto a Yuka quale fosse la parola giapponese che Murakami usa per indicare il cuore. E’ «kokòro», una parola composta da un solo carattere, di origine cinese, che in cinese indica la posizione centrale di qualcosa. In giapponese indica non l’organo cuore, ma un atteggiamento, un’intenzione. «E’ un concetto che si impara dalla mamma che ti dice di fare le cose bene, di farle col cuore, e quando ti dice brava, l’hai proprio fatta col cuore». Kokòro, mi ha detto, è quando il cuore ci dice una cosa diversa dall’opinione che istintivamente avremmo. E’ per una cosa che abbiamo fatto con intenzionalità ma che ci venuta male. E’ quel cuore che riconosce il bene, che scorge la speranza, che compatisce la tristezza, che prova simpatia. Un altro scienziato giapponese passava di lì mentre parlavamo di questo. Dopo un attimo di stupore per il tipo di conversazione, ha aggiunto «Kokòro non si sa bene cosa sia ma lo si riconosce. Anche nelle situazioni semplici. Quando uno studente mi scrive un email capisco subito se ci ha messo il cuore o no». Strano esempio.
Avevo notato che Yuka, a tratti, parlando di questo tema, teneva la mano destra sul petto, con le dita affusolate unite verso l’alto, come premendosi sul cuore con il fianco della mano. Quasi un piccolo inchino, una assicurazione di sincerità e al tempo stesso un gesto fatto per aiutarsi ad affrontare il tema. Un atteggiamento di rara intensità. «Grazie Yuka». «No, grazie a te, mi fa bene parlare del cuore».
«Yuka, perché ci fa bene parlare del cuore?».
Si è presa del tempo per rispondere. La risposta mi è arrivata spezzata in diversi messaggi elettronici. «Ci fa bene. E’ per avvicinarsi a qualcosa di misterioso che abbiamo dentro. E’ per sapere per quale ragione viviamo. Spesso non capiamo cosa ci stia spingendo, che cosa ci sta veramente motivando. Forse questo è nascosto dentro di noi. Ma è nascosto bene».
In effetti c’è dentro di noi un luogo, misterioso per noi stessi, che determina non solo chi siamo, ma anche la nostra disposizione nei confronti della vita. Credo che si trovi in un luogo ancora più profondo del cuore. La chiamerei la Scatola Nera, e non è solo la nostra personalità, o quello che ci succede, o le nostre idee, o il nostro cuore. E’ un po’ di tutto questo, ma ancora di più. E’ il luogo dove si decide se siamo capaci di fare le cose “con il cuore”. Ma soprattutto è là dove si determina la principale di tutte le questioni, se sperare o disperare.
Scatola Nera è un nome che mi è venuto leggendo e rileggendo i commenti ricevuti sulle mie note dell’intervento a Verbania. C’è dentro ognuno di noi questo nucleo, che mi sembra così decisivo come quel nocciolo di informazioni che si recupera dai relitti per sapere la verità dell’accaduto. E anche mi ricorda l’espressione Scatola Nera come ogni tanto si usa in fisica quando, non essendo chiaro il meccanismo interno che regola un processo, lo si descrive dal fuori.
Fino ad un certo punto, nella comprensione delle cose della vita, si arriva lasciandosi andare, si arriva non frenando la sincerità nel guardarsi in azione, nel dire la verità fattuale delle cose.
La Scatola Nera è il passo successivo. Cerco di dirlo meglio.
A me sembra che con sincerità e intelligenza, ma soprattutto sincerità, si riesca a dire molto del nostro intimo. Per me la strada aperta da don Giussani con Il Senso Religioso è stata la principale scuola di pensiero sul tema della natura umana. Ma il prodotto di questo pensiero è universale e raggiungibile attraverso varie strade. Quello che io sento e che spesso mi dico, come prodotto di questo pensiero “naturalistico”, è qualcosa del tipo: «Come sarebbe bello, dolce, definitivo, se l’apertura di desiderio senza volto che sperimentiamo continuamente non fosse solo un’eco emotiva sollecitata dentro di noi dalla realtà, ma veramente puntasse ad una realtà esistente e congrua al nostro essere. E se il nostro intrinseco animismo per il quale tendiamo a relazionarci a tutto come ad un presenza cosciente, fosse non solo una proiezione della natura dialogica della nostra mente, ma lo strumento più adeguato per avvicinare la vera natura di ciò che ci circonda. Bene, essere, tu, sono i vocaboli confusi che usiamo per queste aperture, per questa attrattiva senza volto della realtà a cui tendiamo ad attribuire una identità personale».
Non è affatto, per niente affatto detto che questo riconosciuto bisogno debba portare ad un’apertura religiosa. Anzi, io spesso mi trovo frenato dal vedere attorno a me tutta questa proiezione del mio desiderio di significato. Che sembra superare le cose un po’ affogandole. C’è una descrizione che ho trovato folgorante di questa difficoltà in Ogni cosa è illuminata, in cui ad un certo punto l’autore, J. S. Foer, descrive una dei protagonisti del romanzo, una giovane molto intensa, schiacciata dall’insufficienza di ciò che la circonda. E fa un lungo elenco delle cose quotidiane e non, a cui lei risponde come in una litania «Non ti amo».
A questa litania segue un’immagine del perché di questo non amore. “[…]: Non ti amo. La fisica, l’idea di te, le tue leggi: Non ti amo. Nulla sembrava qualcosa di più di quello che era davvero.
Tutto era semplicemente una cosa, impastoiata, da cima a fondo, della propria cosalità.” Tremendo, no?
Questo intendo: l’apertura ad un significato, la nozione stessa di significato, la tensione dialogica verso un tu, l’impressione che le cose stiano per parlarti, e tutta la nostra proiezione verso quell’oltre che non lascia che il gabbiano di Montale si poggi mai, che ci mette continuamente in ascolto della voce del mare come nella poesia di Pessoa, tutto questo è solo una nostra reattività agli stimoli o è anche una proprietà della realtà?
Se la realtà si ferma alla sua cosalità, la risposta è no, e la conseguenza è che non la si riesce ad amare fino in fondo. La si può godere, in parte, lasciandosi prendere da quel livello più reattivo di noi stessi, per cui ci appassioniamo davanti alle cose che accadono. Penso ad esempio al mio amico Noel di cui vi parlavo, come sempre riparte davanti a una nuova possibile scoperta scientifica. Penso a noi quando ridiamo, ci stupiamo, abbiamo voglia. Ci inebriamo con cose tipo la neve che scricchiola sotto i piedi. Ma questa reattività ha nascosta dentro la speranza che le cose non si esauriscano nella loro cosalità.
La domanda è se l’impatto (emotivo e/o intellettuale) che la realtà ha su di noi sia o meno segno di qualcosa di reale, di una proprietà della realtà.
La risposta la si decide nella parte – penso – più importante della nostra persona. La Scatola Nera è laddove ci sediamo in mezzo alle cose della nostra vita, grandi o cianfrusaglie, e decidiamo se ci parlano davvero di qualcosa. E’ laddove scommettiamo sulla natura vera della vita, sul suo fermarsi alla cosalità o meno. E’ laddove scommettiamo sulla natura del nostro desiderio. Laddove decidiamo se il fatto o l’oggetto davanti ai nostri occhi termina con se stesso o se invece l’attrattiva o il desiderio che suscita sia indizio di un’altra, più profonda, natura della natura.
Che cosa determina questa “decisione” o “scommessa”? Non trovo, alla fine, delle risposte che mi soddisfino davvero. Un’emozione è segno perché è più intensa? O un pensiero perché è più nitido? O un’esperienza perché è più accorata?
Certo può trattarsi di un unico evento che cambia la vita e in seguito al quale tutto appare come segno. Ma anche in questo caso, l’evento fu – esso stesso – accolto come segno.
Si può aprire la Scatola Nera? Si può, per fratellanza, per farsi compagnia, per togliere un po’ di astrazione a fede e sfiducia, lasciar vedere com’è che accade che le cose della vita diventano, dentro di noi, speranza o desolazione? Di certo questa è una cosa che desidererei enormemente.
Quante volte vorrei che sulla spalla dei miei amici ci fosse appollaiato un grande scrittore, uno dei grandi descrittori di fatti e anima, che potesse accedere alle emozioni, agli stimoli, ai pensieri, e raccontasse come accade, quando accade, questo passaggio così arduo e così decisivo tra fatto e segno. Su cosa si poggia, cos’è che lo rende possibile. Mi è proprio parso che questo scambio di messaggi in questo arco di sei mesi, sia stato un tentativo di aprire uno spiraglio, di dire una speranza.
Perché è la speranza che, guardandoci, cerchiamo.
Desideriamo lo sguardo dell’amico e dell’amica per l’affetto che porta. Ma ancora di più lo desideriamo nella speranza che la vita, guadata attraverso i suoi occhi presi a prestito, possa più facilmente essere accolta come segno. Questo avviene, ma un po’ per finta, un po’ per una scorciatoia, un po’ per surrogati, quando ci si dice reciprocamente quanto è bello quello che facciamo o come è bello stare insieme. Certo è più facile accettare come segno di altro una condizione di cui si condivide un giudizio positivo. Quando faccio lezione o una conferenza e vedo negli occhi degli studenti o dei colleghi interesse e magari persino stupore, ne esco rinfrancato e mi è facile pensare che quello fosse l’inizio di qualcosa di grande. Mi riesce persino facile pensare di essere stato oggetto di benevolenza da parte del Protagonista nascosto. Ma quello è un cortocircuito, mi pare.
Se mi guardo dentro, si tratta di una eccitazione generica. Ben diverso è un amico che ti lascia intravedere quando un fatto è in lui accolto come segno. Descrivere la vita, lasciare vedere come ci accade dentro, cosa suscita, quali pensieri, emozioni, ricordi richiama, è, per la mia esperienza, sorgente di compagnia profonda. Una specie di cammino condiviso alla speranza.
Penso che tutti cerchiamo questo. Qualche mese fa, nell’ultima conversazione che ho avuto con la mia zia Erminia prima che morisse, mi diceva di un libretto di Tolstoj, La morte di Ivan Iljic, dove veniva descritto, “innanzitutto descritto, senza troppi aggettivi e giudizi generici”, la vicenda di un uomo ammalato dello stesso male della zia. Mi è rimasto impresso quanto la zia si immedesimasse nello sforzo finale che Ivan Iljic sentiva di dover fare per morire, per guadagnarsi lo spiraglio di luce che intravedeva con la sua fine.
Anzi, la descrizione della visione delirata della luce in fondo al sacco col buco troppo stretto per uscirne, fatta quel giorno dalla zia era di una vivezza maggiore di quella di Tolstoj. Chissà quante volte le è tornato in mente, nei giorni seguenti, quel paradigma di sofferenza. E proprio lei, poco dopo, mi diceva quanto apprezzasse gli scrittori che sanno descrivere, che è quello che li rende vicini. Ho pensato spesso alla zia e a questa strana compagnia che aveva in Tolstoj. E ho pensato quanto spesso anche noi, immedesimandoci in un pezzetto di vita descritto da altri, ne prendiamo a prestito anche la vena di speranza con cui quel pezzetto di vita ci era stato comunicato. Fosse anche solo la visione immaginaria di un buco luminoso in fondo al sacco.
Insomma, quello che sto provando a dire è che mi è parso che, segretamente, in questo scambio di messaggi abbiamo mirato a fare questa cosa che alla fine penso sia praticamente impossibile: aprire la Scatola Nera.
E mi è proprio parso che basti in realtà aprirla appena un pochino per lasciare uscire, o entrare, un contagio di speranza.
Ciao amici
Tommaso
Contributo conclusivo di Marco Bersanelli – Settembre 2010
Secondo me la parola “cuore” come la usava don Giussani, per quello che ho capito io, coincide proprio con quello che chiami “scatola nera“.
Si tratta di una specie di terminale esterno di una radice che scende nel profondo e pesca nell’infinito, nel mistero. E’ da questa radice che nasce, in ogni istante, l’«io di ciascuno di noi».
E questo cuore non e’ cosa che si mette in comune, tanto e’ irriducibilmente nesso singolare con l’essere.
C’e’ una solitudine ineliminabile di fronte al Mistero, solo riconoscendo la quale si puo’ essere veramente amici.