La Stampa, 10 febbraio 2010, di Marco Pivato
Sono passati 10 anni dal completamento del sequenziamento del Genoma Umano e da allora la speranza – e allo stesso tempo l’illusione – più forte è stata quella di conquistare il potere per intervenire sui geni e guarire le malattie più drammatiche e diffuse: Alzheimer, Parkinson, Huntington, distrofie muscolari, cancro. Ma essere riusciti a socchiudere la finestra sulla realtà dei geni è stato sufficiente per scorgerne tutti i misteri? Da quali complessi meccanismi vengono regolati e come cambia la loro «espressione» nell’interazione con l’ambiente e lungo tutto il corso della vita? In realtà la scommessa di gettare le fondamenta di una diagnostica predittiva e, quindi, di una medicina personalizzata è ancora aperta. ATrieste si sono svolti i lavori di «Brains in dialog on genetic testing», l’iniziativa organizzata dal team di «Bid» – «Brains in dialog» – il progetto europeo coordinato dalla Sissa, la Scuola internazionale superiore di studi avanzati. Si sono incontrati scienziati e medici, ma anche filosofi e sociologi, per discutere della scienza emergente che si occupa di indagare il rapporto tra geni e malattie e dell’impatto della medicina predittiva sull’individuo e sulla società. Che cosa possiamo sapere davvero sul nostro destino clinico da un test genetico? E come cambierà la vita di un paziente a cui venga diagnosticata una malattia decenni prima del suo esordio? Paolo Gasparini, genetista dell’ Università di Trieste, introduce una chiara distinzione: «Esistono malattie provocate da una singola copia dell’allele difettoso – e si chiamano autosomiche dominanti – e in questi casi il test genetico predice con certezza il destino di un paziente». Un esempio è la corea di Huntington, che porta a una progressiva perdita dell’equilibrio.
Secondo Marina Frontali, responsabile dell’Ambulatorio di neurogenetica del Policlinico Tor Vergata di Roma, «la specificità e la sensibilità dei test per l’Huntington si avvicina al 100%, il che significa che la probabilità di falsi positivi o di falsi negativi è trascurabile, purché naturalmente il laboratorio che li esegue rispetti in modo rigoroso le norme per la loro esecuzione, internazionalmente definite, ed abbia sufficiente esperienza nel campo». Oggi si moltiplicano le analisi affidabili per molte malattie autosomiche dominanti: quelle neurologiche come l’atassia cerebellare, la distrofia miotonica e la sclerosi laterale amiotrofica (la Sla), che conducono progressivamente a un debilitante stato di coordinamento motorio. «E lo strumento vale anche per tipologie di demenze come gli Alzheimer e i Parkison “genetici” – spiega Marina frontali -: si tratta delle varianti caratterizzate proprio da una preponderante causa genetica».
Tuttavia, al di fuori delle malattie in cui i «killer» sono solo pochi geni mutati, la diagnostica predittiva brancola ancora in un campo incerto. «Sono tante le malattie che chiamiamo “multifattoriali” – aggiunge Gasparini – nelle quali i geni coinvolti sono decine, a volte anche centinaia: in questi casi si può soltanto accertare l’esistenza di un rischio “a priori”». Sono quindi a disposizione altri tipi di esami, vale a dire i «test di suscettibilità», che, quando danno esiti positivi, forniscono semplicemente il rischio relativo rispetto al rischio «standard» che corre la popolazione sana. Un esempio è il diabete di tipo due. «Insorge di solito in età avanzata e ha una chiara componente genetica: esistono, infatti, 60 geni che possono indicare al paziente una probabilità del 20% di ammalarsi». Anche il rischio di incorrere in una malattia cardiovascolare è oggi analizzabile «controllando» dai sei agli otto geni. «Sono i più significativi – sottolinea Gasparini – in una “folla” di una sessantina in totale, sicuramente coinvolti nella patogenesi delle ostruzioni vascolari». E non mancano nemmeno i test per predire l’osteoporosi. «Mutazioni a carico di cinque geni danno indicazioni di un alto rischio, mentre altri 20, di minore importanza, sono comunque coinvolti nella sintesi ossea e nelle sue degenerazioni». Malattie multifattoriali per eccellenza sono poi le malattie neurodegenerative, come le più frequenti tipologie di morbo di Alzheimer. Secondo Dimitrios Avramopoulos, della Johns Hopkins University School of Medicine, «disponiamo oggi di un “database” aggiornato, che conta 557 geni sicuramente associati al morbo e, di questi, esistono 1852 varianti ». Analoga è la situazione per il Parkinson e per disturbi mentali come la schizofrenia e la depressione. La componente genetica è più che probabile – assicura – ma quantificarla è un lavoro ancora fuori della portata della ricerca attuale. «Ed è una realtà ancora più complessa – aggiunge Gasparini – se si pensa che l’azione di questi geni può mutare a seconda degli stili di vita dell’individuo». Se allora la diagnosi attraverso i test genetici di malattie multifattoriali rende conto solo di un rischio relativo, come lo si deve interpretare, soprattutto quando è appena di qualche punto percentuale in più rispetto alla popolazione sana? Sono celebri i casi riportati dalla giornalista del «New York Times» Gina Kolata, che ha raccontato le storie di molte americane che, sulla base di un test predittivo per il tumore alla mammella, hanno chiesto una mastectomia preventiva, vale a dire l’amputazione del seno. Sempre «negli Stati Uniti – riporta la Kolata – non sono poche le aziende che vorrebbero ricorrere ad analisi del Dna per valutare preventivamente la salute di impiegati e, sulla base di questi, l’”utilità” dell’individuo e le prestazioni sul posto di lavoro». I buchi neri della ricerca si intrecciano sempre di più ai dilemmi etici e sociali. Il team che si è riunito a Trieste ha cercato di fare un primo punto, spalancando inevitabilmente nuovi interrogativi. Quali saranno gli obiettivi ultimi dei test? E quali i loro limiti insormontabili? La questione, al momento, è più che aperta.