Professor Magenes, una mano bionica che si muove con il pensiero ed è in grado di “sentire” gli oggetti afferrati. È una notizia inaspettata?
Direi che non è del tutto inaspettata. Infatti è già un certo numero di anni che si sta lavorando in vari laboratori del mondo su due principali terreni di studio. Il primo riguarda la costruzione di mani biomeccatroniche, cioè di mani sostanzialmente artificiali che siano in grado di riprodurre quasi tutti movimenti di una mano naturale. L’altro aspetto concerne invece l’interfaccia con il sistema biologico naturale, con il segnale biologico diretto. In questo caso particolare la mano è stata realizzata tramite l’analisi dei potenziali elettrici generati dal cervello.
Può spiegare meglio quest’ultimo aspetto?
Come dicevo, non è la prima volta che si arriva a risultati simili. Da anni stiamo lavorando su quella che viene chiamata brain computer interface ovverossia il registrare l’attività elettrica del cervello per metterlo in relazione ad azioni possibili realizzate da macchine. Vengono analizzate le onde cerebrali dell’elettroencefalogramma. Quando si compiono le azioni motorie il cervello emana onde cerebrali. Vengono segnalati quali sono i pattern, i segnali, comuni a queste onde per provocare conseguenti azioni su macchine. Finora esperimenti simili si sono concentrati su azioni esterne al corpo: far andare avanti e indietro un trenino piuttosto che un cursore su un monitor o comandare l’accensione di qualcosa. In questa occasione lo stesso principio è stato adattato alla protesi di una mano. Sembra semplice, ma è il risultato di un lavoro di anni e anni.
Se dunque da molto tempo si effettuano simili esperimenti qual è la novità fondamentale legata alla notizia della mano bionica?
Nel nostro Paese, ma anche in Giappone, negli Usa e in altri stati europei, sono state realizzate diverse tipologie di arti o mani artificiali comandati da segnali di origine biologica. Finora però si trattava di segnali legati alle contrazioni muscolari o di origini nervose di altro genere. In questo caso, il primo al mondo, il risultato più soddisfacente è quello far partire l’impulso da un’attività prodotta direttamente dal cervello. Il che rende le azioni immensamente più “naturali” per il soggetto. È un traguardo importante per la ricerca italiana.
Ci sono delle “controindicazioni” o comunque margini di miglioramento rispetto a questo già importante risultato?
In primo luogo bisogna chiarire che uno degli obiettivi di ricerca è la traduzione dei veri e propri segnali nervosi in segnali meccanici. Il che significa che il passaggio ulteriore riguarderà un collegamento diretto con i nervi degli arti interessati, per ora solo riuscito in parte. Non ci siamo ancora del tutto infatti, ma non si tratta di un obbiettivo lontano. Per quanto riguarda il traguardo odierno, molti si sono dimenticati di dire che il braccio artificiale per il momento funziona per lo più con l’ausilio di un caschetto che registra le onde cerebrali, il che risulta piuttosto poco pratico. A Pisa comunque i ricercatori, in particolare Silvestro Micera, ci stanno lavorando. Lavorano alla creazione di microelettrodi compatibili con le terminazioni nervose naturali.
Per quale motivo, se da più parti si continua a dichiarare che il cervello umano e i suoi meccanismi rimangono per lo più un mistero, la scienza è poi in grado di arrivare a questi risultati?
Su questa domanda è necessario chiarire un punto fondamentale. Quello che permette il movimento del braccio bionico non è tanto un discernimento dei pensieri umani, una lettura del pensiero quanto piuttosto un più semplice meccanismo di azione e reazione. Le onde cerebrali sono espressione di tutta l’attività elettrica del cervello: pensieri, parole, azioni e via dicendo. Il nostro lavoro è sostanzialmente quello di trovare dei pattern comuni all’emanazione delle onde. Per esempio, se si pensa di afferrare un oggetto o di stringerlo il cervello emette lo stesso tipo di onde. Abbiamo catalogato la “forma” di queste e l’abbiamo inserita in un computer. Ogni volta che si presenta lo stesso imput, il computer, e quindi l’arto artificiale, risponde con lo stesso output. Non c’è nessun nesso fra il pensiero in sé e l’azione dello stringere della mano artificiale.
Quindi nessuno scenario da fantascienza, nessuna macchina che legga il pensiero….
Assolutamente no. Non è che si arrivi a “interpretare” i pensieri della gente. Si tratta di una correlazione. In linea teorica potrei fare la stessa cosa con un elettrocardiogramma facendo sì che a ogni battito del mio cuore si stringa una mano artificiale. Questo non significa che il mio cuore pensi di voler stringere la mano. L’unica differenza consiste nel fatto che il movimento del cuore è involontario, mentre un pensiero è riproducibile volontariamente.
Ci sono altre strade battute per la realizzazione di protesi efficienti come questa?
Diciamo che questa è una delle strade. Personalmente io sto lavorando alla stessa mano, allo stesso progetto di Pisa, però con l’intenzione di farla muovere mediante l’azione di soli due muscoli. Numerosi studi di fisiologia hanno infatti dimostrato che con due soli impulsi il 90 per cento delle azioni di una mano naturale può essere riprodotto. Già lavorando con un mouse a questa mano artificiale, e usando i due impulsi destra/sinistra alto/basso, siamo riusciti a farle compiere il 90 per cento dei movimenti naturali. Attualmente questa via è molto più “rodata” dal momento che l’immediatezza con cui i pazienti imparano ad adoperare la protesi è superiore rispetto a quella “a comando cerebrale”.
Siamo così abituati a parlare male della ricerca in Italia che spesso ci stupiamo delle nostre eccellenze. Come è messo il nostro Paese (sembrerebbe piuttosto bene) nei confronti della ricerca in questi campi?
Devo dire che in questi settori, la robotica antropomorfa e l’interfaccia uomo-macchina, gli italiani sono messi molto bene, sono all’avanguardia in tutti e due i campi. Il risultato di cui stiamo parlando è un esempio perfetto della sinergia fra queste due eccellenze. Personalmente non sono mai d’accordo con chi critica la nostra ricerca. Il problema risiede piuttosto nella scarsità dei fondi, molto meno nella preparazione scientifica media dei nostri studenti e ricercatori. La questione della ricerca in Italia somiglia un po’ a quella del turismo. Non mancano le idee e le competenze, così come non mancano i musei e le opere d’arte, ma se l’investimento è scarso, si produce poco di più di quanto è stato investito.
© Pubblicato su IlSussidiario.net del 3 dicembre 2009