L’incontro con il bello è il movente di ogni indagine, come viene riconosciuto e testimoniato da grandi scienziati di ogni tempo. Non nel senso di una «scienza spettacolo» che suscita solo brevi reazioni emotive, ma come esperienza elementare capace di generare conoscenza e certezza.
Anche nel mondo della scuola un compito irrinunciabile dell’insegnante è quello di proporre i contenuti didattici senza censurare questa dimensione del sapere scientifico.
Cominciamo dal tema della sua conferenza: la definizione di bellezza e le sue relazioni con la scienza.
È un fatto della storia della scienza che per molti secoli e già per millenni gli scienziati hanno sentito la bellezza come un fattore estetico nella pratica scientifica. Essi vogliono avere prove matematiche belle ed «economia di pensiero». È una lunga storia. Aristotele già scriveva nella sua Fisica: «La natura non fa mai niente invano». Usa sempre il giusto materiale che ci vuole, mai troppo. La natura non spreca mai nulla, tutte le cose vengono usate in qualche modo. Quando noi come scienziati investighiamo la natura dovremmo essere altrettanto economici, semplici, parsimoniosi. È una tradizione: già Aristotele diceva che gli antichi matematici ritenevano che le prove dovrebbero essere le più brevi possibili e, pur ampliandosi le conoscenze, questa tradizione è andata avanti fino a oggi. Albert Einstein era sempre attento all’armonia, alla bellezza e alla simmetria delle equazioni. Come dicevo, è una lunga storia.
A volte però la bellezza può anche essere ingannevole: per esempio, all’inizio si pensava che le orbite dei pianeti fossero circolari, perché questo era il massimo della simmetria, ma poi si è visto che non era così. Allora come fare a distinguere il «giusto» tipo di bellezza?
Lei ha assolutamente ragione. C’è una sorta di «seduzione» della semplicità e della semplificazione anche al di là di quanto effettivamente possibile. Alfred Whitehead, un celebre filosofo del XX secolo, una volta disse: «Cerca la semplicità e non fidartene». Bisognerebbe essere molto diffidenti. Ma c’è un’altra qualità superiore alla semplicità, l’eleganza, che ha a che fare con la difficoltà di scegliere adeguatamente. Già Cicerone parlava di eleganza a proposito della persona che realmente può compiere la giusta scelta. Ma talvolta la giusta scelta può essere più complessa della scelta semplice. Un buon esempio dalla storia della scienza è il seguente. All’inizio del XX secolo i fisici conoscevano due particelle elementari: il protone, la particella positiva del nucleo, e l’elettrone, la particella negativa. Era molto bello avere solo due particelle con cui però si potevano spiegare tanti fatti. Per esempio, ogni elemento della tavola periodica poteva essere spiegato dalla carica nucleare, cioè dal numero dei protoni, uguale al numero degli elettroni. Ma c’erano alcuni problemi coi pesi atomici (gli isotopi) e allora i fisici ipotizzarono l’esistenza di una terza particella, il neutrone, per spiegare le differenze dei pesi nucleari. E all’inizio molti scienziati, anche importanti, erano contrari, perché passare da due particelle a tre appariva una complicazione. In realtà, usare una particella extra rendeva più semplice la soluzione del problema. L’indagine aristotelica riteneva l’eleganza qualcosa di superficiale, come l’eleganza femminile fatta di bei vestiti, mentre la semplicità era una qualità superiore. Ma in seguito, studiando, ho scoperto che l’eleganza, cioè la difficoltà di scegliere adeguatamente, è una proprietà più elevata della sola semplicità.
Mi pare che un’importante caratteristica del particolare tipo di bellezza scoperto dalla scienza è di essere una bellezza inattesa, sorprendente, e talvolta perfino strana, addirittura più strana di quello che possiamo immaginare. Oggi molti filosofi della scienza sono convenzionalisti e antirealisti. Così il fatto che la scienza scopra qualcosa che non possiamo immaginare mi sembra un argomento importante a favore del realismo. Lei cosa ne pensa?
Questa è precisamente l’esperienza che hanno fatto i più importanti scienziati. Ci sono lettere tra scienziati come Einstein, Heisenberg e Pauli che testimoniano la loro sorpresa per quanto scoperto dagli altri. Anche Platone non ignorava quanto sia bello sorprendente che la realtà si manifesti, mostrandosi come prima non potevamo sapere. Quindi non è una bellezza costruita, è come quando uno incontra una montagna sulla sua strada e non conosce il paesaggio completo, ma dopo averci girato attorno scopre laghi e colline e si sorprende, perché non sapeva che erano lì e quanto fossero belli. E non è solo un’esperienza dei fisici di prima fila vincitori di premi Nobel, può accadere anche a scuola.
Il passo successivo, secondo la stessa logica, è che la realtà non è solo oggettiva, ma è anche data, in un certo senso è un dono. Cosa ne pensa?
Anche questa è un’idea antica, che cioè noi investighiamo dei dati, cioè qualcosa che, appunto, ci è stato dato. A volte anche cose molto semplici che ci sono date possono generare un sentimento di rendimento di grazie, come quando diciamo il Gloria. Conosco un bravissimo chimico che una volta mi ha detto che ogni volta che gira per il suo laboratorio e trova anche solo una piccola cosa sorprendente si inginocchia sul pavimento e dice: Gratia agimus tibi. Anche se ovviamente gli scienziati in genere non fanno questo, uno può ugualmente sentirsi grato anche per piccole scoperte. Ora, uno non si sente grato per se stesso: può sentirsi fiero perché ha fatto bene qualcosa, perché ci ha lavorato per settimane, ma è per un dono che uno si sente grato. Credo che sia un’esperienza antica, molto antica: uno resta sorpreso e dice: «Non sapevo che questo esistesse». Come Platone quando in uno dei suoi Dialoghi fa dimostrare a un giovane schiavo il teorema di Pitagora e questo ne rimane stupito: «Io ho potuto far questo?».
Lei parla dei frattali e dell’astronomia come esempi di bellezza della scienza molto popolari anche fra il grande pubblico. C’è una particolare ragione per questo o è solo una moda?
È più spettacolare. Non penso che questo tipo di bellezza sia in se stessa più importante di quella di altri fatti molto semplici nell’ambito della scienza. È solo più spettacolare e profonda. La gente vuol sapere quanto è vecchio l’universo e perché. Ma se domani qualche nuova teoria astrofisica dicesse che l’età dell’universo è in realtà doppia di quella che si riteneva finora, questo susciterebbe grande interesse, ma non cambierebbe la mia vita, proprio per niente. Mentre se la prossima settimana io andassi dal mio medico e questi dopo una breve visita mi mostrasse che c’è un piccolo tumore che cresce da qualche parte nel mio corpo, questo non sarebbe spettacolare come l’età dell’universo, ma la mia vita ne sarebbe molto disturbata. Per questo, quando ero insegnante di chimica e fisica quello che mi piaceva, era cercare di insegnare il senso della meraviglia di fronte a molte piccole cose: per esempio mettevo gli studenti davanti a una candela e li invitavo a scoprire tutte le caratteristiche rilevanti perché un oggetto possa essere una candela, oppure con un microfono ad alta fedeltà facevo loro ascoltare il suono della cera che cola in tutte le sue sfumature, una piccola cosa che diventava un grande evento.
Nonostante la «leggenda nera» nata dal caso di Galileo, in realtà la Chiesa ha sempre incoraggiato la scienza. Ma si potrebbe fare di più?
In effetti già nel XVI secolo molti gesuiti erano anche astronomi e matematici, e credo che circa trentasei crateri lunari portino il nome di un gesuita che ne è stato lo scopritore. C’è una lunga tradizione di studi scientifici condotti da persone che erano anche religiosi, pensiamo solo alle prime leggi della genetica scoperte da Gregor Mendel, che era un monaco agostiniano: e anche oggi c’è la Pontificia Accademia delle Scienze, che comprende sia cattolici che non cattolici, e il papa Giovanni Paolo II ha stimolato moltissimo l’interazione tra scienza e teologia. Si potrebbe fare di più? Penso che sarebbe importante dare una formazione in proposito alle persone che devono assumere responsabilità nella Chiesa, come i sacerdoti e i vescovi. Io una volta ho riunito un gruppo di vescovi cattolici insieme ad alcuni importanti scienziati nel campo della genetica e della medicina e ho chiesto a questi ultimi soltanto di spiegare le nozioni di base, come la differenza tra gene e cromosoma o tra DNA e RNA, o cosa sono le cellule staminali, perché spesso coloro che hanno responsabilità nella Chiesa sono disinformati al riguardo. Credo che anche i professori delle Università Pontificie e dei seminari potrebbero fare lo stesso.
Cosa pensa dell’insegnamento delle scienze nella scuola?
Ovviamente non conosco la situazione italiana, ma parlerò in base alla mia esperienza. Quaranta o cinquanta anni fa le cose andavano meglio di adesso. Chi diventava insegnante? Gli studenti migliori. Oggi invece spesso a diventare insegnanti sono i peggiori. Questo è un peccato. Gli studenti hanno bisogno di entrare in contatto con questo senso di meraviglia, con questa esperienza di bellezza nella scienza. E solo quando li hanno in se stessi possono comunicarli agli altri ed essere dei buoni insegnanti. Questa è la ragione per cui io stesso un tempo sono diventato insegnante di chimica.
* Docente di Filosofia presso la Technical University di Eindhoven (Olanda); Vice-Presidente della Società Europea per lo Studio della Scienza e della Tecnologia.
© Pubblicato sul n° 26 di EMMECIquadro