L’avventura della scoperta

Benedetta CappelliniArticoli

Imparare a giudicare l’esperienza di ricerca è un desiderio di ogni tempo e di ogni paese. Per questo, un dibattito tra fisici di diverse nazionalità, svolto presso l’Universidad Complutense di Madrid, è ricco di spunti che insegnano a capire la genesi profonda dell’innovazione in campo scientifico. Come ha affermato il moderatore Guiomar Ruiz Lopez introducendo questo incontro, i partecipanti alla tavola rotonda possono essere considerati «maestri e amici» perché il modo con cui si interrogano sul proprio lavoro introduce a un modo più vero, più attraente e per questo più fruttuoso, di affrontare lo studio e la ricerca nel quotidiano. Una testimonianza suggestiva soprattutto perché nasce da un lavoro di riflessione (in particolare su alcuni scritti dei relatori) condiviso all’interno della Asociacion para la Investagacion y la Docencia Universitas.

Ruiz Lopez
Il professor Rañada, nel suo articolo “La fisica es divertida”, afferma che «se una scienza non è divertente, emozionante e stimolante, non può essere buona», e il professor Tsallis, nell’articolo Fisica, ¿por qué hacerla?, che «la teoria nasce dall’immaginazione e il primo passo ha sempre a che vedere con la fantasia». Da queste affermazioni ci sembra di capire che per «fare scienza» non bastano l’analisi e la dimostrazione, ma sono necessarie anche l’intuizione e l’affezione. Volete dire che questi atteggiamenti sono parte della dinamica della ragione?

Fernàndez-Rañada
Un punto di vista comune è che la scienza è sostenuta da una specie di automatismo che la rende fredda e lontana per il grande pubblico. Invece, la scienza consiste in uno sguardo intelligente e capace di meravigliarsi. Lo stupore è ciò che sostiene la curiosità intellettuale, come riconobbero i greci nel simbolizzare la saggezza nella civetta di Minerva, con occhi smisuratamente aperti. Il positivismo del secolo XIX volle affermare il contrario – non c’è più un luogo per lo stupore – cercando di incapsulare tutto in un sistema di equazioni. Però questa posizione non regge: ogni progresso della scienza implica la scoperta di un nuovo mistero e ogni scoperta rende manifesto che esiste un «velo» che si sposta sempre più in là.

Tsallis
Voglio prima di tutto ringraziare perché l’invito che mi avete fatto mi ha permesso di ritornare in Spagna. La Spagna è un luogo di sorprese: è la terra di Don Quijote, l’eroe dell’irrazionale, ed è anche la terra del flamenco, una melodia che non può non suscitare uno stupore in chi lo contempla. Il titolo dell’incontro, “La aventura del descubrimiento”, che rievoca la sorpresa della scoperta dell’America, mi sembra molto appropriato. Perché di fronte a una scoperta c’è una certa posizione del soggetto rispetto al reale: abbandona ciò che è stabilito e «si avventura» nella realtà; è questo il metodo con cui la scienza progredisce. Ho letto e riletto i testi che mi avete consegnato per preparare questo incontro e ho trovato con sorpresa una grande corrispondenza tra la mia posizione e quella degli altri due relatori. Per esempio, l’espressione «velo» che ha appena utilizzato Rañada è equivalente all’espressione «tenda» che avevo usato nei miei appunti per questo incontro. La sensazione che si ha nella scoperta è la stessa che si ha di fronte a una barzelletta: la sensazione di qualcosa di imminente che sta per accadere. È come l’insight che si verifica quando si capisce la barzelletta: c’è un miscuglio di intuizione e di logica; quando il senso della barzelletta si chiarisce accade la stessa cosa di quando un velo scorre davanti agli occhi.
La seconda parola che ho trovato nell’articolo di Rañada e che anch’io ho usato nel mio, è la parola magia. Einstein diceva che «ciò che è più incomprensibile dell’Universo è che esso è comprensibile». Esiste un vincolo profondo tra l’io e la realtà; così recentemente uno scienziato francese, che si dedica a un argomento di grande attualità, in che modo funziona il cervello, aggiungeva: «e ciò che è più incomprensibile di questo incomprensibile è che sembra che noi possiamo comprendere come comprendiamo». Per quanto riguarda la domanda posta dal moderatore, la mia risposta è che senza intuizione, usando solo procedimenti deduttivi, non ci sarebbero veri progressi scientifici. Il metodo deduttivo consiste nel partire da alcune premesse che possono rivelare conseguenze inaspettate da uno schema già esistente. Per esempio, data una corda che circonda la terra sull’equatore, vogliamo sapere quanta corda in più serve per fare lo stesso giro a un metro di altezza sopra la superficie. Date le dimensioni della terra si potrebbe rispondere: molti metri, forse più di mille. La risposta invece è circa sei metri: il perimetro di un cerchio è p volte il diametro; per cui se il diametro aumenta di due metri, il perimetro aumenta di 2p indipendentemente dalle dimensioni del cerchio di partenza. Questa risposta può andare contro l’intuizione, però è facilmente deducibile. Ciò nonostante i grandi progressi sono sempre induttivi, assomigliano all’insight della barzelletta di cui si diceva.

Bersanelli
Ci è stata posta una questione molto interessante, il rapporto tra ragione e affezione. La prima osservazione è che per conoscere è necessario avere interesse per l’oggetto dell’indagine: la realtà suscita una domanda nella persona. Questo deve essere successo all’inizio della storia della scienza, ma succede anche nell’esperienza personale. Per esempio, l’origine del mio interesse per l’astrofisica risale a quando ero bambino: guardavo il cielo con lo stupore e la meraviglia che una realtà grande provoca. Un atteggiamento di stupore è decisivo per qualsiasi conoscenza ed è un fenomeno affettivo che muove la ragione. Succede la stessa cosa nello studio: è difficile, o impossibile studiare, e quindi conoscere, qualcosa di estraneo, che non interessa per niente la persona. Inoltre, non solo l’inizio, ma ogni passo del percorso della ricerca richiede un fascino e un’attrattiva per l’oggetto dell’indagine. Per questo non è adeguata la riduzione della ragione al suo aspetto logico-deduttivo.

Fernàndez-Rañada
A questo punto mi piace ricordare il testo di una canzone del poeta Antonio Machado: Sin el amor las ideas / son como mujeres feas / o copias defectuosas / de los cuerpos de las diosas.*

Ruiz Lopez
Desidero citare una frase di Tsallis: «Lo scienziato è un sognatore, desidera l’impossibile, desidera trovare una legge valida sempre, in ogni luogo». Tuttavia, per ciò che conosco di voi, so che siete pienamente coscienti che davanti a voi sempre ci sarà un’oceano infinito ignoto. Perché, allora continuate a cercare?

Fernàndez-Rañada
La domanda è un atteggiamento profondamente umano, è ciò che definisce l’umano anche di fronte a ciò che è già noto; è ciò che permette di continuare a meravigliarsi in un cammino di scoperta sempre nuovo. Mai potremmo fare a meno delle domande. Sapete come Einstein intuì per la prima volta la teoria speciale della relatività? Quando era ancora un bambino e mentre aspettava un treno nella stazione, guardando l’orologio, si chiese cosa sarebbe successo se si fosse allontanato così rapidamente da «cavalcare il raggio di luce» che gli faceva arrivare l’immagine dell’orologio. Sarebbe stato come se l’immagine fosse rimasta fissa, cioè il tempo si fosse paralizzato. E l’antica domanda che aveva provocato la disputa tra Platone e Democrito sui costituenti della materia, idee o atomi, è stata resa prepotentemente attuale dalla fisica quantistica.

Tsallis
Newton diceva: «ignoro come sono considerato dagli altri (dagli altri era considerato un grandissimo genio!), però mi sento come un bambino che in spiaggia cerca alcune pietre più rotonde di altre, mentre davanti a me si estende infinito un oceano sconosciuto». Devo confessare che tra tutte le domande che mi sono state poste questa è l’unica a cui non so rispondere. Mai e poi mai nessuno saprà tutto. Allora perché una persona vuole sempre sapere di più se sa che mai nessuno saprà tutto? Camus non seppe rispondere, e io nemmeno. Nel mito di Sìsifo, che è eternamente condannato a portare una grande roccia in cima a una montagna, e quando arriva in alto la roccia cade nuovamente e così deve continuare a riportarla in cima eternamente, perché Sìfiso sale di nuovo la montagna? Non lo so, però so che quando un essere amato è malato, uno fa tutto per lui, nonostante sappia che in ogni caso morirà. È qualcosa di misterioso. L’amore porta a prendersi cura dell’essere amato, per una ragione che non capisco, però riconosco che è così. In modo analogo: qual è il senso di vivere un giorno in più se alla fine moriremo? Che mistero! È lo stesso stupore di fronte alla realtà di cui ha parlato Bersanelli. D’altra parte, la soddisfazione dello scopritore non dipende dal livello di conoscenza acquisito rispetto alla comprensione, totale o nulla, di un problema, ma dal «salto» che ha favorito, dalla novità scoperta. Di fronte all’infinito ignoto, il progresso dell’uomo non è legato alla «funzione scoperta», ma ai «piccoli incrementi» di detta funzione. L’uomo è soddisfatto se procede rispetto al punto in cui è, ma io non so dire perché.

Bersanelli
Ringrazio per questa domanda: è importante non dare per scontato che esiste un «infinito» nell’oceano della realtà, che si presenta in ultima istanza come irraggiungibile e mai definibile completamente. Infatti, esiste ancora una tendenza diffusa tra gli scienziati: l’illusione che la fisica possa arrivare a «denudare» completamente la natura. Questa posizione censura l‘incombenza sempre presente dell’imprevisto. Invece, nella storia della scienza, ogni grande scoperta è stata la premessa di una nuova domanda ogni volta più interessante: non c’è scoperta, per piccola che sia, che non illumini più in là di se stessa. La realtà è sempre più ricca di qualsiasi definizione. Mi sembra che l’aspetto più «misterioso» della scoperta sia l’esistenza, nell’ambito della scoperta stessa, di quella domanda che ridesta la volontà di incontrare nuovamente e più profondamente la realtà. Cioè: la realtà ci conduce continuamente oltre se stessa. Questo è un dato di fatto che apre un’alternativa drammatica: o la natura è malvagia e si ride di noi provocandoci un interesse illusorio che non ha nessun fine; oppure in ogni passo limitato esiste una possibilità di corrispondenza con la realtà totale. Nel caso della scienza, la corrispondenza si produce quando esistono indizi che conducono a una certezza riguardo a un fenomeno. Il fatto che si aprano nuove domande non toglie nulla alla certezza raggiunta. Esiste la possibilità di arrivare a una certezza, magari minima rispetto alle infinite domande. Sappiamo con certezza che il sole è una stella tra tante altre e che Andromeda è una galassia esterna alla nostra e non una nebulosa interstellare come si credeva fino a non molto tempo fa. Queste sono certezze che ormai non possono essere oggetto di falsificazioni. C’è sempre la possibilità di raggiungere qualcosa di vero sebbene sia minimo in rapporto all’infinito campo dell’ignoto. D’altra parte, il fatto che la nostra possibilità di conoscere non esaurisce mai la realtà, non toglie nulla al gusto della ricerca, anzi fa sì che questo interesse sia cento volte più grande.

Fernàndez-Rañada
Come diceva Bersanelli, è un mito pensare che possiamo arrivare a raggiungere una scienza definitiva, come pretende per esempio il premio Nobel nordamericano Steven Weinberg, una grande figura della fisica delle particelle elementari. Nel suo libro Sogni di una teoria finale egli afferma che siamo già vicini ad avere la conoscenza completa e totale delle leggi della natura. Questo è impossibile. Per esempio, per conoscere che cosa successe nel primo istante del Big Bang dobbiamo costruire un acceleratore di particelle di misura infinita: è vero che si stanno costruendo acceleratori sempre più grandi avvicinandoci sempre più a quel primo istante, però non lo conosceremo mai totalmente.

Ruiz Lopez
In questo cammino, che percorrete di certezza in certezza, mi sembra significativa l’affermazione di Tsallis in un suo scritto: «lo scienziato incontra nella bellezza della scoperta una prova inconfutabile della sua veridicità». E anche quella di Bersanelli quando parla della scoperta scientifica come «spettacolo di un nuovo scenario che si ha il privilegio di ammirare e di comunicare». Che esperienza avete di questo?

Fernàndez-Rañada
Non si può sempre dire che ogni teoria bella è vera. Lungo tutta la storia della scienza conosciamo teorie molto belle che finirono per dimostrarsi false; però è vero che è un buon indizio. Per esempio, pensiamo a Pitagora quando elaborò le sue teorie sui numeri. O a Dirac (lo scopritore della delta che porta il suo nome e della teoria relativistica elettronica) quando diceva che «è più importante dare bellezza alle equazioni del fatto che rispondano esattamente ai risultati sperimentali». Il grande Richard Feynmann sentiva un’emozione profonda di fronte alle leggi della natura, che classificava addirittura religiosa. E chiese ai suoi colleghi un silenzio contemplativo nell’istante in cui si ebbe, mediante il microscopio elettronico, la prima «visione» degli atomi.

Tsallis
Come diceva Rañada, l’importanza della bellezza è tale che, in pratica, su di essa si pongono le basi di un metodo di lavoro. C’è una corrispondenza profonda tra la bellezza e la verità, così come c’è una profonda connessione tra la scienza e l’arte. Per esempio, formulando la sua teoria della Relatività Generale, Einstein aveva previsto che la luce proveniente da una stella, passando vicino al Sole, doveva subire una piccolissima deflessione. Si fecero esperimenti in Brasile e in Sud Africa per verificare questa previsione. I primi risultati del Brasile non confermarono la teoria. Einstein allora disse: «l’esperimento è sbagliato, perché la teoria è troppo bella per essere falsa». Effettivamente, era sbagliato; i risultati del Sud Africa confermarono la sua previsione con una precisione straordinaria! Un matematico indú che è mio amico e con il quale scambio informazioni tramite posta elettronica piene di equazioni, è solito dirmi: «questa equazione non sembra sufficientemente elegante». Arriva un momento in cui la forma e il contenuto incominciano a confondersi. Perché è così? So che è così, ma perché? John Keats diceva: «La Bellezza è Verità e la Verità è Bellezza». Io non so esattamente in che cosa consista la bellezza, ma mettetemi davanti una bella donna e la riconoscerò.
Provo a spiegarmi partendo da un esempio. Noi percepiamo il mondo in tre dimensioni o, in tutto, quattro, se teniamo in conto il tempo. Immaginiamo che io debba uscire da un carcere in cui sono rinchiuso. Se questo carcere fosse un cerchio (due dimensioni), potrei uscire utilizzando la terza dimensione (l’altezza). Se ora il carcere fosse una stanza, potrei immaginare di uscire usando la quarta dimensione (il tempo), aspettando che prima o poi il carcere smetta di esistere e io ne sia già fuori. Però nessuno può immaginare di uscire dal carcere se fissiamo il tempo. Cioè: noi percepiamo in tre più una dimensioni. Non sappiamo se l’Universo è realmente così, però noi lo percepiamo così. Perché lo percepiamo in tre piú una dimensioni? La spiegazione potrebbe essere che percepiamo grazie alla forza elettromagnetica e questa interazione funziona in quattro dimensioni. Se percepissimo per interazioni gravitazionali in più di dieci dimensioni, potremmo forse percepire altre cose. La fisica dunque è lo studio di ciò che l’uomo può percepire della verità ultima e non lo studio della verità ultima. Allora: come noi percepiamo la bellezza e la verità in una stessa forma, per interazione elettromagnetica, questo potrebbe spiegare l’intima connessione tra le due di cui parlavo prima. La cosa certa è che il bello provoca in noi una certa sensazione di armonia. Così una equazione quando è nella sua forma bella, quando è «elegante», non solo riflette adeguatamente gli esperimenti (potrebbe farlo ugualmente senza essere bella), ma in più, nello stesso momento, è pronta per essere qualcosa di più grande.

Ruiz Lopez
Parlate di un’allegria che si sperimenta nel momento della scoperta. Però Bersanelli, nel suo articolo Sofia e la scoperta delle fragole, parla anche di «gratitudine». Perché?

Bersanelli
Possiamo discutere quanto vogliamo riguardo ai limiti che noi o la realtà stessa impongono alla conoscenza, però è certo che la realtà si disvela alla coscienza: questa è l’avventura della scoperta. Non solo per la genialità personale, ma anche grazie a una serie di circostanze favorevoli. Ogni passo avanti è fonte di allegria perché, come si diceva, è «inconcepibile» che l’Universo si lasci conoscere, che esista un vincolo profondo tra il mio io e la realtà, fosse anche un solo «pezzo» della realtà; da qui l’allegria della scoperta. Però la gratitudine è qualcosa di più e di diverso dell’allegria, perché la gratitudine esiste solo verso le persone: implica il riconoscimento tanto del soggetto che conosce la realtà quanto di chi «fa» le cose in questo momento. Questa gratitudine costituisce il modo naturale di abbordare la realtà. Se mio figlio riceve come regalo una bicicletta molto più bella di quanto mai avrebbe sognato, può fare due cose: portarsela in giardino e salirci o, un secondo prima, chiedersi da dove viene e da chi proviene. Se ha scelto questa seconda opzione e si è fatto questa domanda, tratterà meglio la bicicletta. Allora: la gratitudine, o almeno un accenno di gratitudine, nasce insieme alla domanda; chi fa una scoperta non solo è contento, ma sente il bisogno di ringraziare. E desidera comunicarla perfino ai colleghi più antipatici, ancora prima di avere elaborato la risposta completa.

Tsallis
Effettivamente, si ha una sensazione strana quando si scopre qualcosa. Non c’è nessun merito o demerito nell’essere intelligente come nell’essere rozzo, così come non c’è merito né colpa nell’essere bello o nell’essere brutto. È vero che per fare scienza c’è bisogno di una certa intelligenza, però può essere che qualcuno scopra qualcosa che altre persone molto più intelligenti non hanno potuto scoprire pur lavorandoci sopra. L’intelligenza, la bellezza, la scoperta sono in ultima istanza doni inaspettati: per questo, nell’ambito scientifico, il talento non potrà mai giustificare l’arroganza.

Ruiz Lopez
Ciò che avete appena detto mi suggerisce che tutti i fatti grandi nella vita, come le scoperte più significative e importanti, accadono spesso in modo imprevisto. Così sono state le circostanze che hanno reso possibile l’amicizia tra di voi. Nonostante ora si debba concludere, non siamo alla fine, ma all’inizio di una relazione di aiuto e di collaborazione.
Ringraziamo gli organizzatori dell’Happening che ci hanno dato la possibilità di approfondire questa amicizia nell’incontro di oggi.

* Ruiz Lopez
insegna Matematica presso la Escuela Universitaria de Ingenierìa Tecnica Aero-nautica dell’Universidad Politècnica di Madrid. È membro della Asociacion para la Investagacion y la Docencia Universitas.

* Constantino Tsallis:
dirige un gruppo di ricerca di Fisica Statistica al Centro Brasiliano di Ricerca Fisica (CBPF). Le sue ricerche si sono sviluppate in molti campi; ha generalizzato la termodinamica statistica di Boltzmann in quella che oggi è chiamata «statistica di Tsallis»

* Antonio Fernàndez-Rañada:
insegna Fisica Teorica presso l’Universidad Com-plutense di Madrid (UCM). Ha svolto la sua attività di ricerca nel campo della Fisica teorica delle particelle elementari presso l’Uni-versità di Parigi.

* Marco Bersanelli:
insegna Astrofisica presso l’Università degli Studi di Milano. La sua ricerca si è sviluppata nel campo della Cosmologia presso il CNR e presso l’Università di Berkeley.  È tra i responsabili del progetto spaziale Planck dell’ESA.

Si ringrazia la Asociacion para la Investagacion y la Docencia Universitas che ha realizzato questa tavola rotonda presso l’Universidad Complutense nell’ambito del Décimo Happening de Madrid e ne ha autorizzato la pubblicazione.
Si ringraziano in particolare Guiomar Ruiz Lopez per aver favorito l’inizio di una collaborazione tra la rivista e docenti e ricercatori in un contesto internazionale e Claudia Einaudi per la traduzione.

© Pubblicato sul n° 12 di EMMECIquadro