Il Prione

Benedetta Cappellinimc2

Un problema molto dibattuto, presentato dai mass media in termini catastrofici, chiede di essere inquadrato in un contesto di informazione scientifica seria. L’autore, mentre chiarisce rigorosamente i termini biologici della questione, mette a fuoco uno dei nodi della scienza in ogni tempo: la difficoltà a identificare le linee guida della ricerca di fronte all’emergere di fenomeni inesplorati. Con tutte le implicazioni che questo ha sul piano sociale.

Negli ultimi anni si è accumulata un’immensa quantità di informazioni bio-mediche grazie soprattutto all’enorme progresso delle tecniche e delle conoscenze nel campo della biologia molecolare. Di particolare importanza è stata la scoperta che le informazioni ereditarie necessarie per «costruire» ogni organismo vivente sono costitute da lunghe sequenze di acidi nucleici (DNA e RNA) chiamate geni. Nel 1953, James D. Watson e Francis H.C. Crick proposero un modello della struttura del DNA che spiegava come questa molecola fosse in grado di replicarsi: la sequenza «genitrice» funziona da stampo per la molecola «figlia». A ogni processo di replicazione le molecole prodotte raddoppiano aumentando in modo esponenziale. Una volta replicato, il DNA «dirige» la sintesi delle altre macromolecole biologiche, come RNA e proteine, che sono necessarie per la costruzione e il mantenimento delle cellule, di cui sono costituiti tutti gli organismi viventi complessi.
Le conoscenze di biologia molecolare sono state integrate nella «teoria sintetica neodarwiniana» che spiega l’evoluzione degli organismi viventi come risultato della replicazione e mutazione delle sequenze di acidi nucleici, e della selezione naturale determinata dall’ambiente, che tende a eliminare le sequenze meno adatte. I processi mutageni agiscono a livello degli acidi nucleici (genotipo) mentre quelli selettivi sono a livello dell’organismo (fenotipo) che è prodotto dall’espressione dell’informazione genetica.
Secondo il «dogma centrale della biologia molecolare» l’informazione passa dal DNA all’RNA e infine alle proteine, dal genotipo al fenotipo, e quindi l’ambiente non può avere alcuna influenza diretta sui cambiamenti ereditari, come invece era stato suggerito da Lamarck all’inizio dello scorso secolo. Questo principio alla base della biologia moderna è stato enunciato chiaramente da Crick nel 1958 : «Una volta che l’informazione è passata nella proteina non può uscirne fuori. In maggiori dettagli, il trasferimento dell’informazione da acido nucleico ad acido nucleico, oppure da acido nucleico a proteina è possibile, ma il trasferimento da proteina a proteina o da proteina ad acido nucleico è impossibile. Informazione qui vuol dire la precisa determinazione della sequenza, sia delle basi dell’acido nucleico che degli aminoacidi nella proteina.»
Lo scenario descritto dalla «teoria sintetica neodarwiniana» e dalla visione meccanicistica del «dogma centrale della biologia molecolare» ha portato alcuni scienziati come Richard Dawkins alla conclusione che gli organismi viventi con tutte le loro caratteristiche (occhi, pelle, ossa, dita, cervello e istinti) non siano niente altro che strumenti per la replicazione del DNA. Il vero motivo della nostra esistenza sarebbe di assicurare la propagazione di questa molecola «egoista».
A questo punto diventa chiaro perché si parla con tanto interesse dei progetti di determinazione dell’intera sequenza necessaria per codificare un organismo, come il famoso «Progetto Genoma Umano». Sembra ragionevole attendersi che dalla determinazione della sequenza sia possibile conoscere tutta la componente ereditaria delle caratteristiche di un organismo vivente. Inoltre si può capire l’importanza che viene attribuita allo sviluppo delle tecniche di terapia genica che dovrebbero risolvere la maggior parte delle malattie a base genetica e riuscire a debellare il cancro.
In realtà le cose non sono semplici come sembrano: recentemente si sono accumulate sempre più evidenze di violazioni dalla «teoria sintetica neodarwiniana» e del «dogma della biologia molecolare». Per esempio sono stati scoperti diversi fenomeni di trasmissione di informazioni ereditarie che non dipendono dalle sequenze geniche e che quindi vengono definiti epigenetici. Bisogna tenere presente che non basta conoscere le sequenze di DNA per capire il funzionamento di una cellula ma è necessario sapere come vengono accesi e spenti i geni e come vengono regolati i processi metabolici. I processi di controllo dell’espressione genica dipendono dalla struttura tridimensionale delle diverse macromolecole biologiche e dai loro processi di interazione a cui contribuiscono anche fattori ambientali. Questo tipo di informazione ci è oggi in gran parte sconosciuto anche perché è spesso di tipo epigenetico ed è basato su codici e meccanismi che sono ancora poco chiari.
Questa situazione spiega perché molti scienziati «ortodossi» faticano ad accettare scoperte che violano il «dogma della biologia molecolare» e che mettono in crisi le loro certezze. I pregiudizi e la mancanza di elasticità mentale di molti scienziati hanno ostacolato scoperte importanti come per esempio quella dei retrovirus e dei prioni.
Se consideriamo che queste due entità sono rispettivamente gli agenti infettivi di malattie come l’AIDS e il «morbo della mucca pazza» possiamo capire come le discussioni su questi argomenti non siano solo questioni accademiche ma abbiano un ruolo importante nella vita di tutti. È importante precisare che la scienza non possiede delle verità assolute ma solo delle probabili certezze che dovrebbero basarsi sui dati sperimentali. Per chi è poco competente è difficile stabilire il valore dei giudizi di scienziati, professionisti e politici che vengono fuorviati dai loro schemi mentali o, ancora peggio, da interessi economici personali. Ma la natura non si lascia influenzare dai nostri pregiudizi e a volte la validità di un’ipotesi scientifica viene dimostrata da una triste serie di tragedie. È questo il caso del prione, definito dal suo scopritore Stanley Prusiner «una delle più strane creature su questo pianeta».
Il prione è una proteina presente normalmente nel nostro organismo ma capace di trasformarsi in forme patogene responsabili di diverse malattie del sistema nervoso.
A tutt’oggi sono conosciute una decina di malattie causate da altrettante varietà di prioni.
Negli animali, le malattie da prioni più note sono la scrapie negli ovicaprini, l’encefalopatia spongiforme bovina (BSE) detta anche «malattia della mucca pazza», l’encefalopatia spongiforme felina (FSE), quella del visone (TME), di diverse specie di cervidi (CWD) e di alcune specie esotiche.
Nell’uomo sono conosciute il Kuru, la malattia di Creutzfeldt-Jakob (CJD), la sindrome di Gerstmann-Sträussler-Scheinker (GSS) e l’insonnia familiare fatale (FFI). Negli ultimi anni è comparsa nell’uomo la nuova variante della CJD (nvCJD) che è causata dall’ingestione di carni di bovini affetti dalla BSE.
I sintomi di queste malattie neurodegenerative sono sempre riferibili a una compromissione delle funzioni cerebrali che spesso in pochi mesi portano alla morte. Caratteristiche comuni di queste malattie sono la tipica struttura «spugnosa» del tessuto cerebrale colpito, il lungo tempo di incubazione (da alcuni anni a diversi decenni), la mancanza di un test che permetta di fare una diagnosi negli animali e nei pazienti ancora in vita (una diagnosi certa è possibile soltanto esaminando il cervello) e l’assenza di vaccini e di medicinali per la prevenzione e la cura.

Le pecore pazze e i cannibali della Nuova Guinea
La scoperta delle malattie prioniche è un’avvincente storia che non si è ancora conclusa.  Lo scrapie delle pecore è conosciuto da centinaia di anni e non ci sono evidenze che possa passare all’uomo con l’alimentazione di carni infette. Questa malattia prende il nome dal verbo inglese to scrapie che significa grattarsi perché gli animali ammalati provano un forte prurito che li costringe a grattarsi violentemente contro i recinti. La prima trasmissione causata dall’uomo di una malattia da prioni fu realizzata accidentalmente nel 1934 in Gran Bretagna, quando si usò un estratto di tessuto linfoide di pecora che possedeva l’agente infettante dello scrapie per vaccinare altre pecore: quasi 5 000 pecore su 18 000 svilupparono la «malattia della pecora pazza» entro due anni dopo la loro immunizzazione contro l’infezione di un virus.
Indagando a ritroso, gli scienziati scoprirono che il siero del vaccino veniva estratto da agnelli le cui madri avevano successivamente sviluppato la malattia degli ovini pazzi, ma il fatto che tale malattia passi verticalmente dalle pecore ai loro agnelli, e orizzontalmente da agnello a agnello per mezzo delle iniezioni di vaccino, fu stranamente pubblicato nella letteratura scientifica solo quindici anni dopo. In seguito venne dimostrato che lo scrapie si trasmette per via parentale e anche per via orale attraverso estratti di cervello, di midollo spinale e di retina. Nel 1947 la malattia della pecora pazza scavalcò la cosiddetta «barriera tra le specie» (che dovrebbe impedire la diffusione delle malattie da prioni tra specie diverse) quando un integratore alimentare infetto portò alla diffusione di una encefalopatia in visoni allevati negli Stati Uniti.
Il legame tra lo scrapie e alcune malattie neurodegenerative umane venne scoperto grazie agli studi sul Kuru, una malattia che era diffusa tra una tribù di cannibali della Nuova Guinea, i Fore. Nel linguaggio dei Fore il termine Kuru vuol dire «rabbrividire» perché la malattia produce nella persona colpita tremori sempre più incontrollabili sino alla morte.
Il legame tra scrapie e Kuru fu identificato nel 1959 dal veterinario William Hadlow che visitò una mostra allestita da Vincent Zigas e Daniel Carleton Gajdusek sulla strana epidemia dei cannibali della Nuova Guinea. Hadlow fece notare a Gajdusek che i danni al cervello prodotti dal Kuru rassomigliavano in modo impressionante a quelli presenti nel cervello delle pecore infette da scrapie.
Per confermare la relazione tra le due malattie Gajdusek inoculò nel cervello di alcuni scimpanzé un estratto di cervelli di ammalati di Kuru, dato che si sapeva che lo scrapie poteva essere trasmesso in questo modo da una pecora ammmalata a una sana. L’esperimento funzionò e a Gajdusek venne conferito nel 1976 il premio Nobel per aver dimostrato la natura infettiva del Kuru. I Fore rinunciarono alle loro abitudini antropofaghe e l’epidemia di Kuru è oggi quasi scomparsa.
Col passare del tempo vennero identificate le basi comuni di una serie di malattie, come la CJD e la GSS, che presentavano molte caratteristiche in comune con lo scrapie e il Kuru.
La CJD è una rara demenza presenile, descritta agli inizi del secolo, che si può trasmettere secondo tre diverse modalità: sporadica, familiare (e quindi ereditabile) e iatrogena, ossia trasmessa accidentalmente dal contatto con materiale infetto proveniente da altri individui ammalati.
Nel 1975 due neuroscienziati, Laura e Eli Manuelides, dell’Università di Yale negli USA, dimostrarono che le iniezioni di sangue di persone ammalate di Kuru e di CJD, potevano trasmettere la malattia agli animali di laboratorio attraverso le barriere tra le specie esattamente come gli estratti di cervello. Il loro messaggio profetico, ma ignorato, implicava che il sangue può veicolare l’agente della CJD trasportandolo al cervello. Nel 1985 si verificarono i primi quattro casi di CJD in bambini trattati con l’ormone della crescita, che veniva allora estratto da materiale cerebrale di cadaveri. Nonostante queste preoccupanti evidenze in Francia si continuò il trattamento dei bambini nani con l’ormone per la crescita e infatti, nel 1997, la Francia deteneva la metà degli oltre 100 casi mondiali di CJD causati da queste rischiose pratiche mediche.

La scoperta del prione
Nonostante il continuo progredire delle conoscenze sulle encefalopatie, l’agente infettivo responsabile di queste malattie è rimasto a lungo misterioso e inafferrabile.
Normalmente gli agenti infettivi sono microorganismi dotati di acidi nucleici, che costituiscono l’informazione genetica necessaria per la loro replicazione. Diversi esperimenti dimostravano invece che l’agente responsabile dello scrapie resiste a drastici trattamenti che distruggono completamente gli acidi nucleici come altissime temperature, radiazioni ultraviolette (figura a lato), radiazioni ionizzanti e particolari reazioni chimiche.
Nel lontano 1960, sulla base di una numerosa serie di evidenze sperimentali, Tikvah Alper e J. S. Griffith suggerirono che l’agente infettivo dello scrapie fosse una semplice proteina, priva di materiale genetico, ma capace di autoreplicarsi e di passare da uno organismo all’altro. Questa proteina è state isolata e identificata da Prusiner che l’ha chiamata «prione», abbreviato in PrP (proteina prionica).
Prusiner ha dimostrato che è possibile infettare roditori o primati inoculandoli con estratti proteici purificati da omogenati di cervello di animali o uomini affetti dalla malattia. Gli estratti che causano encefalopatie spongiformi trasmissibili richiedono un periodo di incubazione piuttosto lungo soprattutto nei primi passaggi da una specie all’altra. Per esempio, nei topi infettati con la nuova variante della BSE estratta dal cervello di bovini infetti, sono necessari circa due anni prima della comparsa dei primi sintomi della malattia. Con passaggi ripetuti nella stessa specie il periodo di incubazione diminuisce per assestarsi a un valore tipico per il ceppo del prione infettante e per la specie ospite.
Un decisivo passo avanti delle conoscenze sulle cause delle encefalopatie si è avuto con l’identificazione del gene del prione.
Nel 1988, il gruppo di ricerca diretto da Prusiner, confrontando i geni per la PrP ottenuti da un uomo affetto dal morbo di GSS con gli stessi geni ottenuti da individui sani, trovò una mutazione puntiforme nella sequenza che codifica per l’amminoacido in posizione 102. Tale mutazione provoca l’inserimento di una leucina al posto di una prolina nella PrP sintetizzata dal paziente. Questo lasciava supporre che alcune malattie da prioni potessero essere ereditate.
Numerosi studi hanno confermato la validità di questa supposizione. Diverse mutazioni nel gene PrP sono legate alle forme familiari ereditarie di CJD. L’insonnia familiare fatale, scoperta recentemente da Elio Lugaresi e Rossella Medori dell’Università di Bologna e da Pierluigi Gambetti della Case Western Reserve University, è associata alla presenza di un residuo di metionina in posizione 129 e di una asparagina in posizione 178.
I polimorfismi del gene del prione sono spesso associati a una diversa resistenza o suscettibilità a sviluppare la fase sintomatica dopo che è avvenuta l’infezione.
Per esempio, la presenza di metionina (M) o di valina (V) in stato omozigote (MM o VV) nella posizione 129 sembra favorire l’insorgenza della malattia nel Kuru, nei casi sporadici di CJD e nei casi analizzati di nvCJD.
Gli eterozigoti (MV) sembrano essere più resistenti e in caso di infezione si ammalano più lentamente. Nella popolazione caucasica il polimorfismo al codone 129 del gene per la PrP ha una frequenza allelica diversa nella popolazione normale e in quella ammalata delle diverse forme di malattie prioniche, come riportato nel grafico a lato.
La mutazione in posizione 129 è soltanto uno dei numerosi polimorfismi che influenzano la suscettibilità o la resistenza alle malattie da prioni il cui determinismo genetico è molto complesso e ancora in parte sconosciuto.
Polimorfismi del prione associati alla resistenza o alla suscettibilità allo sviluppo delle forme patologiche sono stati identificati anche nelle pecore mentre per il momento non sono stati trovati nei bovini.
Per i suoi importanti studi, condotti spesso tra lo scetticismo e l’ostilità dei suoi colleghi più blasonati, che hanno confermato sperimentalmente l’ipotesi di Alper e Griffith, nel 1997 Prusiner ha ricevuto il premio Nobel. Nonostante le numerose polemiche sui lavori di Prusiner, il ruolo fondamentale della proteina prionica nello sviluppo di numerose malattie del sistema nervoso è ormai un fatto scientifico confermato da numerose ricerche. Evidentemente il prione svolge la sua azione su sistemi biologici complessi interagendo con numerosi altri fattori in gran parte ancora poco noti. Ma quello che oggi conosciamo è sufficiente per affermare che la proteina prionica è la principale protagonista del meccanismo che produce numerose encefalopatie, compresa la BSE.
Una delle prove più convincenti del ruolo del prione nello sviluppo delle encefalopatie viene da esperimenti su topi transgenici knockout per la proteina prionica.
In questi ceppi di topi il gene del prione è stato inattivato utilizzando alcune tecniche di ingegneria genetica. I topi knockout per la proteina prionica crescono e si riproducono normalmente anche se presentano un ritmo circadiano (quello che determina il sonno e la veglia) alterato e spesso sviluppano durante l’invecchiamento un’atassia progressiva che ricorda la sindrome indotta dal prione. I topi knockout sono inoltre resistenti all’infezione con qualsiasi estratto proveniente da animali ammalati. Queste osservazioni hanno permesso di stabilire che la proteina prodotta normalmente dall’ospite sano ha un ruolo fondamentale nello sviluppo della malattia. La proteina patogena proveniente da animali infetti deve cioè interagire con quella endogena per produrre la degenerazione rapida della cellule nervose. Mentre la nuova variante della BSE porta alla morte anche individui molto giovani, la mancanza della proteina prionica impedisce la comparsa delle patologie giovanili provocate dalle forme patologiche ma porta alla degenerazione cerebrale durante l’invecchiamento. Un’ulteriore conferma di queste conclusioni è venuta da esperimenti realizzati con topi transgenici knockout per la proteina prionica nel cui cervello è stato trapiantato tessuto proveniente da topi che producono normalmente la proteina prionica. Se questi animali vengono infettati l’effetto neuropatologico si manifesta rapidamente solo nel tessuto trapiantato contenente il prione, ma non nel resto del cervello che non sintetizza il prione perché il gene corrispondente è stato inattivato.
Gli studi condotti sugli animali transgenici hanno anche dimostrato che la sequenza amminoacidica della proteina normale sia uno dei fattori che influenzano la velocità con cui la proteina prionica si trasforma nella variante patogena. Topi transgenici nei quali sono state introdotte le stesse modificazioni di sequenza presenti nel gene del prione umano associato alla variante ereditaria della malattia di Creutzfeldt-Jakob sviluppano alterazioni neurologiche e lesioni neuropatologiche simili a quelle della malattia umana.

Il meccanismo delle malattie da prioni
Le numerose ricerche sui prioni, di cui gli esperimenti con i topi transgenici sono solo una piccola parte, hanno suggerito che i sintomi e l’espressione della encefalopatie spongiformi dipendano dalla presenza del normale gene prionico cellulare e del suo prodotto che è stato chiamato PrPC (proteina prione cellulare) quando si trova nella configurazione normale.
Questa proteina è costituita prevalentemente da zone strutturali denominate ad alfa-elica, lega atomi di rame, è localizzata sulla membrana cellulare e svolge numerose funzioni nei fenomeni di plasticità neuronale. Per esempio interagisce con diverse proteine come la laminina e trasmette all’interno della cellula i segnali dovuti a queste interazioni. Inoltre funziona come una superossido dismutasi diminuendo i danni causati dai radicali liberi prodotti dalle reazioni ossidative.
La proteina prionica è anche coinvolta nella regolazione degli orologi cellulari, che controllano il ritmo metabolico circadiano, e degli equilibri che portano la cellula a suicidarsi con un meccanismo di morte programmata denominato apoptosi. Diversi anni fa avevo già formulato questa ipotesi sulla base di alcune caratteristiche comuni tra il prione e altre proteine coinvolte negli orologi cellulari e nel metabolismo del rame e del ferro. Attualmente diversi dati sperimentali confermano l’importante funzione del prione nel controllo dell’equilibrio tra la vita e la morte di alcuni tipi di cellule nervose. In seguito a fenomeni di attivazione cellulare la forma PrPC può trasformarsi in una forma chiamata PrP* costituita prevalentemente da zone strutturali denominate a foglietto-beta. La PrPC e la PrP* hanno la stessa sequenza amminoacidica e differiscono solamente per la conformazione che assumono nello spazio.
La PrP* non svolge più le funzioni della proteina normale PrPC, per esempio non è più in grado di legare il rame e non funziona più come una superossido dismutasi. Sulla base del modello di orologio biologico mostrato nella figura a lato, la forma PrP* dovrebbe essere in grado di funzionare come stampo per trasformare le PrPC in PrP*, che vengono poi degradate da enzimi chiamati proteasi.
Il principale meccanismo che produce la malattie prioniche è la conversione della forma normale PrPC in una patologica denominata PrPSc (proteina prione scrapie). La PrPSc è costituta soprattutto da foglietti-beta e induce la trasformazione della PrPC con un meccanismo analogo a quello della PrP*. A differenza di quest’ultima, la PrPSc è resistente alla degradazione con le proteasi e a numerosi altri trattamenti fisici e chimici. Inoltre la PrPSc tende a formare degli aggregati che si accumulano nelle cellule cerebrali sino a determinarne la morte per apoptosi.
Il processo di trasformazione della forma normale nella forma patologica è catalizzato da PrPSc ma chiaramente numerosi fattori possono influenzare il tipo e la velocità della conversione.
Per esempio, è noto che mutazioni puntiformi nella sequenza aminoacidica della proteina prionica, legate a varianti dello scrapie, influenzano la velocità del processo di trasformazione da PrPC a PrPSc che può essere fatto avvenire in vitro, cioè dentro una provetta.
Un’altra importante variabile che determina la progressione della malattia è la quantità di prione PrPSc con cui l’individuo viene in contatto. In questo senso le malattie prioniche dovute a cause infettive esterne, per lo più all’alimentazione, sono più simili a un’intossicazione alimentare che a un’infezione virale. Fortunatamente sembra che la grande quantità di prione necessaria per scatenare la malattia nell’uomo sia un importante elemento che ha limitato la diffusione dell’epidemia di nvCJD.
Tutte queste osservazioni suggeriscono che numerosi fattori, sia genetici che epigenetici, sia qualitativi che quantitativi, possono influenzare la progressione verso la fase sintomatica della malattia.
La malattia può iniziare in tre modi.    L’organismo accumula la forma patogena perché portatore di un’alterazione genetica ereditata dai genitori: in tal caso si hanno le malattie ereditarie come nella GSS, nell’insonnia familiare fatale e nel 10-15% dei casi di CJD familiare.
Lo stesso processo può essere avviato da alterazioni genetiche sporadiche che insorgono nel corso della vita, ma non sono state ereditate: questo avviene nella maggior parte dei casi di CJD.
Infine il prione patogeno può essere assunto dall’esterno, per contagio. Questa eventualità, accertata da tempo per lo scrapie è l’unica che può rendere ragione dell’andamento epidemico osservato per la BSE e la nvCJD. Attualmente solo una piccola frazione dei casi di CJD e nvCJD è iatrogena (trasmessa accidentalmente nel curare altre patologie per esempio con l’uso dell’ormone della crescita, con i trapianti o utilizzando strumenti contaminati durante le operazioni chirurgiche). In tutti i casi parte il lento processo di amplificazione e accumulo della PrPSc resistente alla degradazione che porta alla comparsa dei gravi sintomi provocati dalla degenerazione delle cellule nervose e si conclude con morte.
Lo studio dei prioni e dei meccanismi che portano alla morte per apoptosi delle cellule cerebrali è di estremo interesse perché la formazione di aggregati proteici è un evento importante non solo nelle malattie da prioni, ma anche in altre malattie neurodegenerative in cui sono coinvolte cuproproteine che, come il prione, legano il rame: la proteina amiloide (morbo di Alzheimer), la monoammino ossidasi (morbo di Parkinson) e la superossidodismutasi 1 (sclerosi amiotrofica familiare).
Mentre le malattie da prioni sono molto rare (la CJD, per esempio, ha un’incidenza di un caso per un milione di persone) l’Alzheimer, il Parkinson e la sclerosi laterale amiotrofica sono purtroppo molto diffuse e in costante aumento. Numerose evidenze suggeriscono che queste malattie sono probabilmente correlate all’azione dei prioni.
Tutte queste patologie, come le malattie prioniche, si manifestano di solito sporadicamente, possono avere carattere familiare, si manifestano nella media e tarda età, sono accomunate dalla degenerazione dei neuroni, dall’accumulo di depositi proteici e dall’ingrandimento abnorme delle cellule gliali che sostengono e nutrono le cellule nervose.
È significativo, inoltre, che in nessuna di queste malattie si sviluppi una reazione immunitaria caratterizzata dall’infiltrazione di globuli bianchi nel cervello: una reazione naturale se queste malattie fossero prodotte da un virus. Inoltre i geni delle cuproproteine sono infarciti di retroelementi endogeni e di sequenze che favoriscono la ricombinazione genetica.

La mucca pazza o BSE
L’epidemia di BSE in Gran Bretagna è iniziata nel 1985, causata forse da mutazioni che hanno portato alla comparsa della forma PrPSc.
Secondo alcune ipotesi la sua comparsa è stata forse determinata dall’impiego di integratori alimentari a base di farine ottenute da carcasse di pecora portatrice di prioni patologici PrPSc.
Ma anche se l’origine della malattia ha avuto probabilmente cause naturali, la sua diffusione è stata sicuramente il risultato delle attività umane.
Gli animali ammalati presentano inizialmente una brusca diminuzione della produzione di latte, restano appartati dal branco, barcollano, sono colti da contratture muscolari e tremori, digrignano i denti, non si reggono sulle zampe ed infine muoiono. Le autopsie effettuate sugli animali ammalati hanno rivelato la presenza di bolle e cavità nella loro corteccia cerebrale, tipiche delle encefalopatie spongiformi.
L’epidemia è comparsa simultaneamente in regioni differenti e in animali di differenti razze.
Nella sola Gran Bretagna la BSE ha portato alla morte di circa 200 000 bovini L’incidenza della malattia sta aumentando ora anche in altri Paesi, probabilmente a causa dell’utilizzo illegale di farine di carne di animali, dell’importazione di animali inglesi nella fase asintomatica della malattia e della trasmissione materna per via placentare.
Secondo alcuni dati epidemiologici è stato stimato che la BSE nei bovini avrebbe un periodo di incubazione medio di circa cinque anni.
L’insorgenza della malattia è indubbiamente aumentata con l’uso di farine animali ed è invece sostanzialmente diminuita quando questo tipo di alimentazione è stato proibito. In seguito al bando nel 1988 dell’alimentazione con farine animali per il bestiame, l’epidemia di BSE fu dichiarata sotto controllo. Secondo il Ministero dell’agricoltura inglese, il picco del 1992, con una media settimanale di 700 nuovi casi, è diminuito a 70 casi alla settimana nel 1996.
La speranza di aver debellato l’epidemia è contraddetta dalla presenza di BSE in circa 27 000 animali nati dopo il bando nel 1988. Le cifre indicano che, anche se l’epidemia si sta estinguendo, probabilmente madri asintomatiche trasmettono la BSE ai propri piccoli. Purtroppo sembra proprio che l’epidemia di scrapie e di BSE nel bestiame sia in grado di perdurare tramite il meccanismo della trasmissione materna da individui nella fase asintomatica della malattia e forse tramite altre vie di contagio attualmente poco conosciute.
Alcuni dati mostrano che gli animali nati in autunno hanno sino a 10 volte più probabilità di ammalarsi di BSE degli animali nati in primavera.
Una spiegazione di queste differenze è troppo lunga per essere affrontata in questa sede, ma è evidente in ogni caso che diversi fattori ambientali ed epigenetici sono molto importanti per consentire lo sviluppo della malattia.
Già nel 1986 Gerald A. H. Wells e John W. Wilesmith avevano suggerito che i prioni contenuti nelle farine animali fossero la causa dell’epidemia. La trasmissione per via orale dell’infezione è possibile in quanto il prione patologico PrPSc è relativamente insensibile ai trattamenti termici, alle proteasi (enzimi che demoliscono le proteine) e all’acidità dello stomaco. Il PrPSc è facilmente trasmissibile a numerose specie, come è stato dimostrato sperimentalmente in laboratorio e dalla trasmissione del contagio a numerosi animali alimentati casualmente negli zoo con carni di bovini contagiati dalla BSE.
La comparsa della nvCJD ha coinciso temporalmente e geograficamente con la comparsa della BSE.
Questa forma clinica è stata descritta per la prima volta in Gran Bretagna e ha una evidente derivazione dalla BSE come è stato dimostrato in modo chiaro anche sulla base di dati molecolari nel 1996. Attualmente la nvCJD si differenzia nettamente per la giovane età (la media è circa di 29 anni) dei soggetti colpiti mentre la CJD è presente soprattutto nelle persone con più di 50 anni.
A dicembre del 1997 i casi diagnosticati di nvCJD erano 25, a novembre 2000 erano 88. Purtroppo è stato segnalato anche il primo caso di un neonato che sembra aver contratto la nvCJD dalla madre infetta. Dato il lungo periodo di incubazione, probabilmente non sono ancora terminate le conseguenze dell’immissione di carni infette nella catena alimentare umana tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta. La carne inglese di quel periodo è stata consumata anche in Italia e quindi possiamo aspettarci dei casi di nvCJD anche nel nostro paese.
Le conoscenze sui meccanismi delle malattie prioniche inducono a supporre la concreta possibilità che l’introduzione di carni di bovini infetti da BSE nell’alimentazione umana possa portare non solo a un aumento dei casi di nvCJD ma anche a un consistente incremento di altre patologie, come l’Alzheimer, difficilmente riconducibili in modo diretto all’infezione prionica. Se a questo aggiungiamo la grande variabilità dei tempi di incubazione (si parla di decenni), tanto più lunghi quanto minore è la quantità di PrPSc assunta con l’alimentazione, ogni invito alla prudenza appare più che legittimo. Il caso di una ragazza inglese diventata vegetariana all’età di tredici anni e ammalata (e morta) di nvCJD undici anni dopo dimostra che forse stiamo assistendo all’inizio di un epidemia di vaste proporzioni. Il fatto che le persone ammalate di nvCJD siano giovani, omozigoti per la metionina in posizione 129 e forse portatrici di altri particolari polimorfismi suggerisce che forse sino a ora si sono ammalate solo le persone con una maggiore predisposizione genetica a sviluppare la malattia. Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che il grosso dell’epidemia dovrebbe ancora arrivare interessando persone anziane con genotipi più resistenti. Sulla base di queste ipotesi e sulla possibile interazione tra fattori genetici ed ambientali sono stati formulati alcuni preoccupanti modelli epidemiologici sulla futura diffusione di nvCJD nei prossimi decenni.
Speriamo che questi modelli siano sbagliati e che la fase culminante della nvCJD sia già passata. In questo caso ottimistico ci saremmo preoccupati, forse eccessivamente, per una malattia che ha colpito solo un centinaio di individui.

Che cosa fare?
Purtroppo, allo stato attuale delle conoscenze, non esiste alcuno strumento di diagnosi precoce delle malattie prioniche che non hanno un forte determinismo genetico, come la BSE e la nvCJD.
Per determinare l’infettività di un certo campione di tessuto è necessario iniettarne un estratto in un topo e attendere gli eventuali sintomi entro uno o due anni. Nessun controllo immediato durante la fase asintomatica della malattia è oggi possibile, se non sui tessuti cerebrali e forse sulle tonsille che possono essere analizzati facilmente solo dopo la morte. Esistono numerosi test basati su tecniche immunologiche che permettono di identificare la PrPSc.
Il test della ditta Prionics è stato scelto a livello comunitario per effettuare le verifiche anti-mucca pazza sui bovini di età superiore a 30 mesi. Da gennaio questo test è obbligatorio in tutta Europa come condizione per l’immissione in commercio della carne bovina.
Tale test ha comunque limiti di sensibilità e riproducibilità. È in grado di scoprire la presenza dei prioni solo poco prima che i segni del morbo siano visibili a occhio nudo mediante esami istologici e istochimici: in caso di risultato negativo quindi non c’è la certezza che i prioni non siano presenti in quantità potenzialmente dannose.
Per questo è importante mettere a punto test in grado di rilevare la presenza di piccole quantità del prione PrPSc.
Interessanti ricerche in questa direzione vengono svolte da numerosi gruppi, tra cui ricordiamo quello di Adriano Aguzzi, un italiano che lavora all’Istituto per le neuropatologie dell’Ospedale universitario di Zurigo. Aguzzi ha dimostrato il ruolo dei linfociti B nel trasmettere il prione dall’intestino al cervello e inoltre ha scoperto che solo la forma patogena del prione si lega al plasminogeno, una proteina presente nel sangue.
Michael Clinton e collaboratori del Britain’s Roslin Institute hanno trovato che i topi, pecore e bovini infettati con la BSE hanno un basso livello di espressione di un gene che codifica per un fattore di differenziazione dei globuli rossi immaturi denominato EDRF. Se questi risultati verranno confermati si spera che presto potranno essere sviluppati dei test per l’identificazione della fase asintomatica dell’infezione con PrPSc a partire da un semplice prelievo di sangue.
Le difficoltà diagnostiche dovrebbero spingere a un’azione decisa per eliminare le cause note della malattia.
Non ci sono dubbi che la principale via di contagio della BSE è stato il diffuso uso delle farine animali nei mangimi destinati ai bovini, naturalmente erbivori, nell’ottica di una maggior produzione con costi minori.
Purtroppo il prione ha dimostrato di possedere un’incredibile resistenza ai consueti trattamenti sterilizzanti con alte temperature e acidi: i tessuti infetti conservano parte dell’infettività anche dopo un trattamento a 360 °C. Quindi, la prima cosa da fare per evitare la diffusione della BSE è eliminare completamente le farine animali da qualsiasi ciclo alimentare. Sarebbe stato bene prendere questa misura sin dal 1986, ma evidentemente forti interessi economici hanno rallentato e rallentano la sua reale applicazione. Una legislazione complessa e la mancanza di strumenti semplici per l’identificazione delle farine animali hanno consentito il continuo perdurare di frodi per cui l’allevatore non può essere sicuro dell’origine dei mangimi e degli integratori alimentari che vengono commercializzati. L’unico modo per essere sicuri che le farine animali non vengano più utilizzate è interrompere la loro produzione riconvertendo o chiudendo gli impianti esistenti.
I resti organici non utilizzabili, come gli scarti delle macellerie, e gli animali ammalati possono essere inceneriti ad altissime temperature e le ceneri possono essere usate per produrre cemento o come fertilizzante.
Dopo tutto quello che è successo sembra incredibile che le farine animali vengono ancora usate nell’alimentazione di diversi animali di allevamento come pesci, polli, tacchini e maiali.
Anche se non è stato dimostrato in modo chiaro che il prione della BSE possa provocare una sindrome neurologica in tutte queste specie, sarebbe prudente evitare di correre rischi.
Troppe evidenze hanno dimostrato l’evanescenza della «barriera tra specie» che dovrebbe limitare la diffusione del prione.
Diversi esperimenti hanno inoltre indicato che il prione può essere presente anche in alcune specie e individui resistenti, che non manifestano i segni clinici della malattia, ma che trasmettono il loro potenziale infettivo alle specie e agli individui più sensibili.
Le farine animali vengono anche usate come concimi, ma in mancanza di conoscenze precise sulla biodegradabilità in campo aperto della PrPSc sarebbe bene evitare anche questa pratica.
Diversi studi suggeriscono che l’infezione prionica possa essere trasmessa per contagio intraspecifico dalla madre al feto o attraverso trapianti e trasfusione di sangue di donatori infetti in fase subclinica.
Essendo l’agente infettivo resistente ai comuni metodi di sterilizzazione, esso può inoltre essere trasmesso attraverso materiale sanitario infetto, sia negli ospedali che negli studi dentistici. È accertato infatti che nel caso della malattia di Creutzfeldt-Jakob, l’origine può essere iatrogena attraverso l’uso di strumenti chirurgici inadeguatamente sterilizzati, il trapianto di dura madre o di cornea, l’iniezione di ormone della crescita preparato da ipofisi di cadavere.
In campo odontoiatrico, il rischio potrebbe essere dovuto anche all’utilizzo di materiale di provenienza bovina (BGS, Bone Graft Substitute) per applicazioni dentali ed innesti.
Lo stato attuale delle conoscenze sul prione non è certo completo ed è necessario che la ricerca nel settore venga incoraggiata e potenziata. Quello che conosciamo è purtroppo estremamente preoccupante e suggerisce la massima prudenza. Chi minimizza il problema o confonde anche le poche «certezze» scientifiche disponibili si assume delle grosse responsabilità.

La semplice e mera sperienza è maestra vera
La storia ha dimostrato più volte che l’intreccio tra economia, politica e scienza può mettere in serio pericolo la libertà e l’indipendenza degli scienziati e causare alla comunità più danni che benefici. Anche la vicenda del prione ha messo in luce come la rigida difesa di interessi accademici ed economici possa talvolta ostacolare la ricerca scientifica e la corretta divulgazione delle conoscenze scientifiche al pubblico.
Si rimane sbalorditi dalle granitiche certezze e dagli inattaccabili scetticismi di autorevoli scienziati che non cambiano opinione neanche di fronte a un enorme numero di evidenze sperimentali.
Qualche anno fa ho assistito a un seminario di scienziati inglesi che era incredibilmente finalizzato a dimostrare che non esisteva nessun legame certo tra i prioni e la BSE e nessun pericolo di trasmissione della BSE all’uomo. Lo stesso Gajdusek ha dichiarato più volte di non credere al fatto che il prione sia l’agente infettivo delle encefalopatie spongiformi.
Teoricamente gli scienziati dovrebbero essere umilmente impegnati nella ricerca di quei brandelli di verità che riusciamo a intuire con le nostre piccole menti umane. Purtroppo, la presunzione di aver già chiarito tutto e di essere i depositari delle verità scientifiche ha spesso portato a ridicolizzare e ostacolare i pochi scienziati innovatori che, come Prusiner, cercano di aprire nuove strade alla ricerca.
«Non si dovrebbe giudicare temerario l’atteggiamento di chi non si ferma alle credenze diffuse e non dovrebbe esserci, nelle discussioni che hanno come tema la natura, un interlocutore che si indigna con un altro che non sottoscrive la posizione che piace a lui.» Così scriveva Galileo Galilei, e Leonardo da Vinci affermava: «il massimo inganno delli omini è nelle loro opinioni» mentre solo «la semplice e mera sperienza è maestra vera».
Gli episodi di difesa a oltranza dei dogmi della biologia molecolare e di denigrazione contro la teoria dei prioni e i suoi sostenitori sono stati e sono ancora numerosi e piuttosto pesanti. Le inesattezze dei ricercatori sono ben poca cosa rispetto a quello che sono stati capaci di sostenere le autorità sanitarie competenti e in particolare quelle inglesi e quelle europee.
In questi casi è evidente che i forti interessi economici e politici in gioco hanno ostacolato in ogni modo i tentativi di fare chiarezza sull’argomento. Per esempio, nel 1990, in una riunione della commissione europea sulla BSE, funzionari ed esperti suggerivano di chiedere alla Gran Bretagna di non pubblicare i risultati della sue ricerche, concludendo testualmente: «È necessario minimizzare la questione BSE praticando la disinformazione. Meglio dire che la stampa tende a esagerare».

Una lezione per il futuro
È vero che sulla malattia della mucca pazza si è sollevato un polverone eccessivo e che, sulla base dei dati attualmente disponibili, la probabilità di morire a causa della nvCJD è incredibilmente più bassa di quella di morire a causa di incidenti automobilistici, del fumo passivo di sigaretta o di altre sostanze tossiche che troviamo sempre più spesso nei cibi che mangiamo, nell’acqua che beviamo e nell’aria che respiriamo. Ma è anche certo che la gente è rimasta disorientata dalla mancanza di chiarezza, anche da parte degli scienziati, e dalla sensazione che non si stia facendo abbastanza per difendere gli interessi dei normali cittadini.
Perché nel 1986 non si è bloccato l’uso delle farine animali nell’alimentazione zootecnica? Perché non si sono bloccate in tempo le esportazioni inglesi per confinare l’epidemia in Gran Bretagna? Si è deciso di far correre dei rischi a molti per non rinunciare ai guadagni di pochi e soprattutto per non creare allarmismi che potevano deteriorare la popolarità dei politici al governo. Alla salute nostra e dei nostri bambini, al benessere degli animali, agli interessi degli allevatori, alla lenta ricerca delle verità scientifiche sono stati anteposti gli interessi contingenti dei produttori di farine animali. Senza voler criminalizzare nessuno è chiaro che se le istituzioni pubbliche continueranno a difendere interessi privati a scapito di quelli della collettività, la gente comune non potrà che essere disorientata e diffidente.
I consumatori di fronte al rischio, vero o presunto, per la propria salute hanno reagito con l’unica vera arma a loro disposizione: hanno ridotto i consumi di carne e in particolare di quella bovina innescando una serie di trasformazioni nel mercato che hanno costretto i politici a prendere provvedimenti. Tutto sommato, la riduzione dei consumi di carne è un vantaggio, sia perché il consumo medio di carne pro capite nei paesi industrializzati è sicuramente eccessivo e quindi controproducente dal punto di vista sanitario e nutrizionale, sia perché la produzione di alimenti di origine animale è molto più dispendiosa dal punto di vista energetico ed economico della produzione di alimenti vegetali. Gli unici colpiti dalle trasformazioni in atto sono gli allevatori, i macellai e gli operatori dei settori produttivi collegati a queste attività.
Forse è necessario ricostruire un sistema zootecnico in cui tenere in maggior conto gli aspetti qualitativi della produzione di alimenti e la salute dei consumatori e degli animali. La diffusione della BSE è, infatti, una conseguenza diretta dei principi alla base dell’allevamento intensivo che permette una sempre maggiore produzione di carne a un costo sempre minore. Gli animali vengono considerati delle cose o delle macchine, la cui unica funzione è quella di produrre reddito. L’allevamento intensivo comporta pratiche, come il confinamento degli animali in spazi molto ristretti e la forzatura del processo di crescita. Ceppi di animali super-selezionti e molto omogenei vengono cresciuti in condizioni estremamente artificiali. Alcuni scienziati sono, per esempio, riusciti ad aumentare la dimensione delle pecore inserendo nei loro embrioni il gene che codifica per l’ormone della crescita. Vaccini, antibiotici, ormoni, vitamine e altri integratori alimentari vengono ampiamente usati al fine di migliorare la crescita degli animali e di aumentarne la produttività.
Fino a che limite ci si può spingere nell’incrementare l’efficienza nella produzione zootecnica attraverso le pratiche dell’allevamento intensivo, della selezione genetica e delle tecniche di ingegneria genetica? Se la natura si è data tanto da fare per produrre tanti individui diversi, per esempio tramite il sesso, perché dobbiamo allevare popolazioni omogenee di animali super-selezionati se non addirittura clonati? Purtroppo non è possibile alterare oltre certi limiti le capacità produttive degli organismi viventi senza rischiare di alterare in modo irreversibile equilibri biologici complessi ancora poco conosciuti.
Oggi si parla di mucca pazza, ma quante sono le patologie, emergenti o recrudescenti, che oggi minacciano il settore zootecnico? Tante, dall’afta epizootica, alla Blue Tongue e all’influenza aviaria. Vaccini e farmaci sono usati sempre più spesso perché altrimenti gli animali crollerebbero sotto il peso delle frequenti patologie e disfunzioni metaboliche. Ma siamo sicuri che questi farmaci e i prodotti metabolici di animali stressati non abbiano effetti sul nostro fegato e sul nostro sistema immunitario?
Accogliamo il monito che viene dalla natura, non per farci paladini anacronistici del tempo passato, ma per garantirci un futuro con meno problemi. La salute dei consumatori e degli animali deve essere una priorità della politica comunitaria, anche se bisogna pagare un prezzo economico per la riconversione «biologica» del settore zootecnico.
Per sapere in che direzione muoversi è necessario potenziare le ricerche delle strutture pubbliche sugli effetti sanitari causati dai cambiamenti produttivi in atto. Gli uomini e gli animali stanno pagando un alto prezzo per la sottostimata ed errata comprensione del contagio da prioni: sarebbe auspicabile trarre un insegnamento da questa lezione.

© Pubblicato sul n° 11 di EMMECIquadro

* Biologo, Dottore di Ricerca in Scienze Genetiche, ha vinto tre premi alla VIII, IX e XI edizione del Concorso Europeo Philips per giovani inventori e ricercatori.
Nel 1988 ha vinto un premio del Concorso Primo Ventennale di Le Scienze.   Attualmente è primo ricercatore presso l’Istituto del Germoplasma Animale, del Consiglio Nazionale delle Ricerche, a Milano.