Le Esperienze e le opinioni di un fisico «sperimentale» che ha svolto le sue ricerche nei campi più avanzati della fisica delle particelle. Un dialogo aperto che mette a fuoco la genesi e la dinamica delle scoperte che si compiono nei laboratori di «grandi» dimensioni caratteristici della ricerca contemporanea. Una riflessione ricca di spunti per inserire in una prospettiva di ampio respiro l’insegnamento della fisica nella scuola attuale.
Lei ha lavorato in diversi esperimenti nei più grandi laboratori del mondo. Che cosa vuol dire impostare una ricerca sperimentale che punti a «scoprire» e quale impulso può dare alla professionalità dei ricercatori l’idea di partecipare alla crescita delle conoscenze umane?
Un fisico inizia un esperimento quando, in alcuni settori della sua ricerca, trova dei punti non chiari, degli aspetti contraddittori, oppure vuole verificare la consistenza dei modelli teorici ritenuti più idonei a spiegare i fenomeni fisici di cui si occupa. In generale si è fortemente motivati e incuriositi dall’idea di chiarire questi aspetti.
Lo scopo fondamentale è quello di trovare delle evidenze sperimentali che gettino luce sui punti oscuri o che, in presenza di gravi discordanze con le previsioni teoriche, suggeriscano anche nuove modelli.
In questo contesto, per qualunque ricercatore, l’idea di contribuire in qualche modo a una crescita generale e personale della conoscenza è un impulso molto forte, persino entusiasmante. Questa osservazione rivela forse una concezione un po’ idealistica della ricerca, ma certamente la presenza di una «sana» curiosità nei confronti dei fenomeni naturali è ancora il propulsore fondamentale della ricerca di base.
Poi, necessariamente, dobbiamo fare i conti con la realtà: su questo processo ideale curiosità – conoscenza si innestano diversi fattori, come il desiderio di successo, la carriera, la famiglia. Bisogna tuttavia dire che, almeno in Italia, il denaro non rappresenta una voce di particolare peso nella carriera di un ricercatore; i meccanismi di retribuzione non dipendono in modo evidente dalle «scoperte» fatte.
Mi preme però ritornare su quello che ritengo l’aspetto più caratterizzante di un ricercatore: la curiosità. Per esempio: si osserva un fenomeno, se ne conosce la spiegazione corrente, ma questa spiegazione non convince. Si è curiosi sia di capire il perché manchi questa convinzione, sia di comprendere come funzionino effettivamente le cose. Tutto questo rappresenta uno stimolo importantissimo per avviare una ricerca, a tutti i livelli.
Se guardiamo anche alla storia ci accorgiamo che la scienza in generale, e la fisica in particolare, è progredita proprio grazie a questo meccanismo (si pensi a due «grandi» come Newton e Galilei). Si tratta di una curiosità guidata dalla ragione, che cerca di classificare la natura in base a criteri logici e matematici, che tuttavia non devono avere la pretesa di ingabbiare tutti gli aspetti conoscitivi dell’uomo (in questo senso ho sempre ritenuto piuttosto sterile la contrapposizione fra metodo scientifico e religione).
Potrebbe descriverci i diversi contesti in cui ha lavorato, mettendo in evidenza, se possibile, le difficoltà incontrate e i diversi modi di lavorare o le diverse strutture dei laboratori.
Gli esperimenti ai quali ho partecipato si sono svolti, o si stanno svolgendo, presso il CERN di Ginevra, il Fermilab di Chicago, ai laboratori di Serpukov in Russia e al Gran Sasso in Italia. Vi è una differenza notevole nell’impostazione del lavoro in questi laboratori. Il CERN vanta un grado di professionalità altissimo; si concentrano in tale laboratorio una serie di gruppi organizzati, efficienti e altamente specializzati. Per esempio: per eseguire esperimenti di fisica delle particelle ad alte energie è necessario generare fasci di particelle con il giusto grado di intensità, collimazione ed energia che possano urtare correttamente un bersaglio, o scontrarsi fra di loro. Per far questo è necessaria una tecnologia raffinata. Al CERN vi sono gruppi specializzati solo in «fasci»: basta dire che tipo di fascio di particelle si desidera e loro confezionano il prodotto. è un problema di cui non ti devi più preoccupare. Anche il controllo costante dell’esperimento e l’acquisizione dei dati vengono realizzate da gruppi specializzati. Questo aspetto, ovviamente, ha enormi vantaggi. I problemi strettamente tecnici dell’esperimento sono lasciati a questi gruppi e ci si può occupare più liberamente della fisica vera e propria.
Tuttavia esistono delle controindicazioni: non si ha effettivamente il controllo dell’esperimento; se ne conosce solo una parte, magari la più interessante, ma non si impara a gestire i problemi globalmente, così come, e parlo in particolare per un giovane, non si approfondiscono tutti gli aspetti tecnico scientifici.
Il Fermilab è certamente un posto organizzato, ma con una filosofia diversa. L’esperimento è gestito in modo meno rigido, oserei dire meno teutonico. Bisogna sapersela cavare un po’ su tutti gli aspetti, e questo è tipicamente americano, e non esistono gruppi che si occupano del solo aspetto tecnologico. In questo senso i servizi di supporto sono più ridotti, ma per un giovane c’è la possibilità di farsi un’esperienza a tutto campo, che certamente non permette di specializzarsi in tutto, ma insegna a gestire anche problemi non strettamente legati alle conoscenze fisiche messe in gioco nell’esperimento. Un ambiente abbastanza simile si è rivelato (l’esperimento si è chiuso da diversi anni) quello di Serpukov, molto più artigianale, ma comunque interessante.
Naturalmente le limitazioni legate alla mancanza di strutture all’avanguardia e allo scarso sostegno economico di industrie e governo erano evidenti, ma l’esperienza di dover risolvere tutti i problemi che si presentavano senza supporti particolari è stata sicuramente stimolante. Al laboratorio del Gran Sasso le cose sono ancora diverse.
Innanzi tutto le strutture di supporto sono meno necessarie. Si tratta infatti di un esperimento cosiddetto «passivo», dove non servono acceleratori e dove non è necessario creare la materia prima per l’esperimento (per esempio i fasci di particelle). Si sfruttano sostanzialmente le particelle provenienti dal sole o in generale dallo spazio. È il laboratorio sotterraneo più grosso del mondo, ma è nato da poco e a livello organizzativo e di risorse umane deve crescere ancora molto. La tecnologia necessaria viene in generale portata dall’esterno dai gruppi che lavorano in tale laboratorio.
Qual è il ruolo della strumentazione negli esperimenti, e quali problemi o quali sviluppi tecnici influenzano maggiormente la riuscita di un esperimento?
Ormai quasi tutti gli esperimenti di fisica delle particelle elementari sono accompagnati da sviluppi tecnologici nuovi. Ma c’è una notevole differenza fra esperimenti con acceleratori ed esperimenti di fisica «passivi».
Nella fisica delle alte energie con acceleratori il grosso problema è quello di raccogliere in tempi brevissimi un’enorme quantità di dati; quindi è un problema di rivelazione estremamente raffinata. Sono necessari componenti elettronici molto precisi e fortemente miniaturizzati. Si pensi, per avere un’idea, che si utilizzano migliaia di amplificatori di segnale «depositati» su piccolissime basi di silicio.
Nella fisica passiva lo sviluppo è meno specializzato, ma ha il vantaggio di essere più ampio. I problemi sono, in questo caso, molto diversi. Se negli esperimenti ad acceleratori si possono avere 10 000 (e oltre) eventi interessanti al secondo, nella fisica underground si hanno magari 20 eventi al giorno.
È spesso difficile distinguere questi eventi da quelli dovuti a fenomeni casuali o a fenomeni già presenti in natura che possono «disturbare» la rivelazione degli eventi da studiare. È il cosiddetto problema del «fondo», come per esempio quello dovuto alla radioattività proveniente dallo spazio e alla radioattività naturale delle rocce dei massicci montuosi all’interno delle quali si eseguono gli esperimenti. È necessario «ripulire» gli esperimenti stessi da questi eventi non significativi e per fare questo sono necessari anni di ricerca e sviluppo in diversi settori, dalla ricerca di nuovi materiali per la rivelazione, alla loro purificazione per minimizzare la radioattività naturale in essi presente, all’elettronica. Non esistono tecniche codificate per eseguire un esperimento; in questo senso è una fisica affascinante, ancora un poco pionieristica.
Solo per avere un’idea, in un esperimento denominato Gallex (Gallium experiment), realizzato da una collaborazione fra italiani e tedeschi alcuni anni fa, si è dovuto affrontare il seguente problema: riconoscere e rivelare all’interno di una massa pari a tre tonnellate di Gallio, la presenza di 15 atomi di Germanio. Era un problema che non si era mai affrontato prima e che ha stimolato i fisici a ricercare soluzioni del tutto originali.
In conclusione, come è ovvio, la strumentazione è una parte fondamentale di ogni esperimento, sia per la sua riuscita sia per le ricadute tecnologiche che possono essere favorite dall’esperimento stesso.
Tuttavia è bene sottolineare che lo strumento è solo un ausilio al «senso fisico» del ricercatore; il primo deve essere guidato dal secondo e deve anzi acuirne le potenzialità.
In quali termini il rapporto con i fisici teorici influenza un esperimento?
Naturalmente posso riferirmi solo ai fisici teorici cosiddetti «fenomenologici», che sviluppano teorie per le quali è attualmente possibile progettare esperimenti. In linea generale il loro contributo è importante nella fase che precede l’esperimento, o quando si ottengono risultati in palese contraddizione con le teorie stesse. In questi casi l’interazione fra fisici sperimentali e teorici può portare a risultati importanti. Al contrario, nel corso dell’esperimento vero e proprio, il fisico teorico usualmente non interviene. In altre parole, il fisico teorico collabora con lo sperimentale nella fase preliminare dell’esperimento, quando si deve decidere quale fenomeno andare a osservare e in quali «finestre» energetiche, oppure in fase di acquisizione dati, soprattutto se si ottengono risultati inaspettati.
Perché un esperimento di fisica delle particelle dura tanti anni e come è possibile coordinare un numero così grande di ricercatori ?
Posso indicativamente fornire due ragioni. La prima è che i problemi aperti nella fisica delle alte energie sono molto complessi. Per andare a comprendere i meccanismi ultimi che regolano le leggi della materia sono quindi necessarie tecnologie innovative, che solo per essere progettate richiedono tempo e dispendio di risorse umane. Un esempio: nell’esperimento attualmente in corso al Gran Sasso siamo i primi a studiare le interazioni dei neutrini ad energie inferiori al Mev. Tali energie sono delle stesso ordine di grandezza delle energie implicate nei fenomeni di radioattività naturale.
Ci siamo quindi trovati di fronte a problemi molto complicati per ridurre le radiazioni di fondo e abbiamo dovuto esplorare tecnologie del tutto nuove, mai progettate in precedenza. La seconda ragione è legata fortemente alla domanda che mi avete posto, in particolare in riferimento al numero di collaboratori impegnati nelle ricerche. Gli esperimenti di fisica delle particelle elementari sono esperimenti di big science, di enormi dimensioni; per gestire milioni di canali di elettronica sono necessarie le esperienze di tanti gruppi di diversi istituti. Numeri così grandi comportano grandi difficoltà organizzative e di coordinamento e, ovviamente, spese enormi. La ricerca stessa dei fondi necessari comporta un notevole dispendio di tempo e spesso le risorse disponibili non permettono di rischiare strade alternative, che potrebbero risolvere alcuni problemi in modo forse più veloce ed efficace.
Frequentemente i coordinatori degli esperimenti non riescono a occuparsi pienamente dell’aspetto più interessante dell’esperimento, la «fisica», ma sono costretti a dedicare il loro tempo a problemi economici e organizzativi, e solo in questo modo riescono a «tenere insieme» gruppi così numerosi. Questo non è certamente un bene, a meno che uno non sia appassionato a questi risvolti più «manageriali».
Personalmente ho scelto, negli ultimi anni, la ricerca nella fisica delle particelle «passiva», proprio perché permetteva con più facilità di occuparsi di aspetti più legati alla comprensione della natura. Anche in questi casi, come dicevo sopra, i tempi sono lunghi (dell’ordine di dieci anni per esperimento), ma fondamentalmente più per problemi legati allo sviluppo di nuove tecnologie che per difficoltà organizzative.
Può descriverci con maggiore dettaglio l’esperimento al quale sta attualmente lavorando?
Si tratta, come ho già accennato, di un esperimento di fisica underground presso i Laboratori del Gran Sasso.
Tali esperimenti vengono eseguiti in laboratori sotterranei per evitare il primo fondamentale fenomeno di «disturbo» per questo tipo di fisica: le radiazioni cosmiche. Si tratta di particelle di alta energia provenienti dallo spazio che, giunti nella nostra atmosfera, interagiscono con essa creando una cascata di nuove particelle.
Queste ultime interferirebbero significativamente con i nostri rivelatori, impedendoci di studiare i fenomeni voluti; in tal senso gli strati rocciosi costituiscono tutto sommato una buona schermatura, sebbene non definitiva.
L’esperimento di cui mi occupo attualmente è denominato Borexino. L’idea è quella di studiare il flusso di neutrini provenienti dal sole.
Osservazioni precedenti hanno già messo in evidenza una percentuale di neutrini in arrivo del sole largamente più bassa rispetto a quella prevista dai modelli solari più accreditati. Non solo, vi sono anche problemi di consistenza «interna» nelle osservazioni.
Per non entrare in dettagli posso esemplificare al massimo: ci si aspetta l’osservazione di dieci neutrini (il numero è arbitrario) provenienti da certe reazioni nucleari che sono la conseguenza diretta di reazioni precedenti, le quali a loro volta producono dieci/dodici neutrini. Ma si osservano in realtà solo i primi dieci neutrini, o poco più. I problemi sopra esposti non sembrano risiedere nei modelli solari ma dovrebbero dipendere da alcune «nuove» caratteristiche dei neutrini.
La moderna teoria delle particelle elementari prevede che i neutrini si presentino in natura in tre diverse «forme»: i neutrini associati all’elettrone, al muone e alla particella t. Tutte e tre le tipologie di neutrini interagiscono debolmente con la materia (ossia, senza entrare in dettagli precisi, con una probabilità molto bassa di indurre reazioni nucleari), ma in modo diverso. Se si prevedesse la possibilità un’oscillazione, ossia di una trasformazione di un neutrino elettronico in un neutrino di altro tipo, si potrebbero spiegare i neutrini mancanti (che non sarebbero più mancanti ma semplicemente diversi e quindi non rivelati dagli esperimenti che si focalizzano solo su una tipologia di neutrino).
Una fondamentale conseguenza è che, se tali oscillazioni avvengono, i neutrini devono necessariamente avere massa non nulla, in contrasto con le attuali teorie delle interazioni deboli. Un’eventuale evidenza sperimentale delle oscillazioni dei neutrini porterebbe a una rivoluzione in questo campo della fisica, con conseguenze fondamentali anche in altri settori, come per esempio nella determinazione della massa totale dell’Universo in astrofisica. Nel nostro esperimento cerchiamo proprio di studiare i neutrini «mancanti». Il problema è che le energie in gioco sono dell’ordine di 800 Kev, molto vicine alle energie tipiche della radioattività naturale dei nuclei presenti nelle rocce e nei materiali stessi che costituiscono il nostro rivelatore.
Per eliminare questo «fondo», che disturba l’osservazione del fenomeno, abbiamo dovuto predisporre una struttura a diversi strati.
Ciascuno di tali strati deve assorbire una certa quantità di radioattività e a sua volta non ne deve riemettere (in termini tecnici deve essere «purificato»), fino ad arrivare al rivelatore più interno, costituito da un liquido molto puro in grado di rivelare gli eventi di nostro interesse. Le masse in gioco in questi rivelatori devono essere grandissime: se i neutrini interagiscono debolmente con la materia, sono necessarie grandi quantità di materia per ottenere anche solo pochi eventi significativi.
Ma non è tutto: l’esperimento vero e proprio è ancora in fase di allestimento. Prima di procedere alla sua definitiva progettazione abbiamo dovuto costruire un opportuno sistema, detto Counting Test Facility, in grado di misurare il giusto grado di purezza del rivelatore da utilizzare nell’esperimento.
La fase di preparazione è durata diversi anni, durante i quali abbiamo richiesto la costruzione di nuovi materiali alle industrie e abbiamo dovuto inventarci soluzioni tecniche originali per affrontare i problemi che la progettazione dell’esperimento stesso ha sollevato. La realizzazione del Counting Test Facility è durata dal 1991 al 1997, e ha avuto successo. Ora dovremmo ultimare la costruzione di Borexino per l’anno venturo e iniziare così le prime rilevazioni; si attendono risultati nel giro di tre o quattro anni.
© Pubblicato sul n° 9 di EMMECIquadro
* Ordinario del Corso di Laboratorio di Fisica Subnucleare all’Università degli Studi di Milano. Ha lavorato a numerosi esperimenti nei più grandi laboratori mondiali quali, per esempio, il CERN a Ginevra, il FermiLab a Chicago e ora coordina, presso i Laboratori del Gran Sasso, l’esperimento denominato Borexino, nel quale si dovranno studiare le caratteristiche dei neutrini solari e la loro eventuale massa.