Del fatto che la scoperta scientifica sia un’esperienza pienamente umana, con tutta l’ampiezza della ragione che si dispiega per incontrare a fondo la realtà, saranno certamente più convinte le migliaia di persone che hanno gremito l’auditorium della Fiera di Rimini per l’incontro di ieri pomeriggio con tre stelle di prima grandezza del firmamento scientifico contemporaneo: due fisici premi Nobel, Charles Townes e John Mather, e uno dei più celebri paleoantropologi come Yves Coppens.
Le loro testimonianze hanno reso concreta questa dimensione del lavoro scientifico e hanno contribuito a mostrare un volto della scienza che si preannuncia interessante non solo per gli appassionati.
Lo ha confermato a ilsussidiario.net lo stesso John Mather, incontrato poco prima dell’incontro.
La sua scoperta più nota è la misura dello spettro del fondo cosmico di microonde col satellite COBE. Come è nato il suo interesse per la cosmologia?
Non sono sempre stato un cosmologo. Dapprima volevo fare il fisico delle particelle: mi sembrava esaltante poter capire come le particelle agiscono insieme e quali forze fondamentali della natura ne governano il comportamento. Quando però ho cercato un argomento per la tesi di laurea, interpellando vari professori per capire quali argomenti potessero essere più stimolanti, ho saputo della possibilità di misurare la radiazione cosmica di fondo che era appena stata scoperta. Mi è apparsa subito come una buona idea e mi ci sono buttato. Il mio progetto richiedeva l’impiego di uno strumento appeso a un pallone in alta quota: il sistema è stato lanciato, ma per una serie di motivi non ha funzionato. Così ho dovuto scrivere la tesi su un sistema non funzionante. Allora ho pensato che avrei fatto qualcos’altro; mi sarei dedicato alla radioastronomia.
Pochi mesi dopo, la Nasa ha lanciato un bando per nuovi satelliti scientifici. Erano passati appena cinque anni dallo sbarco dell’Apollo sulla Luna e la Nasa era alla ricerca di nuovi programmi scientifici.
Ho quindi pensato che il mio precedente progetto avrebbe potuto funzionare meglio nello spazio, evitando i disturbi dovuti all’atmosfera terrestre. Con un gruppo di amici abbiamo scritto un progetto per un piccolo satellite che misurasse la radiazione eco del Big Bang e cercasse la luce delle prime galassie. E’ accaduto che la Nasa ha accettato la proposta e così sono diventato cosmologo.
La storia delle vostre ricerche sul fondo cosmico a microonde sembra esemplificare efficacemente il titolo
di questo Meeting: “La conoscenza è sempre un avvenimento”: ce la può raccontare in breve?
È senz’altro vero che la conoscenza è sempre un avvenimento; ed è un’esperienza diversa per ciascuno di coloro che sono coinvolti nell’evento conoscitivo. Quando abbiamo lanciato il satellite COBE (Cosmic Background Explorer satellite), pensavamo di sapere cosa avremmo trovato e avevamo progettato un’apparecchiatura in grado di fare misure molto precise, con una sensibilità che permetteva di rivelare piccole deviazioni di una parte su mille ma risultò che lo strumento poteva misurare 50 parti per milione. E questo fu il risultato finale: tanto che, quando abbiamo presentato alla società astronomica la prima versione della mappa tracciata da COBE, abbiamo ricevuto una standing ovation. Io mi sono sorpreso, perché pensavo che tutti sapessero che quello presentato era il risultato più logico, ma la maggior parte degli astronomi non lo sapeva.
Tocchiamo qui il tema dell’obbiettività della scienza e, ampliando un po’ il discorso, della sua capacità di rispondere alle “grandi domande” (siamo soli nell’universo? che senso ha il nostro essere qui? ecc): ritiene che la scienza possa dare queste risposte o piuttosto che debba tenersi a una “distanza di sicurezza” da esse?
Penso che la gente aspetti da noi che rispondiamo per quello che possiamo. A volte si ha un po’ di timore per le possibili risposte, ma molti pensano che si debba cercare di rispondere. Ad esempio, se chiedete perché è giusto sostenere la Nasa con fondi pubblici, penso che uno dei motivi più convincenti, per la maggior parte della gente, stia nella questione della presenza della vita da qualche altra parte nell’universo. Certo, sapere che c’è vita altrove cambierebbe notevolmente la nostra comprensione di noi stessi, anche se non potremo mai comunicare con altri esseri su altri pianeti perché troppo lontani e per noi inaccessibili. Ma la sola idea che non siamo l’unico posto dell’universo che ospita la vita sarebbe molto stimolante per la riflessione filosofica e per la nostra conoscenza della natura.
E naturalmente anche i teologi avrebbero di che riflettere. Come è noto, il Vaticano stesso ha un osservatorio astronomico molto attivo e dotato di grandi telescopi e spesso organizza convegni su temi cosmologici. Val la pena ricordare che Georges Lemaître, il matematico che ha lanciato l’idea del Big Bang, era un gesuita e che una volta, fu interrogato dal Papa sul fatto che la teoria del Big Bang si accordasse o meno col racconto biblico. Lemaitre evase gentilmente la domanda dicendo: “oggi parliamo solo di scienza”. Una risposta che fa pensare: la questione del rapporto tra scienza e fede si è posta per molto tempo e Galileo non è stato né il primo né l’ultimo a dover fare i conti con questo problema.