Il divin Galileo Vaticano

Benedetta CappelliniRassegna Stampa

Palazzo Apostolico, Diario Vaticano, 15 ottobre 2009, di Paolo Rodari
E finalmente “il grande Galileo”, come lo definì Benedetto XVI in un Angelus memorabile, quello dei 6 aprile 2006, tornò in Vaticano. Non più da inquisito per le sue teorie eliocentriche (“Eppur si muove”). Non attraverso la messa in posa di una statua di marmo nei pressi della Casina di Pio IV, sulla collina che sovrasta la cupola di San Pietro e, dunque, non lontano dall’appartamento nel quale tra il 1632 e il 1633 lo scienziato fu ospitato prima di venire condannato: il progetto, dato per certo un anno fa, è naufragato pare per problemi economici. Bensì, vi torna, oggi, nei panni che più gli si addicono: quelli del grande scienziato, astronomo, matematico e pure letterato.
E’ una mostra, quella che i Musei vaticani, la Specola vaticana e l’Istituto nazionale di astrofisica dedicano alla storia dell’astronomia, che ha come protagonista indiscusso proprio lui: Galileo Galilei. Una mostra che, dunque, sancisce il ritorno dello scienziato entro le mura Leonine. Lui che, involontariamente, fu al centro di una delle pagine più nere, o semplicemente difficili, del pontificato di Papa Benedetto XVI quanto a rapporti col mondo scientifico e accademico. Si era nel gennaio del 2008 e al Papa venne negato l’accesso alla Sapienza. Un gruppo di docenti e studenti si oppose al pronunciamento d’una sua lectio magistralis a motivo d’una frase che lo stesso Ratzinger pronunciò, quando ancora era cardinale, proprio su Galileo: “II processo della chiesa contro Galileo fu ragionevole e giusto”, disse il futuro Benedetto XVI a Parma il 15 marzo 1990 riprendendo un’affermazione di Paul Feyerabend. E fu così che il Papa non andò mai alla Sapienza.
Una pagina difficile del pontificato ratzingeriano, dunque, seppure la visione dell’attuale Papa a proposito di Galileo, che davvero trova consonanze col pensiero dell’anarchico e rivoluzionario epistemologo Feyerabend, non pare oscurantista: la storia della scienza procede per paradigmi, ovvero per convenzioni radicate in date circostanze, e che storicamente possono essere messe in discussione e ristabilite, seguendo esigenze differenti. Questi orizzonti sono accettati di volta in volta come veri, dato che non c’è l’intenzione di metterli in discussione; lo scienziato che dimostra l’errore di un tale orizzonte, ristabilisce il paradigma, ma per fare ciò deve provare le sue ricerche in maniera lucida e convincente. Ebbene, la riflessione di Galileo relativa al movimento degli astri fu sì corretta, ma lo fu solo come intuizione: i mezzi a sua disposizione, infatti, non furono sufficienti a dimostrare scientificamente la sua scoperta, Ecco perché per il Feyerabend citato da Ratzinger aveva ragione la chiesa e aveva torto Galileo: la verità era rappresentata dalle convinzioni astronomiche del clero, e quella di Galileo era una presunzione (allora) senza fondamento. Gli strumenti telescopici dell’epoca, infatti, erano del tutto inadeguati a trasformare il paradigma in questione.
“Astrum 2009”, appunto la mostra in scena da oggi al 16 gennaio nei Musei vaticani, dice molto della volontà del Pontefice di guardare a Galileo per quanto ha dato alla scienza e al mondo, lasciando in secondo piano (fatto proprio il pensiero di Feyerabend) il processo e la condanna. E la cosa è stata compresa bene anche da colui che all’interno della Santa Sede ha lavorato parecchio per la mostra: ovvero l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, il presidente del pontificio consiglio della Cultura che qualche mese fa arrivò significativamente a celebrare una messa proprio per Galileo, la prima dopo 400 anni di dimenticanza. Era il 15 febbraio scorso e Ravasi, davanti a scienziati e astronomi di tutto il mondo, ricordò la figura dello scienziato che “ha saputo distinguere le due ragioni: quelle della scienza da un lato, e quelle verità che sono necessarie alla nostra salvezza e che ci vengono comunicate attraverso la voce dello Spirito Santo, dall’altro”. “Il divin uomo”, lo definì sempre in quell’occasione il segretario di stato vaticano Tarcisio Bertone. E anche se la cosa – le parole di Ravasi e di Bertone – non significa la volontà vaticana dì fare di Galileo un santo, dice comunque molto di come la chiesa ripensi alle vicende passate, di come, in particolare, consideri oggi Galileo, lo scienziato ripudiato da quella chiesa della quale lui era fervente seguace: a mo’ di esempio basti ricordare come fu lui, Galileo, a incoraggiare e insieme apprezzare la scelta delle sue due figlie di lasciare tutto (ovvero il mondo) per entrare in un convento di clausura.
Dalle pieghe della mostra si può estrapolare una tesi singolare: se si è arrivati sulla luna, lo si deve anche a Galileo. Anzitutto per le scoperte in campo astronomico uniche per il suo tempo. E poi, per fatti concreti: Galileo, infatti, primo tra gli scienziati, pensò di usare il cannocchiale, inventato dagli olandesi per scopi bellici, come strumento per scrutare il cielo. Si chiamava “occhialetto olandese” e Galileo se lo fece recapitare direttamente a casa sua, a Padova. Qui lo smontò per osservarne ogni segreto. E leggendo alcune pagine del Galileo letterato – ìl suo “Siderus Nuncíus”, anch’esso esposto in mostra – si capisce bene come fece a potenziare l'”occhialetto’ fino a farlo diventare un vero e proprio telescopio. In sostanza, utilizzando un tubo di piombo e due lenti di occhiali, una convessa (da presbite) e l’altra concava (da miope), costruì uno strumento capace di otto, nove, dieci ingrandimenti. Poi prosegui con gli esperimenti fino ad arrivare a un aggeggio capace di trenta ingrandimenti. Una cosa impensabile e impossibile per quel tempo. Fu con questo strumento che intuì cose che mai nessuno prima aveva intuito. Fu con questo strumento che la concezione del cosmo in voga fino a quel momento – quella aristotelica per la quale il cosmo, possedeva una struttura geocentrica rigorosa ed era diviso in due regioni distinte dotate ciascuna d’una propria fisica – cominciò a scricchiolare. Galilea, dunque, e il suo telescopio. Un binomio che impose un nuovo mo- dello di fare scienza. Un metodo non subito accettato. La scienza moderna, infatti, doveva subire un parto doloroso e di questo parto Galileo fu indiscusso protagonista. Ma le scoperte erano mequivocabili e destinate, nonostante le resistenze, a imporsi.
Galileo scopri nuove cose della superficie lunare e della composizione della Via Lattea e riuscì a individuare, per primo, intorno al pianeta Giove. “quattro pianeti mai visti fino ad ora dall’inizio del mondo”. Lo scrive in una pagina storica del “Sidereus Nuncius”, laddove si evince come il Galileo scienziato si sentiva di operare non contro ma in favore d’un disegno divino: “Ma quello che supera ogni meraviglia e che soprattutto ci ha spinti a rendere edotti tutti gli astronomi e i filosofi, è il fatto importantissimo di aver scoperto anche quattro stelle erranti, non conosciute né osservate da nessuno di quelli che sono venuti prima di noi, stelle che fanno i loro giri periodici intorno al Sole; e quell’astro ora lo precedono ora lo seguono, senza mai scostarsi da esso più del tutto. Tutte queste cose sono state scoperte e osservate in questi ultimi giorni per mezzo dell’occhiale escogitato da me, che sono stato illuminato dalla grazia divina”.
La grazia divina percorre tutta la mostra. Non a caso gli strumenti esposti 130 oggetti tra telescopi, semplici cannocchiali, misuratori astronomici, lenti obiettive, compassi geometrici, pendoli astronomici, spettroeliografi, magnetometri, astrolabi e libri d’epoca – possono avere un loro significato trascendente: “Sono strumenti inventati dall’uomo per scrutare i segreti del firmamento ha scritto il cardinale Giovanni Lajolo, presidente della pontificia conunissione per lo stato della Città del Vaticano e del governatorato -, cioè di quelle realtà poste sopra di noi e così in alto da parere irraggiungibili, realtà che mentre ci riempiono insieme di ammirazione, moltiplicano in noi gli interrogativi circa la loro natura, i loro movimenti e le leggi (gli ordinamenti di ragione) che li reggono, e circa l’universo, di cui non siamo che una fugace scintilla. Ma il significato di tali strumenti è trascendente anche perché hanno inciso sul corso della storia dell’uomo sulla terra, dando a essa nuovi impulsi e indirizzi, dei quali tuttora viviamo, forse senza esserne molto consapevoli”.
Dunque, la storia è cambiata grazie a Galileo: ed è anche questa tenacia, questa passione per la scienza, che il Vaticano va a celebrare con questa importante mostra. Una tenacia che sapeva distinguere scienza e fede, ragione e fede, senza rinunciare a entrambe. Lo disse Benedetto XVI, in uno dei suoi innumerevoli passaggi dedicati, nel suo pontificato, a Galileo: “Nel cristianesimo – disse – c’è una peculiare concezione cosmologica, che ha trovato nella filosofia e nella teologia medievali delle altissime espressioni. Essa, anche nella nostra epoca, dà segni interessanti di una nuova fioritura, grazie alla passione e alla fede di non pochi scienziati, i quali – sulle orme di Galileo – non rinunciano né alla ragione né alla fede, anzi, le valorizzano entrambe fino in fondo, nella loro reciproca fecondità”.
Un concetto ripreso ancora da Ravasi giusto due giorni fa: “Una grande conquista degli ultimi decenni è stata l’affermazione che scienza e teologia sono due magisteri non sovrapponibili ma paralleli, coni loro statuti ed epistemologia. Si devono ascoltare ma sono indipendenti, non conflittuali”.
Il tempo del conflitto tra scienza e fede sembra oggi al capolinea. Come al suo termine sembra giunto il tribunale su Galileo. “E’ giusto ritornare a considerare il tribunale della storia come una componente del dialogo tra scienza e fede e bisogna avere il coraggio di farlo, riconoscendo gli errori da una parte e dall’altra. Ma non si può tenere sempre aperto questo tribunale”. E la mostra aiuta a far sì che il tribunale si chiuda, anche per dare, per la prima volta in modo ufficiale a Galileo ciò che è suo.