L’Osservatorio astronomico di Parigi è un edificio imponente, con biblioteca mozzafiato e strumenti che scrutano il cielo con confidenza. La gloria di Luigi XIV si mostra in ogni angolo e mura larghe due metri proteggono infinite storie, anche l’ultima qui nata: la nuova e più interessante edizione del processo a Galileo Galilei. Vi attende lo storico italo-svizzero Francesco Beretta, del Centre national de la recherche scientifique (Cnrs) di Lione; la traduzione, la fattura e il commento dettagliato dei due volumi saranno realizzati da Michel-Pierre Lerner e Alain Segonds, direttori di ricerche al Cnrs e conoscitori formidabili di storia dell’astronomia, per le Belles Lettres di Parigi.
Uscirà anche, per la parte dei documenti originali, nell’aggiornamento all’edizione nazionale di Galileo curata da Paolo Galluzzi, direttore dell’Istituto e Museo di storia della scienza di Firenze. Beretta confida: «Capire il processo di Galileo significa innanzitutto comprendere il funzionamento del tribunale dell’inquisizione in quel periodo del ‘600. Osservarne i meccanismi attraverso il paragone con altri casi meno importanti, verificare i punti anomali, i margini utilizzati dai giudici per procedere». E ancora: «Lo “stile del tribunale” consisteva in una serie di dispositivi che non erano codificati come oggi. Il giudice poteva orientare il processo in un senso o nell’altro. Conoscerlo è indispensabile per interpretare correttamente i documenti». È il caso di pubblicarli ancora? Non disponiamo di tutto il materiale? A tali domande si può rispondere con un po’ di storia (la scriviamo con l’aiuto dei tre studiosi incontrati a Parigi). Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio segreto vaticano, ha pubblicato nel giugno 2009 una nuova edizione del processo, che riprende la sua del 1984 con altri documenti ritrovati. Nel 1998, grazie all’iniziativa di Giovanni Paolo II per la «purificazione della memoria», fu aperto ufficialmente l’archivio della Congregazione per la dottrina della fede che conserva le carte del tribunale romano del Sant’Uffizio (da non confondersi con l’Archivio segreto vaticano, quello del Papa, disponibile dal 1881).
Il fascicolo degli atti galileiani, noti come «il volume del processo», faceva un tempo parte della collezione delle materie criminali dell’Archivio del Sant’Uffizio, che comprendeva alla fine dell’Antico Regime circa 4 mila tomi. Quando Napoleone decise nel 1809 di creare a Parigi l’Archivio centrale dell’Impero, dove sarebbero confluiti quelli dei Paesi sottomessi, iniziarono le operazioni di trasporto: al Sant’Uffizio toccò nella primavera del 1810. Il volume di Galileo fu spedito a parte, giacché Napoleone chiese personalmente alcuni documenti cruciali, quali il processo ai Templari, la bolla che lo scomunicava e, appunto, le carte sullo scienziato.
Secondo l’inventario di Parigi del 1813, oltre i 4 mila volumi di materie criminali, gli archivisti ne ricevettero altri 2 mila di incartamenti dottrinali o di giurisdizione dell’Inquisizione. Ve n’era poi un altro migliaio con decreti e lettere. Totale, circa 7 mila volumi. Caduto Napoleone, si cercò di riportare il tutto a Roma.
Secondo l’inventario di Parigi del 1813, oltre i 4 mila volumi di materie criminali, gli archivisti ne ricevettero altri 2 mila di incartamenti dottrinali o di giurisdizione dell’Inquisizione. Ve n’era poi un altro migliaio con decreti e lettere. Totale, circa 7 mila volumi. Caduto Napoleone, si cercò di riportare il tutto a Roma.
Spuntano i nomi di Marino Marini e di Giulio Ginnasi, i quali, sentiti i superiori e visti i costi, decisero di buttar via i 4 mila volumi dei processi criminali. Tra essi c’erano Bruno, Campanella e tutti i filosofi italiani che riprenderanno statura nell’Ottocento (di Bruno, infatti, conosciamo solo il sommario del processo — una cinquantina di carte delle originali, probabilmente la copia appartenuta a un consultore — giacché l’insieme andò perduto e restano i soli documenti veneziani).
Galileo, arrivando a parte, finì tra le carte di uno dei ministri napoleonici, il conte Louis C. Blacas che, esiliato a Vienna, si porterà con sé il faldone. La vedova lo restituirà nel 1843 a Gregorio XVI; Pio IX lo consegnerà all’Archivio segreto vaticano nel 1850, anno nel quale Marino Marini, nel frattempo giunto a quell’Archivio, pubblicò i primi documenti del processo. Ma la sua fu opera parziale e apologetica. A questo punto cominciano le edizioni, anche se a rigor di termini le carte non sarebbero state visibili senza permesso fino al 1881. Nel 1867-69 escono quelle contrapposte di liberali e cattolici, poi arriva nel 1877 la «diplomatica» di Gebler; infine c’è Antonio Favaro, docente a Padova, che nell’ambito della «nazionale» galileiana (XIX volume) pubblica le carte nel 1907 (la prima è del 1902, in fascicolo a parte). Offre il testo del processo e i decreti del Sant’Uffizio che gli furono trascritti dall’archivista. Nel 1984 ecco l’edizione Pagano: oltre le carte processuali (riprende Favaro) ripubblica il famoso G3, il documento reso noto da Redondi nel 1983 in Galileo eretico Einaudi) su cui si costruì la tesi non accolta dalla storiografia della condanna per atomismo. Pagano formulò l’ipotesi che il volume del processo non fosse l’incartamento originale, ma un sunto, un estratto realizzato per l’Indice, al fine di giustificare l’inserimento del Dialogo tra i libri proibiti. Tutte le precedenti ricostruzioni del processo sarebbero così state relativizzate, data l’incompletezza della documentazione.
E qui arriva Beretta. Egli ha mostrato, in una serie di studi, che questi documenti sono proprio quelli utilizzati da Urbano VIII il 16 giugno del 1633 per condannare Galileo.
Magari ce ne saranno stati altri, ma il Papa si pronunciò sulla base della documentazione a noi nota. Tre cardinali inquisitori erano assenti alla seduta di abiura, il 22 giugno, ma il fatto non ha l’importanza che alcuni studiosi gli attribuiscono, perché il verdetto l’aveva già pronunciato il Papa in persona, il 16 giugno, e il 22 non restava ai porporati che firmare la sentenza già stesa. Nel 1998, con l’apertura dell’Archivio del Sant’Uffizio sono stati scoperti una trentina di nuovi documenti (per Beretta «non cambiano sostanzialmente il quadro del processo»). Pagano nella sua recente edizione li riprende insieme a quelli del 1984, offrendo una nuova collazione degli originali in cui, fra l’altro, convalida la tesi di Beretta sulla natura dell’incartamento processuale. Dov’è la novità? Lo studioso italo-svizzero cercherà di dare l’insieme completo della documentazione, e questo significa ripubblicare anche il dossier fiorentino che contiene un’altra parte del processo (Pagano offre solo la romana). A Firenze, per esempio, c’è la copia autentica della sentenza, perché l’originale era nel volume — delle sentenze, appunto — del 1633 disperso a Parigi. Beretta, Lerner e Segonds sottolineano che tali documenti sono noti, ma pubblicandoli insieme cambiano l’immagine complessiva, giacché non verranno dati per gruppi distinti, ma nell’ordine cronologico e in tal modo si potrà seguire passo dopo passo lo sviluppo del processo. Risalteranno così anche le anomalie rispetto allo stile. Per esempio, si sa che il processo a Galileo scatta per la pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi, ma questo libro — ricordano — «vide la luce con due imprimatur, ovvero con doppia approvazione ecclesiastica».
Ora, seguendo lo svolgimento del processo appare chiaramente che manca nell’incartamento il manoscritto del Dialogo recante il doppio imprimatur, che nel 1630 fu consegnato da Galileo a Urbano VIII: sembra proprio che il pontefice in persona su quell’originale, di suo pugno, abbia corretto il titolo. Nel 1632 il volume era a Firenze, lo stampatore non poteva azionare il torchio senza placet, pena la prigione. Durante il processo, Galileo invocò per difendersi la concessione dell’imprimatur da parte del Maestro del Sacro Palazzo, Niccolò Riccardi, facendo anche allusione all’intervento del Papa. Per proteggersi, Riccardi si era fatto mandare dall’inquisitore di Firenze il manoscritto incriminato nell’estate del 1632. In altri processi coevi, il testo originale è conservato nell’incartamento giudiziario per decidere se fosse colpevole delle cattive dottrine del libro l’autore o chi concesse l’approvazione. Ma il manoscritto del Dialogo sparì: si voleva celare che il permesso di stampa lo aveva dato il Maestro del Sacro Palazzo, consenziente il Papa. Galileo, che non fu torturato, il 22 giugno 1633 giurò in ginocchio — mano sui Vangeli — che il movimento della Terra è contrario alla fede cristiana. Fece l’abiura davanti ai cardinali inquisitori.
Riccardi era presente fra i consultori, e il testo della sentenza è costruito per far cadere tutta la colpa sullo scienziato e liberare l’alto prelato dall’incubo di aver concesso quell’imprimatur.