In viaggio verso l’origine dell’Universo

Benedetta CappelliniRassegna Stampa

Ariane è partito, il suo preziosissimo ospite pure. E ora che il satellite Planck è nello spazio, ben avviato verso quel “Punto Lagrangiano L2 del sistema Terra-Sole” (tradotto: un milione e mezzo di chilometri da noi) da cui ci bombarderà di informazioni sull’origine dell’universo, Marco Bersanelli, docente di Astrofisica all’Università di Milano e tra i capifila di un progetto mai visto al mondo, può abbozzare un primo bilancio. Provvisorio, per carità. Ma già ricco, visto che si tratta di fare i conti con scopo e radici di un’impresa che ha assorbito diciassette anni del suo lavoro. Bersanelli è appena
tornato dalla base di lancio dell’Agenzia Spaziale Europea a Kourou, Guyana Francese, da dove il 14 maggio ha seguito il lancio. Il suo ricordo di quel momento? «Indimenticabile. L’ho seguito da Agami, una postazione a sette chilometri dalla rampa di lancio, una distanza di sicurezza. La sagoma dell’Ariane 5, con i suoi 59 metri di altezza, era ben visibile. Il cielo s’era appena schiarito, dopo un nubifragio che solo mezz’ora prima ci aveva fatto temere un rinvio. L’attesa era forte. Si provava a dire qualcosa, a sorridere, ma le facce erano tirate». Alla fine è calato un silenzio irreale. Tre, due, uno… «Abbiamo visto salire l’Ariane senza aprire bocca, con il fiato sospeso: settecentottanta tonnellate che sembravano diventate più leggere dell’aria. Dopo qualche secondo, è arrivata l’onda d’urto: un boato impressionante. E la luce: quella arancione dei boosterslaterali era fortissima, molto più accesa di come me l’ero immaginata…».

Ma tu cosa pensavi? Ci hai lavorato tanto, la tensione dev’essere stata pesante…
È difficile descrivere l’impressione nel vedere quel veicolo andare dritto verso l’alto e continuare ad allontanarsi fino a perdersi alla vista, pensando che lì dentro c’è il frutto dell’impegno di tanti anni del lavoro tuo e di molti amici e colleghi, con i quali hai condiviso pezzi abbondanti di vita. Se ne va verso la sua destinazione, a un milione e mezzo di chilometri dalla terra! È un groppo che ti prende le
budella, che ti fa mancare il fiato. Accanto a me avevo un collega con cui sono molto amico. Gli ho sussurrato: «È andata!», ma non mi ha risposto. Poi mi sono accorto che piangeva. I pensieri si affollavano nella mente, ma ammetto che erano un po’ sfocati…

Qual è, esattamente, lo scopo della missione?
Osservare, con una precisione senza precedenti, la prima luce dell’universo. È la luce rilasciata nello spazio 14 miliardi di anni fa, quando l’età dell’universo era lo 0,003% di quella attuale; in pratica un universo neonato, prima della formazione delle galassie, delle stelle, delle strutture che vediamo oggi. Planck è quanto di più avanzato esista nel settore; un gioiello tecnologico. E c’è grande attesa per i risultati che speriamo di ottenere nei prossimi due anni. Abbiamo una chance di svelare qualcosa a riguardo del primissimo “respiro” cosmico, la cosiddetta inflazione: una infinitesima frazione di secondo iniziale nella quale tutto lo spazio si sarebbe dilatato in modo esponenziale.

Diciassette anni di preparativi, il lavoro di decine di persone in tutto il mondo, milioni di euro investiti… Ma numeri a parte, da dove nasce per te l’interesse per un’impresa del genere?

Gli uomini fanno queste cose perché hanno un innato bisogno di capire; vogliono tentare di conoscere le proprie origini e il proprio destino, con tutti i mezzi che hanno a disposizione. Siamo fatti così, noi uomini. Anche la ricerca scientifica, a modo suo, è un’espressione di questa domanda di conoscenza del reale e di affezione a se stessi. Certo, la scienza non dà risposte ultime; ma in qualche modo può contribuire anch’essa alla ricerca di ciò che siamo e del posto che abbiamo nel mondo. E può suggerire ai semplici di cuore quanto è grande il Mistero che fa tutto questo perché, come dice il Libro della Sapienza, dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore. È una forma di affezione a sé, al proprio destino. Questa, almeno, è la cosa come la vivo io. Del resto, chi di noi rimane indifferente davanti alla possibilità di svelare le nostre radici cosmiche, di comprendere qualcosa del dispiegarsi nel tempo dell’universo?

Qualcuno ha detto che la realizzazione di un satellite scientifico è forse l’impresa moderna che più assomiglia alla costruzione delle antiche cattedrali. Cosa ne dici?
Ci sono, in effetti, delle analogie. Ad esempio la durata del progetto: un satellite complesso può richiedere 20-25 anni di sviluppo, una vita. Poi l’unicità: ogni satellite scientifico è unico, come lo è un’opera d’arte. È roba che non si fa in serie: troppo sofisticato, troppo costoso, e ne basta uno per lo scopo che si prefigge. E poi il numero di persone che ci lavorano, appunto: non c’è un singolo “autore”, ma persone unite che lavorano insieme, guidate da alcuni che hanno le idee più chiare, almeno così si spera… Ma poi le analogie con le cattedrali mi pare che finiscano qui.

Non hai mai nascosto la tua esperienza di fede, anche pubblicamente. Come vivi questa esperienza in rapporto al tuo lavoro? Come incide la fede nei confronti del metodo scientifico?
La fede non si sostituisce al metodo scientifico: sarebbe un caos. E neanche interviene a modificarne la dinamica. Però modifica la coscienza con cui chi ricerca si rapporta all’oggetto del suo studio; in questo caso, all’universo. Ad esempio, col passare degli anni mi commuove sempre di più l’idea che nella nostra tradizione giudaico-cristiana il creatore dell’universo è “padre”. Non è solo un architetto o un ingegnere, neanche un artista, ma un padre; uno che non solo fa le cose e le mette insieme perbenino, ma un padre che ama le sue creature e gioisce di esse, dà se stesso per loro, quasi lega se stesso alla loro libertà. Mi impressiona il ritornello del Genesi: «E vide che era cosa buona». Tutta la realtà, fino agli angoli più remoti dell’universo, è voluta. E il nostro io è costruito a immagine del Creatore, c’è una parentela misteriosa di noi con il Mistero stesso. Non si capirebbe altrimenti la ragionevolezza della scienza, la quale è fondata sulla speranza di capirci qualcosa della creazione anche laddove essa ancora non è stata da noi in alcun modo sondata. Perché mai dovrebbe esserci qualcosa di comprensibile per noi? Che cosa abbiamo a che spartire con quelle spiagge lontanissime
dello spazio e del tempo, se non il fatto che forse veniamo dallo stesso gesto buono del Mistero?

Eppure spesso si attribuisce alla fede un valore puramente soggettivo, agli antipodi della conoscenza “oggettiva” che sarebbe garantita solo dal metodo scientifico. Come se l’“io” di cui parlavi non servisse a conoscere e, anzi, fosse d’ostacolo…
La cultura contemporanea sembra assegnare alla fede lo spazio del sentimento e alla scienza quello della razionalità. Ma questa «separazione completa tra sapere e credere», come diceva Heisenberg, ci mette a disagio perché è falsa, certamente non corrisponde alla mia esperienza. Il “credere” non è un atto di pura volontà, ma è l’adesione ragionevole a un testimone credibile. La fede, per come io l’ho incontrata, è un metodo potentissimo e velocissimo di conoscenza, necessario anche per il cammino scientifico: come si potrebbe fare un progetto come Planck senza credere alla parola di altri, centinaia, migliaia di volte al giorno? Ed è proprio quel metodo che ci può guidare nella conoscenza del senso ultimo, del Mistero. Per questo ha una portata e una dignità conoscitiva ancora più grande del metodo scientifico.

L’altra cosa che colpisce di questa impresa è, appunto, il “gioco di squadra”, il fatto che sia condivisa passo per passo con altri. In qualche modo, è un’impresa comunitaria. Che rapporto hai stabilito con i tuoi collaboratori in questi anni?
Un rapporto che non esito a definire di amicizia intensa e di gratitudine, specialmente con chi da più tempo condivide l’avventura. Ma in realtà con tutti, sparsi per mezzo mondo; forse perché anche una collaborazione breve o saltuaria, se è per uno scopo grande, genera un rapporto significativo. Non che manchino le difficoltà, ma anche queste possono essere occasione di crescita umana e scientifica. È un po’ come quando si va in montagna: si condivide la bellezza, la fatica, la meta, e il rischio dell’avventura, così il legame che si genera è forte. E tende a riguardare la persona tutta intera, non solo il suo ruolo nel progetto. Per questo dico, a volte, agli amici del mio gruppo che il nostro scopo è costruire Planck, ma soprattutto, nel far questo, costruire noi stessi.