La foto dell’universo neonato. Questo ci regalerà l’audace Planck.

Benedetta CappelliniRassegna Stampa

Oggi dalla base di Kouru, nella Guyana francese, viene lanciato un satellite. Si chiama Planck ed è stato progettato dall’Agenzia spaziale europea, con un forte apporto italiano.
Planck ha una missione audace: fotografare la prima luce dell’universo rilasciata nello spazio 14 miliardi di anni fa, cioè 300 mila anni appena dopo il Big Bang – un tempo che, in cosmologia, è un niente. Dunque Planck, costruito in 17 anni di lavoro dagli scienziati europei, parte.Destinazione il punto lagrangiano L2, a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra. Da qui il potentissimo telescopio spaziale scruterà il fondo dell’universo, l’ultimo confine osservabile dello spazio­tempo. Con i suoi recettori capaci di cogliere segnali debolissimi a lunghezze d’onda minime, potrà fotografare gli embrioni delle galassie – come erano 14 miliardi di anni fa.
Perché la faccenda agli occhi del profano sbalorditiva è che, in realtà, questi strumenti fotografano il passato. Per capirci: la luce del sole che ci illumina in questo istante, è partita dal sole otto minuti fa. E la luce porta con sé informazioni sulla composizione e la struttura dei corpi che la emanano.L’ardito Planck, dalla sua orbita attorno alla Terra, puntando il telescopio guarderà più lontano di quanto gli uomini mai abbiano guardato; e coglierà luci di stelle emesse miliardi e miliardi di anni fa.
Catturerà dunque – immenso essendo il tempo che quei fotoni impiegano per arrivare fino alla sua portata – l’immagine delle galassie nascenti.
Dell’universo neonato. Se l’idea vi dà le vertigini, vi capiamo. Le dà, forse, agli stessi progettisti. George Smoot, premio Nobel per la fisica e progettista – oltre che di Planck – di Cobe, il primo satellite lanciato alla scoperta delle cosiddette ‘radiazioni fossili’ nel 1989, ha spiegato in un’intervista come si sente chi indaga le origini dell’universo: «È come vedere un embrione di poche ore. È come trovarsi davanti al volto di Dio». Parte dunque Planck, gioiello di tecnologia di ultima generazione. Una Ferrari nello spazio, lo ha definito il professor Smoot (si può vedere il lancio in diretta dalle quattordici sul sito dell’Università di Milano, ).
Va a allungare il nostro limitato sguardo oltre ogni frontiera, oltre le colonne d’Ercole del terzo millennio. Va a spalancare i suoi occhi digitali su luci fossili, deposte dalle stelle in un tempo immemorabilmente lontano. Va ad indagare: non sappiamo, in realtà, quasi nulla della materia che compone l’universo. C’è una materia oscura nello spazio, di cui si registrano gli effetti gravitazionali, ma di cui non conosciamo la natura; e c’è un’energia ancora più misteriosa, responsabile dell’espansione accelerata dell’universo.
Dark energy, energia oscura, la chiamano suggestivamente gli astronomi, ma non sanno cosa esattamente è. E se ascolti uno di loro, Marco Bersanelli, docente di Astrofisica e capo del gruppo Planck dell’Università di Milano, che racconta questa impresa, non sai se è più l’incanto o la vertigine.
Vertigine per l’incommensurabilità di spazio e di tempo che viene affrontata. Meraviglia, per la sfida di cui gli uomini – creature limitate, creature che vivono poche decine d’anni – osano avanzare con progetti come Planck. Noi, nell’universo formiche, che lanciamo in orbita un occhio meccanico, con la pretesa di scoprire cosa è successo, come è stato, quattordici miliardi di anni fa. E incanto, ma diremmo anzi trauma, stupore, per l’incontrarsi nel telescopio spaziale di quella luce del principio, con lo sguardo di uomini.
Come inseguendo, come sulle tracce del volto di un Creatore che ci ha guardato, e pensato, molto tempo fa.  (Gli uomini, strane creature. Meschini, litigiosi, talvolta feroci. Ma mai saziati, e sempre tesi alla ricerca. Con gli occhi verso il fondo del buio, cercando l’istante in cui la luce fu).