La Chiesa comprese Galileo ma non fu meno colpevole.

Benedetta CappelliniRassegna Stampa

Nel suo articolo «Perché i teologi non capirono Galileo» («Corriere», 23 maggio) Nicola Cabibbo sottolinea opportunamente l’insistenza di Galilei per ottenere il titolo di Filosofo e Matematico primario del Gran duca, nella Firenze dei Medici. «Non solo Matematico», scrive Cabibbo, «ma anche e anzitutto Filosofo». E altrettanto opportunamente richiama l’opposizione di Galilei alla filosofia aristotelica (che sta alla base della teologia cattolica) in nome di quella pitagorica e atomistica. Ma che cosa intende Galilei con la parola “Filosofo”? La questione è decisiva. Solo a partire da essa si può accertare se la Chiesa del primo Seicento non abbia saputo «valutare correttamente», come sostiene Cabibbo, «l’impatto filosofico della nuova scienza».
II pitagorismo e l’atomismo democriteo differiscono certamente dall’aristotelismo, ma con quest’ultimo hanno in comune l’essenziale. Tale tratto essenziale queste filosofie l’hanno in comune con lo stesso pensiero di Galilei. Insieme ad altri, altrettanto essenziali, esso accomuna l’intera tradizione filosofica dell’Occidente. Galilei lo indica con potenza e nel modo più esplicito. Ad esempio verso la fine della «prima giornata» del Dialogo dei massimi sistemi.
Si incomincia a introdurre, in questo testo, «una distinzione filosofica» tra l’«intensità» (ossia la qualità, il grado di perfezione) e l’«estensione» della conoscenza. Quanto all’«estensione», l’intelletto umano conosce ben poco, ma quanto all’«intensità» delle «proposizioni» esso «ne intende alcune così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza» da eguagliare la stessa conoscenza che Dio possiede di esse. Sono le «proposizioni» delle «scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore». In queste righe sta parlando la grande filosofia – e, propriamente, la grande tradizione del pensiero filosofico.
L’intelletto divino conosce tutte le infinite proposizioni matematiche; quello umano ne conosce «poche» («è come nullo»); ma quelle poche le conosce come sono conosciute dall’intel- letto divino. I due intelletti sono uguali quanto alla «certezza obiettiva», quella cioè che non ha come contenuto qualcosa di illusorio o di probabile, ma la realtà stessa così come essa è. E perché l’intelletto umano riesce ad «agguagliare» quello divino quanto alla «certezza obiettiva»? Perché – e qui la forza filosofica del testo raggiunge il proprio culmine, rispetto alle «proposizioni» matematiche l’intelletto umano «arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore».
La necessità! La filosofia nasce portando alla luce il senso della necessità – la necessità di un sapere che non possa essere smentito da alcuna potenza umana o divina – di un sapere, dunque, che eguaglia, quanto alla sua “intensità”, lo stesso sapere di un Dio. Si dice, di Dio, che è l’Ente di cui non si può pensare uno maggiore; ma innanzitutto è la necessità a mostrarsi come la “sicurezza” (l’incontrovertibilità) della quale non si può pensare una maggiore e che quindi è essa a garantire la stessa sicurezza intorno all’esistenza di un Dio.
In quelle righe di Galilei sta parlando la grande filosofia perché l’affermazione che alle proposizioni matematiche compete la necessità, «sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore», tale affermazione, dico, non è un’affermazione matematica, ma filosofica. Alla filosofia, non alla scienza, compete da sempre il compito di comprendere il senso della necessità e della non-necessità e di stabilire a quali conoscenze competa l’una o l’altra di queste due fondamentali categorie. Eschilo, uno degli alti sovrani della filosofia, esprime l’intera tradizione filosofica dicendo che «la tecnica è troppo più debole della necessità»: più debole, cioè più insicura della necessità sopra la quale non può-esservi sicurezza maggiore. Oggi, attraverso una grandiosa apocalisse del pensiero filosofico, si deve dire che la necessità è troppo più debole della tecnica. E nemmeno questa è un’affermazione di carattere scientifico-tecnologico. Relativamente alla convinzione che la necessità costituisca la «sicurezza maggiore», Galilei sta comunque dalla parte di Eschilo, Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso. Per lungo tempo, fino ad Einstein compreso, la scienza starà da questa parte. Poi, anche la scienza, e anche la stessa «geometria» e «aritmetica», giungeranno a considerare le proprie «proposizioni» non come delle necessità, ma come ipotetiche, probabili, falsificabili.
E la Chiesa? La Chiesa ché condanna Galilei?  Bisogna proprio dire che non fu all’altezza del suo grande interlocutore e che non seppe «valutare correttamente l’impatto filosofico della nuova scienza», secondo quanto sostiene Cabibbo? La risposta va articolata. Da un lato, il senso che per Galilei compete alla necessità è quello stesso che la Chiesa tien fermo. Tra la Chiesa e il suo avversario esiste, su questo punto fondamentale, una profonda solidarietà. Sia l’una sia l’altro credono che nell’uomo sia presente un sapere necessario. Dall’altro lato, la Chiesa del XVII secolo ritiene che la necessità competa alla filosofia di Tommaso d’Aquino e quindi, da ultimo, alla sapienza filosofica greca, soprattutto a quella aristotelica, mentre per Galilei la necessità compete, nella conoscenza della natura, soltanto alla matematica.
Ma proprio per questo nella Chiesa di quel tempo ci fu chi seppe «valutare correttamente l’impatto filosofico della nuova scienza», ed ebbe anzi una comprensione di essa essenzialmente più avanzata di quella del suo pur grandissimo interlocutore. Mi riferisco al cardinale Roberto Bellarmino. Egli ebbe a possedere della scienza, matematica compresa, lo stesso concetto che la scienza ha oggi di sé stessa: di non essere un sapere necessario, ma soltanto ipotetico, probabile, falsificabile. E appunto per questo egli esorta Galileo a esporre le proprie dottrine non come un sapere necessario che costringe “assolutamente” a modificare la lettera delle Scritture (cioè l’affermazione del movimento del sole), ma come ipotesi che, come tali, possono convivere con quella lettera. E aggiunge che se ci fosse «vera dimostrazione» della teoria copernicano-galileana – se questa teoria apparisse cioè come una necessità – «allora bisogneria andar con molta considerazione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l’intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra». Quel che si dimostra come necessario non può essere falso – anche se, insieme, egli dichiara di avere «grandissimo dubbio» che quella «vera dimostrazione» ci possa essere. Il dubbio da cui dev’essere afferrato chi ormai, a differenza di Galilei, si è reso conto che la scienza non può parlare “assolutamente”. La Chiesa che oggi si pente di aver condannato Galilei è cioè meno avanzata di quella che lo ha condannato. Questo, si capisce, guardando al puro contenuto concettuale della controversia, non al contesto storico-sociale in cui essa si è svolta.