La Figura dell’Ingegnere

Benedetta Cappellinimc2

Negli scorsi decenni il mondo della produzione, dell’ingegneria e della formazione tecnica in generale ha subito una notevole evoluzione, con tratti comuni a livello internazionale ed anche qualche caratteristica particolare legata alle speci!cità culturali, economiche e istituzionali dei singoli paesi. Fino a qualche decennio fa il profilo dei mestieri e delle professioni tecniche (facciamo qui riferimento all’ingegneria) era legato essenzialmente alla progettazione e gestione di apparati e impianti tecnici. I relativi processi di formazione tecnica erano quindi tagliati su tale prospettiva di sbocco lavorativo.    Gli istituti tecnici fornivano al livello della scuola secondaria una formazione orientata allo sbocco lavorativo con possibilità di proseguire gli studi in università; le Università/Politecnici fornivano una formazione tecnica superiore quinquennale nei rami tradizionali dell’ingegneria. Nel nostro paese il percorso di formazione, organizzato secondo uno schema uniforme a livello nazionale, si fondava su un periodo di due o tre anni di preparazione generale approfondita nelle matematiche e nelle scienze, seguito poi da un percorso di specializzazione tecnica che concludeva il corso di laurea quinquennale.

Le nuove ingegnerie
Negli anni l’evoluzione dei processi produttivi, delle tecnologie, dell’ambito manifatturiero e il grande sviluppo dei servizi hanno molto allargato e quindi modificato la figura del tecnico/ingegnere, a motivo anzitutto della varietà delle competenze richieste dalle attività di produzione di manufatti e servizi. Alle tradizionali ingegnerie (meccanica, civile, chimica, elettrotecnica e poi elettronica, informatica) si affiancano altre ingegnerie, anche di natura diversa (ingegneria biomedica, ingegneria gestionale, eccetera), ma soprattutto emerge la pluralità dei percorsi formativi corrispondenti alle richieste del mondo del lavoro.  Si consideri la varietà delle funzioni richieste (progetto, gestione, organizzazione, ricerca e sviluppo, eccetera), l’esigenza di combinazioni differenziate di formazione teorica scolastico/accademica e formazione pratica, l’utilità di percorsi con alternanza flessibile di periodi di formazione e di esperienza lavorativa. Tutto ciò giustifica percorsi di formazione a vari livelli, differenti nei tempi e negli ingredienti.  In vari paesi da molto tempo esistono istituzioni distinte che forniscono formazione tecnica di natura e livello diversi, rispondendo in modo indipendente a differenti obiettivi formativi. Per fare un esempio si può citare il caso tedesco, con i due percorsi formativi nell’ingegneria, dopo gli studi secondari, orientati rispettivamente alla ricerca e sviluppo (e quindi secondo il concetto denominato nel mondo anglosassone «research university») e alla formazione professionale superiore strettamente collegata, anche come docenza, all’ambito aziendale/industriale.    Tali percorsi sono offerti da istituzioni diverse.

La riforma degli studi universitari
Nel nostro paese verso la fine del Novecento si prende atto, nell’ambito del processo di armonizzazione in corso in Europa nel sistema di formazione superiore, della non sostenibilità dello schema tradizionale rigido e a livello unico, che per di più, nel caso dell’ingegneria, era diventato di fatto, in media, notevolmente più lungo della durata nominale quinquennale. Inoltre nel confronto con molti altri paesi industrialmente sviluppati emergeva una signi!cativa carenza di «laureati» tecnici. Al riguardo c’è però da osservare che in molti di questi paesi con la categoria «laureati» si fa riferimento normalmente all’insieme di vari tipi di percorsi formativi superiori (successivi alla scuola secondaria) di diversa natura e durata, come prima accennato.   Ciò porta in Italia negli anni Novanta alla riforma degli studi universitari. Dopo una breve esperienza basata su due percorsi paralleli rispettivamente di tre e cinque anni nell’unica istituzione universitaria (accanto alla classica laurea quinquennale si propone un diploma triennale orientato allo sbocco lavorativo), si vara nel 2000 uno schema di formazione sempre a due livelli ma in serie, il cosiddetto «tre + due». La nuova organizzazione degli studi universitari in ingegneria si basa su un primo livello costituito da una «laurea» triennale, e di seguito, se si vuol proseguire anziché entrare nel mondo del lavoro, una laurea di secondo livello biennale specialistica, ora denominata «laurea magistrale». C’è poi la possibilità, per pochi e selezionati allievi, di un ulteriore periodo triennale di studi e ricerca avanzati (Dottorato), che prelude ad attività di ricerca e sviluppo in università, istituti di ricerca o aziende.  L’esperienza di questi anni presenta per vari aspetti risultati rispondenti agli obiettivi posti alla base della riforma 3+2.   La statistica della durata degli studi mostra una netta tendenza verso valori più ragionevoli che in passato. Guardiamo ad esempio al Politecnico di Milano e consideriamo i «laureati» di Ingegneria nel loro insieme (cioè oggi i laureati al secondo livello e quelli al primo livello che non hanno proseguito al secondo): si vede che nell’anno 2000 su un totale di laureati di 2800 solo il 25% si laurea (ed entra nel mondo del lavoro) prima dei 25 anni mentre nel 2007 la percentuale, su un totale di circa 3600, sale al 60%.    Per altri aspetti permangono, a giudizio di chi scrive, punti di criticità, comuni a tutte le Università del paese.  Questi sono legati fondamentalmente al fatto che oggi la società pone al sistema di istruzione tecnica uno spettro molto ampio di obiettivi e richieste.     Pertanto un percorso universitario sequenziale, con il tratto triennale iniziale sostanzialmente unico (e con possibilità di uscita verso il lavoro), solo con difficoltà riesce a far fronte efficacemente ai seguenti dati di fatto: la molteplicità di obiettivi formativi di fatto emergenti; la diversità dei livelli di preparazione degli studenti all’ingresso; la necessità di docenti con caratteristiche diverse che possano guidare i due aspetti fondamentali della formazione universitaria, quello culturale (ricerca e trasferimento della conoscenza ai discenti, secondo il concetto di research university) e quello professionalizzante.

La formazione tecnica: problemi e prospettive
Se guardiamo alla esperienza di questi primi anni del sistema tre+due, osserviamo che la maggioranza dei laureati di primo livello prosegue verso la laurea di secondo livello. Ciò si verifica con proporzioni diverse per i vari settori dell’ingegneria.   Per alcune facoltà la quasi totalità degli allievi tende a completare il percorso quinquennale; in questi casi, qualora nel tempo si confermi la tendenza, la struttura a due livelli in serie non sembra giustificata.  Per altre invece la percentuale dei laureati di primo livello che proseguono può essere stimata, in base all’esperienza di questi primi anni, attorno al 60-70%. Tra l’altro anche altri fatti sembrano richiedere una riconsiderazione dell’organizzazione generale della formazione tecnica. In questi ultimi anni si è messo in luce da più parti, in particolare in ambito industriale, la carenza di tecnici di vario tipo, tecnici che dovrebbero formarsi attraverso percorsi di formazione professionale, magari di durata limitata, dopo la scuola secondaria.  Questi percorsi diffcilmente possono svilupparsi oggi all’interno della formazione superiore universitaria date le di”coltà di fornire in modo $essibile una formazione professionalizzante in stretto collegamento col mondo del lavoro. Inoltre, al livello della scuola secondaria, si riscontra una carenza di diplomati dagli istituti tecnici in ingresso nel mondo del lavoro; recenti dati indicano che la domanda, da parte delle imprese, di diplomati tecnici incontra un’offerta nettamente insufficiente, addirittura pari circa alla metà di quanto richiesto dal mercato. In breve, oggi una unica istituzione universitaria è chiamata a svolgere funzioni rispondenti a esigenze (dello studente, della società, del mercato) differenti, e si trova ad operare in condizioni di scarsa mobilità della docenza (mondo del lavoro-università), scarsa flessibilità dell’ordinamento, rapporto con il mondo del lavoro poco sviluppato agli effetti della formazione professionale. Ciò può influire negativamente sulla qualità della formazione, per tutti i vari profili, da quelli professionali a quelli preparatori alla ricerca. Un punto di criticità importante è dato dalla disparità, tra gli studenti, della preparazione iniziale, in particolare nelle matematiche e nelle scienze, all’ingresso del percorso sequenziale universitario. La soluzione naturale, adottata normalmente in vari paesi, è data da corsi preparatori (corsi universitari o pre-universitari, obbligatori) tagliati sulla misura della preparazione posseduta dallo studente all’uscita della scuola secondaria.  Tale soluzione era anche esplicitamente prevista dalla legge che ha varato l’ordinamento tre+due; ma non si è finora realizzata, se non in misura molto limitata, per varie ragioni (di natura pratica e ideologica).   Un percorso di istruzione comune proposto a tutti porta allora ad abbandoni degli studi (per esempio al Politecnico di Milano il tasso d’abbandono mostra valori dell’ordine del 15-20% al primo anno di studi) o ad anni di studio difficoltosi e frustranti per chi abbia carenze nella preparazione di base.  Resta questo dunque un problema aperto che, se non risolto appieno, porta ineluttabilmente a danni per la qualità della formazione.

Conclusioni
La conclusione che si può trarre da queste considerazioni è che la riforma della formazione tecnica superiore deve essere ancora completata con passi ulteriori, dal momento che costringere tutta la formazione tecnica superiore dentro uno schema post-secondario rigido unico non sembra poter rispondere alle esigenze della società di oggi. Pensando astrattamente a una struttura ideale, certo non facilmente realizzabile ma che può costituire punto di riferimento, si dovrebbe tendere a un sistema formativo più flessibile, articolato cioè su più filoni, non necessariamente gestiti da una unica istituzione, che possa adattarsi più facilmente alla varietà dei settori e dei livelli della formazione tecnica. Tale sistema potrebbe anche rendere possibile, o più agevole, una alternanza di periodi di formazione e di esperienza di lavoro che meglio potrebbe adattarsi alle aspirazioni, attitudini e percorso di vita di ciascuno. Si pensi ad esempio, con riferimento alla formazione dell’ingegnere, ad un percorso che vede in sequenza prima una laurea di primo livello e poi un periodo di lavoro, e quindi una laurea magistrale (eventualmente in modo trasversale rispetto ai settori tecnici speci!ci).  Certo realizzare questa flessibilità, che viene generalmente riconosciuta come rispondente alla società di oggi, coinvolge molti aspetti dell’organizzazione sociale. Ma l’organizzazione del sistema istruzione può fare la sua parte.