Ecco un buon modo di divulgare la sua materia!
«Certo, ma ricordiamoci che hanno dovuto fare un duro lavoro per organizzare le pagine del Web secondo una logica di importanza: era lì il problema».Ian Stewart ha il volto attraente del professore che tutti vorremmo avere avuto. I colleghi lo stimano per oltre 140 «papers» e gli individui standard lo seguono perché è un divulgatore nato, famoso per best-sellers sospesi tra gioco ironico e provocazione estrema. E infatti è lui che ha avuto il coraggio di scrivere «Flatterlandia», il «sequel» di un libro unico, «Flatlandia».
Professore, lei salirà sul palco del Festival della Matematica di Roma il 21 marzo e lo show avrà inizio: come riesce a far sembrare facile qualcosa che per i più è ostico?
«In passato – e credo anche oggi – i metodi scolastici non sono stati affatto rappresentativi della materia. Si trascorre così tanto tempo a studiare le tecniche e così poco a rivelare a che cosa servano. Ecco perché i professionisti della matematica sono disperati per gli equivoci che si creano: non si riesce a vederla nelle sue applicazioni alla vita».
Bella e invisibile?
«Se invio una e-mail, non è affatto ovvio quanta matematica sia coinvolta. Ma non c’è nessuno che punti una bacchetta sul video e lo dica! E così, se i numeri restano invisibili, è ragionevole non pensarci. I matematici non hanno fatto un buon lavoro: la maggior parte lavora con le formule senza occuparsi di ciò che pensano le persone».Perché vuole fare eccezione?
«C’è chi, come me, ama spiegare: non pretendiamo che tutti capiscano tuttavia ci sono tanti, là fuori, che si dimostrano ricettivi. Maneggiamo una realtà attraente anche perché non c’è molta competizione, mentre l’audience è vasta».
Quali sono le nostre speranze di capire? «Penso che i problemi con i numeri vengano esagerati. Quando racconto certi problemi, la reazione è del tipo: “Oh! Non mi ero reso conto che fosse così!”. E’ questione di obiettivi. Io non voglio insegnare la matematica, semmai rendere consapevoli gli individui. La vita è migliore grazie alle cose che facciamo. Senza i matematici niente funzionerebbe».
Senza di loro – e di lei – non sarebbe neanche nato «Flatterland», il seguito del classico di Edwin Abbott: qui la complicazione degli universi multidimensionali supera quella del Web.
«Ho raccolto alcune idee profonde sviluppate dai matematici: si tratta di concetti che possono apparire strani e perfino irragionevoli. Com’è possibile ricorrere a una geometria diversa da quella euclidea? E come possono esistere più di 3 dimensioni? Per spiegarlo ho scelto uno stile ironico e irriverente, diverso da quello vittoriano di “Flatlandia”. Ho scelto il momento giusto e lo dimostrano le reazioni: c’è chi ama “Flatterland” e chi lo detesta. Pochi sono gli indifferenti».
La protagonista – Vikki – è trascinata in un’avventura che passa dalla topologia alla geometria iperbolica: il «Mati-verso» sembra fantastico e in realtà è lo specchio per capire l’Universo.
«In effetti la seconda metà del libro parla di spazio e tempo e, quindi, delle teorie sul cosmo».
Può fare un esempio?
«Ok! Un capitolo tratta i viaggi nel tempo: nella fisica classica ci si sposta solo in avanti, secondo dopo secondo, mentre nella Relatività le geometrie di spazio e tempo si intrecciano ed è possibile avere a che fare con ciò che i fisici chiamano “closed timeline curves”: consentono di tornare nello stesso punto e nello stesso istante da cui si è partiti, viaggiando dal futuro al passato. Non possiamo tradurre queste curve in realtà perché sarebbe necessaria troppa energia, ma sono perfettamente plausibili».
A proposito di Universo e science-fiction, lei ha scritto un provocatorio saggio sugli extraterrestri, «Evolving the Alien: The Science of Extraterrestrial Life»: perché sbagliamo a cercarli? «La scienza della vita si occupa delle creature della Terra. Sono l’unico esempio di cui disponiamo e quindi è ragionevole cercarne altre simili, su pianeti rocciosi, avvolti dall’ossigeno, popolati da molecole basate sul carbonio. Ma se si pensa che queste siano le uniche condizioni possibili, allora ci si sbaglia. E di grosso. Da matematico penso che la vita sia possibile anche con ingredienti diversi: ci vuole un approccio più creativo».
Come immagina gli alieni?
«Potrebbero esserci milioni di forme diverse e, perciò, noi saremmo solo una delle manifestazioni possibili. Che questa seconda opzione sia vera o no genera, comunque, una domanda fondamentale: non tanto se la vita possa esistere altrove, ma quali forme potrebbe assumere?».
In concreto?
«C’è un ottimo esempio sulla mancanza di immaginazione: la discussione sulla “regione abitabile” delle stelle, l’area circostante in cui possono esistere pianeti dotati di acqua allo stato liquido. Ma una simile logica è sciocca per una serie di motivi. La temperatura, prima di tutto. Non dipende solo dalla distanza dal proprio Sole, ma dalla presenza o assenza dell’effetto serra. Venere, per esempio, è più caldo di ciò che dovrebbe essere proprio per le caratteristiche dell’atmosfera e anche la Terra si sta riscaldando. Marte, d’altra parte, è più freddo del previsto, perché, diminuendo il campo magnetico, ha perso molto della sua atmosfera. E poi c’è altro».
Lo spieghi.
«Su Marte ci sono indizi della passata presenza di acqua liquida e si sono raccolte prove dell’abbondanza di ghiaccio e della possibilità di parziali scioglimenti. Allo stesso tempo si sono rilevate sostanze – i perclorati – che hanno la caratteristica di essere anticongelanti naturali, in un habitat che raggiunge i -70°. Un posto freddissimo! Ma ecco che, combinando queste realtà, cambia in modo straordinario il concetto di zona abitabile».
Come dobbiamo considerarci noi umani nella vasta galleria della vita cosmica?
«E’ probabile che non siamo affatto rappresentativi delle forme tipiche della vita nell’Universo. E, d’altra parte, esistono microrganismi sotto la superficie terrestre che su Marte si sentirebbero a casa. Di sicuro, ora, creiamo la tecnologia adatta per andare “fuori” e cercare: con i telescopi spaziali otteniamo immagini sempre più nitide di quali siano le condizioni nell’Universo, comprese quelle per ospitare la vita».
Tornando sulla Terra e ai numeri, lei si è dedicato alla simmetria: perché è così importante per voi matematici?
«La verità è che sorprende noi quanto chiunque altro».
Davvero?
«La simmetria in un problema matematico è la tecnica con cui trasformare gli oggetti in modo che le stesse soluzioni funzionino sempre! Le piace la definizione?».
Sia più semplice!
«La simmetria è un’operazione che trasforma un oggetto, lasciandone però inalterato l’aspetto. Se si prende un quadrato e lo si fa ruotare su uno dei suoi angoli, appare ancora come un quadrato e occupa lo stesso spazio: la rotazione di 90° è la simmetria del quadrato. Nel caso di un triangolo, invece, con lo stesso movimento non riesco a riprodurne uno uguale. Le simmetrie, quindi, sono molto diverse. E’ significativo che gli oggetti matematici più interessanti abbiano le loro simmetrie e che anche molte realtà della fisica le posseggano. E così vale per le stesse leggi della fisica».
Spieghi.
«C’è un principio che risale a Einstein, secondo il quale le leggi della natura devono essere le stesse in ogni punto dell’Universo e in ogni dato momento. La matematica della simmetria, perciò, ha applicazioni davvero vaste e il fatto sorprendente è che è anche bella».
E arriva fino agli organismi viventi, giusto?
«Sì, fino al caso spettacolare dei pesci “starfish”, che hanno una simmetria rotazionale a 5 assi. E allora la domanda è: perché la Natura utilizza la simmetria? La risposta è nelle nostre mani. Averne 2 è meglio di una sola. Ripetere la stessa struttura in un organismo è un “trucco” facile ed efficace e, d’altra parte, mai perfetto, perché l’adattamento gioca la sua parte».
La simmetria è un’altra prova che Darwin aveva visto giusto?
«La simmetria, ma anche la sua mancanza, si inserisce perfettamente nella visione tracciata da Darwin sull’evoluzione della vita».