La retorica su “scienza e fede” superata da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI

Benedetta CappelliniRassegna Stampa

Mario Gargantini, Il Sussidiario.net, 28 marzo 2009
Nell’anno delle celebrazioni galileiane, mentre si susseguono le iniziative più o meno collegate all’anniversario delle prime osservazioni col cannocchiale – iniziate da Galileo a Padova sul finire del 1609 – non mancano i riferimenti al seguito della vicenda dello scienziato pisano: al celebre processo e alle difficoltà che ne sono derivate circa i rapporti tra la Chiesa e il mondo scientifico. Difficoltà che sono diventate tali principalmente in epoca illuministica e hanno inciso più sull’opinione pubblica che sull’effettiva pratica degli scienziati: in questi 400 anni, il mondo scientifico ha visto un continuo fiorire di studiosi cattolici, giunti anche ai vertici del sapere nei rispettivi campi di indagine, che non hanno trovato nella loro esperienza di fede ostacoli al fare scienza.

Tuttavia quello di Galileo è rimasto un “caso” e non è bastata a dissipare le ombre neppure l’iniziativa di Giovanni Paolo II di istituire una Commissione per far luce sull’intera vicenda; iniziativa conclusasi nel 1992 con un solenne pronunciamento dello stesso pontefice che dichiarava appartenente «ormai al passato il doloroso malinteso sulla presunta opposizione costitutiva tra scienza e fede». D’altra parte, i lavori della Commissione, nota come Commissione Poupard dal nome del cardinale che l’ha presieduta, non hanno avuto un iter facile e hanno raccolto una serie di osservazioni critiche e, in qualche caso, di pesanti stroncature.

Giunge quindi opportuno il lavoro di due studiosi spagnoli, il compianto Mariano Artigas e mons. Melchor Sánchez De Toca (attuale sottosegretario del Pontificio Consiglio della Cultura), che hanno ricostruito minuziosamente la genesi e lo sviluppo
dei lavori della commissione in un libro, uscito in Spagna l’anno scorso e ora pubblicato in Italia col titolo Galileo e il Vaticano (Marcianum Press), con prefazione di Mons. Gianfranco Ravasi.

I due storici hanno potuto consultare ed esaminare attentamente tutta la documentazione, conservata negli archivi del Pontificio Consiglio della Cultura, hanno studiato le opere prodotte successivamente su impulso dei lavori della Commissione e hanno esaminato le diverse prese di posizione di scienziati e storici.
Ne è derivata un’opera di indubbio valore documentativo e rigore scientifico, per giunta espressa con un linguaggio e uno stile comunicativo accessibile al grande pubblico. Un libro organizzato secondo una visione ampia, che presenta i protagonisti delle ricerche più recenti insieme ai vari personaggi che hanno vissuto quei concitati momenti nella Roma dell’inizio del seicento; così da ricostruire un quadro che va ben al di là della semplice cronistoria dei lavori della commissione.

Non vengono nascoste le difficoltà incontrate nei tredici anni di attività: la fatica e le incertezze nell’organizzare in modo efficace il materiale; a trovare una pista adeguata per tradurre le ricerche in testi proponibili per i diversi livelli di pubblico e di studiosi; a condensare i contenuti in un documento sintetico. E neppure viene taciuto il dibattito che ha portato a scegliere quel tipo di conclusione. La commissione infatti non è arrivata a una dichiarazione finale unica: sono stati prodotti
tanti documenti, libri, articoli ma poi si è deciso di affidare la chiusura dei lavori alla solenne cerimonia del 31 ottobre 1992, in occasione della sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze riunita per discutere il tema della complessità: gli accademici sono stati ricevuti dal Papa accompagnati da membri della Commissione, da cardinali, dal Corpo diplomatico e da altre personalità: a loro si sono rivolti Giovanni Paolo II e il card. Poupard con due discorsi accuratamente preparati nei mesi precedenti. Il fatto di non arrivare a delle conclusioni concrete, secondo Artigas e Sanchez, «fu dovuto al suo stesso modo di funzionare e alle circostanze. È vero anche che non se lo era proposto, ma, allora, come si poteva fare? Poteva sembrare che le opinioni espresse dal cardinale Poupard fossero conclusioni della Commissione, ma evidentemente non lo erano. Se il Papa avesse compiuto un qualche gesto spettacolare di richiesta di perdono o qualcosa di simile, a maggior ragione ciò avrebbe potuto apparire come il frutto del lavoro realizzato dalla Commissione. Insomma: nei lavori realizzati e pubblicati dalla Commissione si riconoscevano gli errori, che però venivano riconosciuti anche nei discorsi del cardinale Poupard e del Papa, e non c’era nulla in quei lavori che permettesse, e men che meno facesse esigere, una richiesta di perdono che sarebbe certamente sembrata strana, assolutamente anacronistica e assai poco coerente con i dati storici».

Sarebbe stato tutto meno rischioso, dicono ancora i due autori, se i lavori si fossero chiusi in modo più semplice, «per esempio con una lettera del Papa al cardinale Poupard, nella quale vi fossero il ringraziamento per i lavori e un breve commento. Sicuramente si decise di realizzare l’atto solenne perché fosse chiaro che la Chiesa non temeva di confrontarsi con il caso Galileo e, nello stesso tempo, lo considerava superato. Si può dire che, nell’insieme, tale obiettivo fu raggiunto». Il discorso del Papa comunque, ancora una volta è andato oltre lo specifico problema storico per inquadrare il “caso Galileo” in una più potente visione della scienza, del suo modo particolare di accedere alla verità, del suo scopo e significato. E ciò non tanto per minimizzare i problemi posti della questione Galileo, quanto per esprimere la posizione di una Chiesa – come è chiaramente testimoniato dall’intero magistero di Giovanni Paolo II sulla scienza, proseguito da Benedetto XVI – che apprezza la ricerca scientifica mentre invita gli scienziati a valutare criticamente il loro lavoro e ad inserirlo in una prospettiva più ampia e ben fondata che consenta di affrontare eventuali altri “casi”.