Platone, un grande filosofo greco del V secolo avanti Cristo, nel suo Timeo definisce le stelle “dei visibili”, e ritiene, come i suoi contemporanei, che sia composto di una quinta essenza, l’etere, che esiste appunto solo nel cielo. Gli astri, per lui, per gli aristotelici e per il cosiddetto sistema aristotelico tolemaico, sono lisci, perfetti, cristallini, si muovono di moto circolare, e cioè perfetto, perché sono, appunto, divini.
Con il cristianesimo le cose iniziano a cambiare:
il cielo rimane abitato da Dio, metaforicamente, ma le stelle e gli astri vengono ridimensionati. Divengono semplicemente creature di Dio, opere della sua munificenza, che cantano le lodi del Creatore, ma non divinità essi stessi. Uomini, insegna sant’Agostino, siete liberi, le vostre azioni non sono decise dagli astri. Siete voi, come creature spirituali, a scegliere tra il bene e il male, e a decidere della vostra vita. Analogamente l’apologeta cristiano Lattanzio scrive: “Proprio perché gli astri non possono uscire dalle orbite prescritte, appare evidente che non sono dei; se fossero dei li vedremmo trasferirsi qua e là come esseri animati sulla terra che vanno dove vogliono perché le loro volontà sono libere”.
Si tratta di un’acquisizione filosofica fondamentale, che da una parte salva la libertà e l’indipendenza dell’uomo, non più schiavo del Fato, del Destino, del volere delle stelle, come nell’antichità, dall’altra apre allo studio scientifico degli astri. In quanto agglomerati di materia, infatti, e non dei, possono essere indagati e studiati. San Tommaso, per confutare coloro che ancora credono nell’oroscopo, scrive: “Astri inclinant, non necessitant”, cioè gli astri possono influire sul carattere, sul temperamento di una persona, ma non impongono nulla, necessariamente, alla natura spirituale, libera, dell’uomo, come invece credono i pagani o gli altri popoli della terra, in Asia o in Africa. Nonostante queste importanti riflessioni, scaturite dalla razionalità del cristianesimo, il medioevo mantiene il sistema aristotelico tolemaico e geocentrico degli antichi greci. Solo che inizia sempre più a interrogarsi: se non sono dei, se non sono entità vive, cioè se non si muovono per forza propria, che cosa muove gli astri?
Non un’anima divina dentro di loro, dunque, ma qualcosa di altro. Roberto Grossatesta, un vescovo inglese, nel XIII secolo ipotizza che il moto originario impresso all’atto della creazione, da una sorta di big bang, possa giustificare il moto dei pianeti. Come se dopo l’atto creativo di Dio, tutto l’universo materiale fosse regolato da leggi fisiche, matematiche, poste in essere da un “divino Architetto”. Occorre ora, dunque, cercare in base a quali leggi (nomoi) si muovono le stelle: l’astrologia, o “astro-biologia”, secondo la definizione di A. Koyré (in quanto gli antichi pagani consideravano i pianeti degli “animali viventi”), diventa, piano piano, astro-nomia, studio dei nomoi, delle leggi che muovono le stelle.
Anche Keplero, l’autore delle leggi sull’orbita dei pianeti, allontanandosi gradualmente dalle sue convinzioni magico-astrologiche, la pensa nello stesso modo. Mentre discute di numeri, di orbite, di leggi fisiche, scrive, in una sua famosa lettera del 1605 a Herwart von Hohenberg: “Sono molto occupato nello studio delle cause fisiche. Il mio scopo è dimostrare che la macchina celeste può essere paragonata non ad un organismo divino ma piuttosto ad un meccanismo d’orologeria… in quanto quasi tutti i suoi molteplici movimenti si compiono grazie a una sola forza magnetica, molto semplice, come nell’orologio tutti i moti (sono causati) da un semplice peso”.
E alla fine del suo “Harmonice mundi”: “grande è il Signore nostro, grande è la sua sapienza, non ha confini; lodatelo voi, o cieli, lodatelo voi, o Sole, o Luna, o Pianeti, qualunque senso per percepire e qualunque lingua adoperiate per manifestare il vostro Creatore; lodatelo voi, o armonie dei cieli, lodatelo voi che osservate le armonie manifeste; loda anche tu, anima mia, il Signore creatore tuo finché vivrò…”.
infatti, che l’eliocentrismo copernicano, che in verità verrà dimostrato solamente all’inizio dell’Ottocento, avrebbe avuto conseguenze filosofiche e teologiche mettendo in crisi l’antropocentrismo biblico.
L’uomo si sarebbe cioè ritrovato piccolo, e insignificante, spodestato e detronizzato, sperso in un universo sempre più grande: non più al centro del mondo. In realtà è vero il contrario. Tutto il pensiero antico, greco, persiano, indiano, arabo, in una parola astrologico, era cosmocentrico, non antropocentrico, e la Terra era al centro fisico dell’Universo, nel sistema aristotelico tolemaico, non per la sua maggiore dignità, ma al contrario, per la sua miseria e insignificanza, rispetto agli altri corpi celesti. L’astrologia, combattuta prima dal pensiero cristiano, poi sconfitta dalla rivoluzione astronomica e scientifica e dalle condanne papali, sino a Sisto V (bolla Coeli et terrae, 1586), si fondava cioè sull’idea del cielo come “causa efficiente universale”, espressa ad esempio dal medico-astrologo Pietro D’Abano, nel XIII secolo: “questo mondo inferiore (la Terra, ndr) è in necessaria continuità con i movimenti sovrastanti: così che tutta la sua potenza è governata dall’alto. Il mutamento delle cose terrestri in relazione a questo o quell’individuo deriva dal mutamento dei corpi celesti. Pertanto colui che intende investigare le cause delle cose dovrebbe innanzitutto contemplare i corpi celesti” (“Il Rinascimento italiano e l’Europa”, vol. V, Le scienze, pag. 51, Fondazione Cassamarca, Vicenza 2008).
occorrerebbe sempre difendersi (vedi il “De siderali fato vitando” di Tommaso Campanella)!
trarre, dalle nuove nozioni sulla grandezza del cosmo, motivazioni per sminuire la centralità dell’uomo, mantenendo surrettiziamente la divinità degli astri attraverso la divinizzazione di un Universo “infinito”, cioè divino, avrebbe risposto il filosofo e matematico copernicano Blaise Pascal: “L’uomo non è che una canna, la più fragile della natura; ma è una canna che pensa. Non è necessario che l’universo si armi per distruggerlo: basta un vapore, una goccia d’acqua per ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo lo distruggesse, l’uomo sarebbe sempre più nobile di ciò che l’uccide, perché sa di morire… l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. Non è nello spazio che devo cercare la mia dignità… attraverso lo spazio l’universo mi comprende e mi inghiotte come un punto, attraverso il pensiero io lo comprendo”.
L’uomo, insomma, che scruta ogni cosa, osserva i cieli, interroga la natura, e si chiede il senso della sua esistenza, è il vero e unico vertice del creato, perché unisce, alla natura corporea, che lo accomuna a tutte le altre cose, una natura spirituale. Questo pensano i padri dell’astronomia, tutti, nessuno escluso. Lui solo, solo l’uomo, dunque, è portatore di una scintilla divina, a immagine e somiglianza di Dio, mentre il cosmo, lungi dall’essere il luogo di mille paralizzanti divinità e spiriti, come è ancora oggi per molti popoli, gli è stato affidato come un giardino, di cui servirsi, ma anche da custodire, con cura e responsabilità.
L’uomo guarda e indaga, liberamente, il cielo, dunque, perché è il cuore, il centro dell’universo.