Darwin e l’occhio del calamaro

Benedetta CappelliniRassegna Stampa

Quando si intervista sull’evo­luzione il professor Franci­sco J. Ayala, biologo e filo­sofo che svetta nella comunità scientifica mondiale, bisogna sottoscrivere una fondamentale premessa metodologica: «Noi scien­ziati parliamo di Darwin, non di darwinismo né di neodarwinismo. Queste ideologie sono fuori della scienza».

Professore, il nome di Darwin va le­gato più all’evoluzione o alla sele­zione naturale?

 «Darwin ha scoperto la selezione naturale. C’era stata la rivoluzione fi­sica, quella che parte da Copernico e attraverso Galileo arriva a Newton, ma non poteva coprire l’origine de­gli organismi. Perché, e come, la mano era stata disegnata per afferrare, l’occhio per vedere, le ali per vola­re? Tutto  ciò non poteva essere spiegato dalle leggi naturali e universa­li della fisica. Darwin scopre la sele­zione naturale nel 1838; aveva viaggiato per cinque anni attorno al mondo facendo ricerche e poi era andato a concludere i suoi studi a Cambridge. Per lui l’evoluzione era un fatto evidente ma occorreva tro­vare la legge naturale che la spiega. Nel 1938 scrive nel suo diario: ‘Ho trovato la chiave: è la selezione na­turale’».

 Oggi questo processo è su tutte le enciclopedie. Ma come lo ricostruì e lo descrisse lui?

«Quando si hanno variazioni eredi­tarie favorevoli all’organismo, la va­riazione si moltiplica; quando sono sfavorevoli, la variazione viene eli­minata. La  ragione? L’organismo che subisce variazioni sfavorevoli a­vrà meno discendenti. E l’obiettivo è salvaguardare il futuro della specie.
Ci sono organismi che hanno mani per prendere, occhi per vedere oppure ali per volare, in quan­to  per milioni e mi­lioni di anni si sono accumulate varia­zioni ereditarie fa­vorevoli».

Darwin si accorge subito che la sua teoria è rivoluzionaria?

«Capisce che completa la rivoluzio­ne newtoniana. È possibile spiega­re con leggi e processi naturali la forma e la struttura di organi e organi­smi viventi. Per dimostrare la sele­zione naturale salta i casi facili, concentra la sua osservazione sui casi difficili, improbabili.
Perciò non 
pubblica subito la sua teoria. Nel 1842 scrive uno schema di 50-60 pa­gine, nel 1844 o amplia in un saggio di 250 pagine e lo sottopone al giu­dizio di vari scienziati».

Perché nei suoi studi sceglie picco­lissime creature marine?
«Sono i casi più incerti e perciò più significativi. Lui vuol vedere se è possibile applicare lo schema della selezione naturale a speciali crosta­cei, i balanidi, che vivono attaccati alla roccia. Passa quattro anni a studiarli e pubblica tre libri. Perché i balanidi non si muovono e restano attaccati alla roccia, mentre le loro larve si muovono? Per anni estende la sua indagine anche  all’orchidea, altro caso difficile da capire alla luce della selezione naturale. È un fio­re splendido, a che cosa serve la sua rara bellezza?
Darwin conclude che ha la funzione di attirare gli insetti perché distribuiscano il polline in altri fiori. Si occupa anche delle piante carnivore. E tutti i casi diffi­cili confermano la sua teoria. Così nel 1859 può pubblicare la sua ope­ra principale il cui titolo completo è
L’origine delle specie per selezione naturale».

Per far capire come funziona la se­lezione naturale, prenderà in esame l’evoluzione dell’occhio. Perché?

«È organo di estrema complessità. Cominciamo da molluschi, chioc­ciole, vongole. Nei molluschi l’oc­chio è molto semplice, è fatto di po­che cellule, poi in altri animali ma­rini il numero aumenta, l’organo si struttura, fino ai calamari e ai poli­pi che hanno una ‘camera eye’  co­me gli esseri umani. Questi sono e­sempi chiari di come un organo da semplice diventi complesso».

È proprio sull’occhio che danno battaglia i critici. Affermano che la selezione naturale non basta a spie­gare un organo che sembra invece il risultato di un processo di au­toformazione.

«Noi dimostriamo che si può spie­gare benissimo. Un organismo, quando trova beneficio a disporre di un occhio più completo, si mi­gliora, riceve mutazioni favorevoli che vanno a vantaggio della specie. Al tempo di Darwin molti scienzia­ti accettavano l’evoluzione, come processo graduale di autoformazio­ne, di cambiamento generale. Ma  Darwin dimostra che il cambia­mento avviene in modo diverso: al­cune cose cambiano e altre no, una cambia prima e una cambia dopo. Il processo non è graduale, la sele­zione naturale dipende dalle varia­zioni ereditarie e dall’ambiente».

Non poteva neanche contare sulla scienza del Dna.

«Anche oggi ci sono cose che la scienza non sa e che scopriremo in futuro. Al tempo di Darwin (morto nel 1882) non si era ancora trovato alcun ominide. Oggi ce ne sono mi­gliaia. Semmai si deve fare distin­zione fra cose che non sappiamo e cose che come scienziati non sa­premo mai. Per esempio, scienza e fede trattano di cose distinte. La scienza spiega i processi naturali con leggi naturali. La religione trat­ta invece del significato della vita e del nostro rapporto con Dio. La scienza non ha nulla da dire sulla creazione del mondo».

Scienza e fede, evoluzione e crea­zione sono compatibili fra loro?

«Come non pochi scienziati, riten­go conciliabili scienza e fede. Al’di­segno intelligente’, però, muovo un’obiezione: i seguaci di questo movimento considerano la crea­zione come un evento completo e già concluso, e con ciò finiscono per attribuire al Creatore i difetti del cor­po umano. La mandibola non è sufficientemente grande per i nostri denti, il canale attraverso il quale deve passare il bambino, nel momento in cui nasce, è troppo stret­to per la sua testa; il sistema ripro­duttivo umano non è perfetto, al punto che il 20% delle gravidanze si conclude in un aborto spontaneo nei primi due mesi».


I teologi descrivono la realtà come frutto di una «creatio continua».

«Dio sta creando continuamente, ma attraverso le leggi naturali. E Darwin e la teoria della selezione naturale non implicano materiali­smo metafisico, non negano l’esi­stenza di Dio, né i valori spirituali e morali».