Quattro secoli fa l’uomo, dopo aver ammirato il cielo stellato a occhio nudo, cominciò a scrutarlo con uno strumento: il cannocchiale. Scoprì da allora cose sorprendenti e meravigliose, molto al di là di quanto potesse immaginare. E nuove scoperte continuano a stupirci tuttora.
Galileo Galilei aveva avuto notizia della costruzione da parte di un fabbricante olandese di occhiali di un dispositivo formato da un tubo con due vetri curvi capace di ingrandire oggetti lontani, e, nell’estate dei 1609, pensò di utilizzarlo per scrutare il cielo. Così, nel Sidereus nuncius, scritto nel marzo 1610, Galileo racconta come venne a conoscenza del cannocchiale: «Circa dieci mesi fa giunse alle nostre orecchie la voce che da un certo fiammingo era stato realizzato un occhiale, per mezzo del quale gli oggetti visibili, pur lontanissimi dall’occhio dell’osservatore, si vedevano distintamente come fossero vicini; e di questo mirabile effetto si raccontavano alcune esperienze, alle quali alcuni prestavano fede e altri no. La stessa cosa mi fu confermata per lettera pochi giorni dopo da un nobile francese, Jacopo Badovere, da Parigi; il che infine fu il motivo che mi spinse a dedicarmi interamente a cercare le ragioni e a escogitare i mezzi con cui giungere all’invenzione di un simile strumento; invenzione che conseguii poco dopo basandomi sulla dottrina delle rifrazioni».
Galileo, quindi, dà ad altri il merito della fabbricazione del cannocchiale. In realtà la questione riguardante quella «primogenitura» è complessa e non ancora chiarita. Si sa, per esempio, che nel 1584, Giovanbattista della Porta, studioso napoletano, aveva parlato nel Magia naturalis di un possibile utilizzo delle lenti, dando una «ricetta» che sembra una previsione del cannocchiale: «Le lenti concave fanno vedere comodamente le cose lontane, quelle convesse le vicine. Se le componi opportunamente riuscirai a vedere bene sia le cose lontane che vicine». C’è inoltre la scoperta recente di una ricevuta di acquisto del 1590, da parte di un olandese, di uno strumento ottico, che pare un cannocchiale, realizzato a Firenze. Dopo quella data, comunque, a Middleburg, cittadina olandese di occhialai, cominciarono a comparire i primi cannocchiali che ingrandivano di 2-3 volte. Nel 1608 Hans Lippersheim e Zacharias Janssen, sempre in Olanda, fecero richiesta di brevetto del cannocchiale. Il brevetto fu loro rifiutato con la motivazione che strumenti del genere già esistevano. Intanto, però, la notizia dell’utilizzo di questo portentoso congegno si diffuse in Europa.
Galileo afferrò subito le potenzialità dello strumento. Trascorse una notte a riflettere e, avendo infine compreso il suo funzionamento, il giorno successivo ne costruì uno che faceva otto ingrandimenti. Allora insegnava a Padova. Nell’agosto del 1609 si recò a Venezia, dove diede dimostrazioni del suo cannocchiale, provocando , infinito stupore di tutti». Fu subito riconfermato nel suo posto di matematico a Padova con un consistente aumento di stipendio. Galileo però non era soddisfatto del suo strumento. La visione non era sufficientemente nitida. Passò più di tre mesi a migliorarlo. Arrivò a costruire un cannocchiale da venti ingrandimenti che usò per guardare le stelle. Ne vide molte che erano invisibili a occhio nudo. Riuscì così a risolvere la Via lattea in una miriade di stelline, confermando la congettura riferita da Aristotele due millenni prima. In seguito costruì altri cannocchiali più potenti.
Galileo racconta così la costruzione: «Prima di tutto mi procurai un tubo di piombo, alle cui estremità adattai due lenti, entrambe piane da un lato, dall’altro invece una convessa e l’altra concava; accostando poi l’occhio alla concava, scorsi gli oggetti abbastanza grandi e vicini». Prima della fine del 1609, col suo secondo cannocchiale, Galileo scoprì che sulla Luna mancavano totalmente le nubi e che la superficie era tormentata da crateri e picchi altissimi. Da quel momento fece una serie di scoperte astronomiche che gli diedero fama in tutta Europa.
Il 7 gennaio 1610 vide che Giove era in mezzo a tre stelline, curiosamente disposte in linea retta. Sottopose il pianeta ad attenta osservazione. Il numero di stelline, il 13, salì a quattro. Notò che si trovavano a volte da una parte, a volte dall’altra di Giove. Arrivò alla conclusione che dovevano essere satelliti, ruotanti attorno a Giove con orbite regolari. Espose queste scoperte nel Sidereus nuncius, un libricino di poche decine di pagine, scritto e pubblicato nei giro di qualche settimana. Poi continuò nella sua febbrile osservazione del cielo. Scoprì le fasi di Venere. Vide che Saturno aveva misteriose appendici, ossia era «tricorporeo» (si trattava della visione degli anelli che il suo cannocchiale non era in grado ancora di distinguere chiaramente). Si accorse anche che il Sole aveva macchie sulla superficie e dal loro spostamento dedusse che l’astro ruota su se stesso.
Johann Keplero, venuto a conoscenza attraverso il Sidereus nuncius del «tubo bilente», dapprima lo criticò, ma l’anno dopo suggerì un proprio modello con due lenti convergenti. Pubblicò nel 1611 il trattato Dioptrica, con una teoria delle lenti, come non era mai stata fatta, valida ancora oggi.
I cannocchiali di tipo galileiano, a obiettivo biconvesso e oculare biconcavo, vennero presto sostituiti da quelli di tipo kepleriano a obiettivo e oculare biconvessi, che, nonostante dessero un immagine rovesciata, erano più utili per utilizzo astronomico, poiché permettevano di raggiungere un più elevato ingrandimento e una definizione migliore delle immagini. Rimaneva, però, il principale difetto dei telescopi a lenti o cannocchiali rifrattori: l’aberrazione cromatica. Una lente singola concentra i raggi luminosi che la attraversano in punti diversi a seconda della loro lunghezza d’onda, quindi del loro colore: questo inconveniente porta al fatto che l’immagine fornita da uno di questi antichi telescopi era circondata da un arcobaleno e i particolari si vedevano a mala pena in un miscuglio indefinito di colori. C’era anche un altro difetto: l’aberrazione sferica, che determinava un’immagine oltre che non nitida anche distorta. Nello strumento di tipo kepleriano, in seguito, fu introdotta una terza lente per raddrizzare le immagini, però questo aumentava entrambi i tipi di aberrazione.
Cartesio, nel suo saggio sull’ottica, si occupò dell’aberrazione sferica: suggerì per eliminarla o almeno attenuarla di realizzare lenti non a curvatura sferica (allora impossibili da molare) o lenti a lunga focale. Queste ultime erano utili anche per limitare l’aberrazione cromatita. Allora cominciarono a essere costruiti telescopi dotati di lunghezza focale (cioè distanza tra obiettivo e oculare) sempre maggiore. Si arrivò quindi a dei «mostri» con obiettivi di distanza focale enorme, addirittura a «telescopi aerei» privi di tubo, con l’obiettivo fissato su una torre e l’oculare tenuto in mano dall’astronomo a terra. Nel 1647 Johannes Hevelius realizzò un primo telescopio a focale di 3,5 metri, valore che ben presto fu incrementato ai 7,5 metri, fino a raggiungere con Christiaan Huygens i cinquanta metri: la sua «montatura aerea», infatti, consisteva nel tendere un lungo filo su cui venivano centrati l’oculare e la lente primaria.
La difficoltà pratica di realizzazione e manovra di tali telescopi indusse, nel 1663, il matematico scozzese James Gregory a ideare uno strumento di diversa concezione. Il funzionamento essenzialmente era il seguente: un primo specchio concavo in fondo a un tubo raccoglieva la luce riflettendola poi su un secondo specchio concavo più piccolo, situato al centro del tubo, che rifletteva la luce di nuovo verso il primario, che, essendo dotato di un foro, la lasciava pervenire all’oculare. Il primo tentativo di realizzazione fallì, ma dimostrò la fattibilità di un telescopio riflettore.
Nel 1666, intanto, Isaac Newton, studiando un fascio di raggi solari passante attraverso un prisma di vetro, dimostrò che la luce bianca è costituita da uno spettro di colori, e arrivò alla conclusione che l’aberrazione cromatica era un difetto intrinseco dei telescopi a lenti e ineliminabile. Secondo lui, quindi, la sola via per migliorare il telescopio era quella di utilizzare specchi. Due anni più tardi, realizzò dunque il modello newtoniano dello strumento, avente uno specchio primario di forma sferica e uno secondario posizionato in modo da formare rispetto al primo un angolo di quarantacinque gradi, riflettendo la luce verso un oculare perleudicolare al tubo, evitando così di bogare lo specchio primario. Il passo seguente fu compiuto da Guillaume Cassegrain, insegnante al collegio di Chartres, che nel 1672 modificando il modello di Gregory, andò a sostituire il secondario, previsto in origine concavo, con un secondario convesso. Solo un secolo dopo si capì che questa modifica aiutava a evitare l’aberrazione sferica. Nei telescopi moderni la soluzione Cassegrain è molto usata.
Nel Sette-Ottocento furono costruiti telescopi newtoniani anche con un unico specchio curvo opportunamente inclinato, utili specialmente nello studio di oggetti deboli, per cui si richiedeva uno strumento di grande luminosità. I pregi di questo genere di strumento sono la maggiore facilità costruttiva, dovuta al fatto che vi è soltanto una superficie ottica (quella dello specchio) da lavorare e il vetro con cui è costruito lo specchio non deve essere assolutamente perfetto come richiesto per le tenti, ma basta che sia ben levigato ed esente da irregolarità sulla superficie. Questa caratteristica, oltre a un contenimento delle spese di produzione, rende possibile la produzione di obiettivi di maggior diametro. Maggiore è il diametro dell’obiettivo di un telescopio, maggiore sarà la quantità di luce raccolta dallo strumento e la capacità dello strumento di rendere visibili anche oggetti molto deboli. Lo schema ottico a riflessione ha però anche dei difetti: il più rilevante è la presenza all’interno del tubo ottico dello specchio secondario, che ostruendo parzialmente la luce che penetra nel telescopio, abbassa il contrasto delle immagini.
Newton, però, era stato eccessivamente pessimista nel pensare che il problema dell’aberrazione cromatica fosse insolubile con le lenti. Nel 1729 l’avvocato inglese Chester Hall escogitò un obiettivo acromatico combinando due vetri con proprietà di rifrazione diverse: una lente concava di vetro flint e una convessa di vetro crown. Hall non sfruttò l’idea commercialmente. A ciò pensò John Dollond, che brevettò il primo rifrattore acromatico, dopo averlo presentato alla Royal Society. A partire dal 1758 i primi telescopi acromatici dalla distanza focale di 1,5 metri furono messi in vendita dallo stesso Dollond, e da suo figlio Peter. I telescopi rifrattori, che erano stati soppiantati dai riflettori, guadagnarono di nuovo quota, ma non prevalsero.
Intanto continuavano i successi degli strumenti a specchio, per merito del tedesco Friedrich Herschel, che, trasferitosi ancora giovane in Inghilterra come musicista di banda a Bath, cominciò a dilettarsi per hobby di astronomia. Non avendo i soldi per comprare uno strumento, decise di costruirsene uno con un tubo e uno specchio concavo. La scarsa qualità di questo primo telescopio lo indusse a escogitare ogni sorta di miglioramenti, così in breve tempo diventò un abilissimo costruttore di strumenti astronomici, che produsse in gran numero. Riservò per sé i migliori. Fece grandi scoperte, come l’individuazione di Urano, il primo pianeta oltre Saturno.
Nella prima metà del 1800, Joseph Fraunhofer perfezionò le lenti acromatiche. Riuscì a eliminare l’aberrazione cromatica nelle immagini inserendo lenti di correzione. Da allora la produzione e l’uso dei telescopi rifrattori si diffusero rapidamente. Intanto si sviluppavano però telescopi riflettori con specchi sempre più larghi, le cui dimensioni erano frenate solo dal peso dello specchio e dalla dilatazione e contrazione termica del materiale al variare della temperatura. Noto è quello di Monte Palomar di cinque metri di diametro completato nel 1946.
Furono elaborate ulteriori configurazioni a riflessione, e nei primi anni del Novecento si giunse a quella di Schmidt ottenuta ponendo una lente al centro di curvatura dello specchio, al fine di eliminare l’aberrazione sferica; l’apparecchio di Schmidt inoltre consentiva di ottenere foto con tempi bassi di notevole luminosità e realizzate su un grande campo. Miglioramenti successivi hanno infine portato alla nascita di modelli misti, quali lo Schmidt-Cassegrain e il Maksutov-Cassegrain, che oggi riescono a soddisfare le esigenze di osservatori e astrofili.
I grandi telescopi moderni sono praticamente tutti a riflessione. Utilizzano specchi molto sottili con ottica adattiva, regolata da computer che cambiano la curvatura della superficie riflettente in tempo reale per sopperire alla turbolenza atmosferica. In futuro si passerà dagli attuali telescopi appartenenti alla classe dei sei-dieci metri di diametro a una nuova generazione di strumenti, caratterizzata da specchi anche di cinquanta-cento metri potenziati dalla perfetta integrazione dei sistemi di ottica adattiva. Sarà un salto qualitativo di portata storica, in grado di portare la scienza astronomica a traguardi oltre ogni immaginazione. Già c’è chi sogna la possibilità non solo di individuare pianeti di stazza terrestre in orbita intorno a remote stelle, ma di identificare su essi la presenza di acqua liquida, metano e ossigeno.
Tra i telescopi in programma c’è il Giant Magellan Telescope, della Harvard University, costituito da sette specchi da 8,4 metri ciascuno, per un diametro complessivo di 24,5 metri. Sarà istallato in Cile per il 2013, a centoquindici chilometri da La Serena. Dovrebbe poter cogliere la luce dei primi oggetti formatisi subito dopo il Big bang e osservare pianeti extrasolari. C’è anche un entusiasmante progetto europeo: l’Eurohean Extremely Large Telescope (Eelt), che probabilmente verrà collocato entro il 2017 nel deserto di Atacama. L’eccezionale strumento ottico avrà un’apertura di quarantadue metri, raggiunta mettendo insieme novecentosei specchi da 1,45 metri ciascuno, e consentirà addirittura lo studio dell’atmosfera di pianeti extrasolari.
Sono gli occhi per vedere meglio la straordinaria bellezza dell’universo.
Galileo Galilei aveva avuto notizia della costruzione da parte di un fabbricante olandese di occhiali di un dispositivo formato da un tubo con due vetri curvi capace di ingrandire oggetti lontani, e, nell’estate dei 1609, pensò di utilizzarlo per scrutare il cielo. Così, nel Sidereus nuncius, scritto nel marzo 1610, Galileo racconta come venne a conoscenza del cannocchiale: «Circa dieci mesi fa giunse alle nostre orecchie la voce che da un certo fiammingo era stato realizzato un occhiale, per mezzo del quale gli oggetti visibili, pur lontanissimi dall’occhio dell’osservatore, si vedevano distintamente come fossero vicini; e di questo mirabile effetto si raccontavano alcune esperienze, alle quali alcuni prestavano fede e altri no. La stessa cosa mi fu confermata per lettera pochi giorni dopo da un nobile francese, Jacopo Badovere, da Parigi; il che infine fu il motivo che mi spinse a dedicarmi interamente a cercare le ragioni e a escogitare i mezzi con cui giungere all’invenzione di un simile strumento; invenzione che conseguii poco dopo basandomi sulla dottrina delle rifrazioni».
Galileo, quindi, dà ad altri il merito della fabbricazione del cannocchiale. In realtà la questione riguardante quella «primogenitura» è complessa e non ancora chiarita. Si sa, per esempio, che nel 1584, Giovanbattista della Porta, studioso napoletano, aveva parlato nel Magia naturalis di un possibile utilizzo delle lenti, dando una «ricetta» che sembra una previsione del cannocchiale: «Le lenti concave fanno vedere comodamente le cose lontane, quelle convesse le vicine. Se le componi opportunamente riuscirai a vedere bene sia le cose lontane che vicine». C’è inoltre la scoperta recente di una ricevuta di acquisto del 1590, da parte di un olandese, di uno strumento ottico, che pare un cannocchiale, realizzato a Firenze. Dopo quella data, comunque, a Middleburg, cittadina olandese di occhialai, cominciarono a comparire i primi cannocchiali che ingrandivano di 2-3 volte. Nel 1608 Hans Lippersheim e Zacharias Janssen, sempre in Olanda, fecero richiesta di brevetto del cannocchiale. Il brevetto fu loro rifiutato con la motivazione che strumenti del genere già esistevano. Intanto, però, la notizia dell’utilizzo di questo portentoso congegno si diffuse in Europa.
Galileo afferrò subito le potenzialità dello strumento. Trascorse una notte a riflettere e, avendo infine compreso il suo funzionamento, il giorno successivo ne costruì uno che faceva otto ingrandimenti. Allora insegnava a Padova. Nell’agosto del 1609 si recò a Venezia, dove diede dimostrazioni del suo cannocchiale, provocando , infinito stupore di tutti». Fu subito riconfermato nel suo posto di matematico a Padova con un consistente aumento di stipendio. Galileo però non era soddisfatto del suo strumento. La visione non era sufficientemente nitida. Passò più di tre mesi a migliorarlo. Arrivò a costruire un cannocchiale da venti ingrandimenti che usò per guardare le stelle. Ne vide molte che erano invisibili a occhio nudo. Riuscì così a risolvere la Via lattea in una miriade di stelline, confermando la congettura riferita da Aristotele due millenni prima. In seguito costruì altri cannocchiali più potenti.
Galileo racconta così la costruzione: «Prima di tutto mi procurai un tubo di piombo, alle cui estremità adattai due lenti, entrambe piane da un lato, dall’altro invece una convessa e l’altra concava; accostando poi l’occhio alla concava, scorsi gli oggetti abbastanza grandi e vicini». Prima della fine del 1609, col suo secondo cannocchiale, Galileo scoprì che sulla Luna mancavano totalmente le nubi e che la superficie era tormentata da crateri e picchi altissimi. Da quel momento fece una serie di scoperte astronomiche che gli diedero fama in tutta Europa.
Il 7 gennaio 1610 vide che Giove era in mezzo a tre stelline, curiosamente disposte in linea retta. Sottopose il pianeta ad attenta osservazione. Il numero di stelline, il 13, salì a quattro. Notò che si trovavano a volte da una parte, a volte dall’altra di Giove. Arrivò alla conclusione che dovevano essere satelliti, ruotanti attorno a Giove con orbite regolari. Espose queste scoperte nel Sidereus nuncius, un libricino di poche decine di pagine, scritto e pubblicato nei giro di qualche settimana. Poi continuò nella sua febbrile osservazione del cielo. Scoprì le fasi di Venere. Vide che Saturno aveva misteriose appendici, ossia era «tricorporeo» (si trattava della visione degli anelli che il suo cannocchiale non era in grado ancora di distinguere chiaramente). Si accorse anche che il Sole aveva macchie sulla superficie e dal loro spostamento dedusse che l’astro ruota su se stesso.
Johann Keplero, venuto a conoscenza attraverso il Sidereus nuncius del «tubo bilente», dapprima lo criticò, ma l’anno dopo suggerì un proprio modello con due lenti convergenti. Pubblicò nel 1611 il trattato Dioptrica, con una teoria delle lenti, come non era mai stata fatta, valida ancora oggi.
I cannocchiali di tipo galileiano, a obiettivo biconvesso e oculare biconcavo, vennero presto sostituiti da quelli di tipo kepleriano a obiettivo e oculare biconvessi, che, nonostante dessero un immagine rovesciata, erano più utili per utilizzo astronomico, poiché permettevano di raggiungere un più elevato ingrandimento e una definizione migliore delle immagini. Rimaneva, però, il principale difetto dei telescopi a lenti o cannocchiali rifrattori: l’aberrazione cromatica. Una lente singola concentra i raggi luminosi che la attraversano in punti diversi a seconda della loro lunghezza d’onda, quindi del loro colore: questo inconveniente porta al fatto che l’immagine fornita da uno di questi antichi telescopi era circondata da un arcobaleno e i particolari si vedevano a mala pena in un miscuglio indefinito di colori. C’era anche un altro difetto: l’aberrazione sferica, che determinava un’immagine oltre che non nitida anche distorta. Nello strumento di tipo kepleriano, in seguito, fu introdotta una terza lente per raddrizzare le immagini, però questo aumentava entrambi i tipi di aberrazione.
Cartesio, nel suo saggio sull’ottica, si occupò dell’aberrazione sferica: suggerì per eliminarla o almeno attenuarla di realizzare lenti non a curvatura sferica (allora impossibili da molare) o lenti a lunga focale. Queste ultime erano utili anche per limitare l’aberrazione cromatita. Allora cominciarono a essere costruiti telescopi dotati di lunghezza focale (cioè distanza tra obiettivo e oculare) sempre maggiore. Si arrivò quindi a dei «mostri» con obiettivi di distanza focale enorme, addirittura a «telescopi aerei» privi di tubo, con l’obiettivo fissato su una torre e l’oculare tenuto in mano dall’astronomo a terra. Nel 1647 Johannes Hevelius realizzò un primo telescopio a focale di 3,5 metri, valore che ben presto fu incrementato ai 7,5 metri, fino a raggiungere con Christiaan Huygens i cinquanta metri: la sua «montatura aerea», infatti, consisteva nel tendere un lungo filo su cui venivano centrati l’oculare e la lente primaria.
La difficoltà pratica di realizzazione e manovra di tali telescopi indusse, nel 1663, il matematico scozzese James Gregory a ideare uno strumento di diversa concezione. Il funzionamento essenzialmente era il seguente: un primo specchio concavo in fondo a un tubo raccoglieva la luce riflettendola poi su un secondo specchio concavo più piccolo, situato al centro del tubo, che rifletteva la luce di nuovo verso il primario, che, essendo dotato di un foro, la lasciava pervenire all’oculare. Il primo tentativo di realizzazione fallì, ma dimostrò la fattibilità di un telescopio riflettore.
Nel 1666, intanto, Isaac Newton, studiando un fascio di raggi solari passante attraverso un prisma di vetro, dimostrò che la luce bianca è costituita da uno spettro di colori, e arrivò alla conclusione che l’aberrazione cromatica era un difetto intrinseco dei telescopi a lenti e ineliminabile. Secondo lui, quindi, la sola via per migliorare il telescopio era quella di utilizzare specchi. Due anni più tardi, realizzò dunque il modello newtoniano dello strumento, avente uno specchio primario di forma sferica e uno secondario posizionato in modo da formare rispetto al primo un angolo di quarantacinque gradi, riflettendo la luce verso un oculare perleudicolare al tubo, evitando così di bogare lo specchio primario. Il passo seguente fu compiuto da Guillaume Cassegrain, insegnante al collegio di Chartres, che nel 1672 modificando il modello di Gregory, andò a sostituire il secondario, previsto in origine concavo, con un secondario convesso. Solo un secolo dopo si capì che questa modifica aiutava a evitare l’aberrazione sferica. Nei telescopi moderni la soluzione Cassegrain è molto usata.
Nel Sette-Ottocento furono costruiti telescopi newtoniani anche con un unico specchio curvo opportunamente inclinato, utili specialmente nello studio di oggetti deboli, per cui si richiedeva uno strumento di grande luminosità. I pregi di questo genere di strumento sono la maggiore facilità costruttiva, dovuta al fatto che vi è soltanto una superficie ottica (quella dello specchio) da lavorare e il vetro con cui è costruito lo specchio non deve essere assolutamente perfetto come richiesto per le tenti, ma basta che sia ben levigato ed esente da irregolarità sulla superficie. Questa caratteristica, oltre a un contenimento delle spese di produzione, rende possibile la produzione di obiettivi di maggior diametro. Maggiore è il diametro dell’obiettivo di un telescopio, maggiore sarà la quantità di luce raccolta dallo strumento e la capacità dello strumento di rendere visibili anche oggetti molto deboli. Lo schema ottico a riflessione ha però anche dei difetti: il più rilevante è la presenza all’interno del tubo ottico dello specchio secondario, che ostruendo parzialmente la luce che penetra nel telescopio, abbassa il contrasto delle immagini.
Newton, però, era stato eccessivamente pessimista nel pensare che il problema dell’aberrazione cromatica fosse insolubile con le lenti. Nel 1729 l’avvocato inglese Chester Hall escogitò un obiettivo acromatico combinando due vetri con proprietà di rifrazione diverse: una lente concava di vetro flint e una convessa di vetro crown. Hall non sfruttò l’idea commercialmente. A ciò pensò John Dollond, che brevettò il primo rifrattore acromatico, dopo averlo presentato alla Royal Society. A partire dal 1758 i primi telescopi acromatici dalla distanza focale di 1,5 metri furono messi in vendita dallo stesso Dollond, e da suo figlio Peter. I telescopi rifrattori, che erano stati soppiantati dai riflettori, guadagnarono di nuovo quota, ma non prevalsero.
Intanto continuavano i successi degli strumenti a specchio, per merito del tedesco Friedrich Herschel, che, trasferitosi ancora giovane in Inghilterra come musicista di banda a Bath, cominciò a dilettarsi per hobby di astronomia. Non avendo i soldi per comprare uno strumento, decise di costruirsene uno con un tubo e uno specchio concavo. La scarsa qualità di questo primo telescopio lo indusse a escogitare ogni sorta di miglioramenti, così in breve tempo diventò un abilissimo costruttore di strumenti astronomici, che produsse in gran numero. Riservò per sé i migliori. Fece grandi scoperte, come l’individuazione di Urano, il primo pianeta oltre Saturno.
Nella prima metà del 1800, Joseph Fraunhofer perfezionò le lenti acromatiche. Riuscì a eliminare l’aberrazione cromatica nelle immagini inserendo lenti di correzione. Da allora la produzione e l’uso dei telescopi rifrattori si diffusero rapidamente. Intanto si sviluppavano però telescopi riflettori con specchi sempre più larghi, le cui dimensioni erano frenate solo dal peso dello specchio e dalla dilatazione e contrazione termica del materiale al variare della temperatura. Noto è quello di Monte Palomar di cinque metri di diametro completato nel 1946.
Furono elaborate ulteriori configurazioni a riflessione, e nei primi anni del Novecento si giunse a quella di Schmidt ottenuta ponendo una lente al centro di curvatura dello specchio, al fine di eliminare l’aberrazione sferica; l’apparecchio di Schmidt inoltre consentiva di ottenere foto con tempi bassi di notevole luminosità e realizzate su un grande campo. Miglioramenti successivi hanno infine portato alla nascita di modelli misti, quali lo Schmidt-Cassegrain e il Maksutov-Cassegrain, che oggi riescono a soddisfare le esigenze di osservatori e astrofili.
I grandi telescopi moderni sono praticamente tutti a riflessione. Utilizzano specchi molto sottili con ottica adattiva, regolata da computer che cambiano la curvatura della superficie riflettente in tempo reale per sopperire alla turbolenza atmosferica. In futuro si passerà dagli attuali telescopi appartenenti alla classe dei sei-dieci metri di diametro a una nuova generazione di strumenti, caratterizzata da specchi anche di cinquanta-cento metri potenziati dalla perfetta integrazione dei sistemi di ottica adattiva. Sarà un salto qualitativo di portata storica, in grado di portare la scienza astronomica a traguardi oltre ogni immaginazione. Già c’è chi sogna la possibilità non solo di individuare pianeti di stazza terrestre in orbita intorno a remote stelle, ma di identificare su essi la presenza di acqua liquida, metano e ossigeno.
Tra i telescopi in programma c’è il Giant Magellan Telescope, della Harvard University, costituito da sette specchi da 8,4 metri ciascuno, per un diametro complessivo di 24,5 metri. Sarà istallato in Cile per il 2013, a centoquindici chilometri da La Serena. Dovrebbe poter cogliere la luce dei primi oggetti formatisi subito dopo il Big bang e osservare pianeti extrasolari. C’è anche un entusiasmante progetto europeo: l’Eurohean Extremely Large Telescope (Eelt), che probabilmente verrà collocato entro il 2017 nel deserto di Atacama. L’eccezionale strumento ottico avrà un’apertura di quarantadue metri, raggiunta mettendo insieme novecentosei specchi da 1,45 metri ciascuno, e consentirà addirittura lo studio dell’atmosfera di pianeti extrasolari.
Sono gli occhi per vedere meglio la straordinaria bellezza dell’universo.