Nicola Cabibbo, 73 anni, insegna Fisica delle Particelle elementari presso l’Università di Roma «La Sapienza». È famoso all’interno della comunità scientifica soprattutto per i suoi studi sul «mescolamento dei quark», fenomeno che comporta l’esistenza di una nuova classe di costanti fisiche fondamentali, la prima delle quali in tutti i centri di ricerca del mondo è nota appunto come l’«angolo di Cabibbo». Una scoperta che ha fornito le basi per lo sviluppo di teorie unificate delle interazioni fondamentali tra le particelle subatomiche.
Per analizzare l’importanza degli articoli scientifici usciti nel corso dell’ultimo secolo, tre anni fa quattro ricercatori americani hanno preso un algoritmo simile a quello usato da Google per ordinare i propri risultati, e lo hanno applicato a tutti gli articoli usciti sull’autorevolissima Physical Review dal 1893 al 2003: in mezzo a circa 350 mila testi, al primo posto per «link», citazioni, riprese si è piazzato un articolo del 1963 in cui Cabibbo proponeva – appunto – l’introduzione dell’«angolo» per spiegare i cambiamenti di «sapore» dei quark durante le interazioni deboli, e che è dunque considerato dai suoi stessi colleghi come una pietra miliare della fisica del ’900.
Il professor Cabibbo nel 1979 ha ricevuto il Premio del Presidente della Repubblica italiana, dieci anni dopo il Premio Sakurai della American Physical Society, nel ’91 il Premio della Società Europea di Fisica. L’anno scorso una delusione cocente: il Nobel 2008 per la Fisica è stato assegnato ai giapponesi Kobayashi e Maskawa per lavori che sono la diretta conseguenza delle ricerche di Cabibbo degli anni ’60 e ’70. La sua esclusione ha lasciato sconcertata gran parte della comunità scientifica internazionale. Lui, molto signorilmente, sul mancato Nobel non ha detto parola: mentre mezzo mondo accademico insorgeva in sua difesa, non è uscita una sua intervista a commento. E anche oggi dice che si tratta di un «non evento » che preferisce non sottolineare. Certo, un brutto episodio per l’Accademia svedese, uno sgarro che sembra fatto apposta e che lascia la pessima impressione che una certa piega ideologica stia passando dai Nobel per la Letteratura – ormai molto «politicizzati » – anche al comparto scientifico: un’involuzione che sarebbe grave.
Cabibbo non si è occupato solo delle particelle subatomiche ma anche di nuovi materiali e di supercomputer. È stato presidente dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN) e dell’Enea. È uno dei cinque italiani accettati nella National Academy of Science degli Stati Uniti. Dal ’93 presiede la Pontificia Accademia delle Scienze. In quella veste, nel 2000, in occasione del Giubileo degli scienziati, davanti a Giovanni Paolo II ebbe a dire che «l’avanzamento delle capacità tecniche portato dalla scienza pone problemi di natura etica che potranno essere chiariti solo in un dialogo intenso e aperto tra scienza e religione ». Nicola Cabibbo non è solo un grande teorico e un geniale risolutore di problemi sperimentali pratici, con i quali ama – come dice lui – «giocare»: è anche lo scienziato che sa porre «grandi domande » alla fisica, sa chiedersi le ragioni dei meccanismi profondi di ciò che esiste. Domani sera sarà a Bergamo, al Centro congressi «Giovanni XXIII», per parlare di «Evoluzione & creazione». «Io – spiega – sono un fisico, non un biologo, dunque non sono propriamente un esperto di evoluzione. Credo però che sia importante fare un po’ di chiarezza, perché anche in ambito cattolico ogni tanto si fa una certa confusione: una cosa è l’evoluzione, un’altra l’evoluzionismo».
Ci spieghi.
«L’evoluzione è un’idea proposta da Darwin 150 anni fa, basata essenzialmente su due pilastri. Il primo è l’esistenza di mutazioni del nostro corredo genetico: la discendenza di una specie animale non è mai identica ai genitori; per varie ragioni, che Darwin non conosceva – e questo è un punto debole della sua teoria – intercorrono sempre piccoli cambiamenti. Il secondo pilastro è la selezione naturale: alcuni di questi cambiamenti mettono in campo caratteristiche “vincenti” rispetto allo stato dell’ambiente, agli altri esseri viventi in competizione; esse danno un vantaggio a certi individui che finiranno per procreare più facilmente, fornendo alla propria prole le stesse caratteristiche, che in qualche modo si “fissano” così all’interno di una popolazione animale. Darwin però non conosceva il meccanismo che governa queste mutazioni, semplicemente le osservava, notando ad esempio come gli allevatori siano in grado di cambiare le caratteristiche delle specie di cui si occupano attraverso la selezione di alcuni tratti desiderabili. Darwin sapeva che la mutazione è possibile, ma non perché avviene. Ci fu di mezzo il lavoro di Gregor Mendel ».
L’abate che studiava i piselli nell’orto del suo convento.
«Mendel ha chiarito che la trasmissione dei tratti ereditari segue determinate regole, e che queste rispondono a precise costanti statistiche. Dagli anni ’50 del ’900 poi, con la scoperta di Watson e Crick, si è cominciato a capire dove sono “scritti” i tratti che distinguono un vivente dall’altro: nel Dna. Oggi dunque quella dell’evoluzione non è più solo una teoria, ma un fatto: tramite l’analisi del Dna noi siamo sempre più in grado di tracciare la storia evolutiva delle specie che popolano la terra. La Teoria dell’evoluzione non è completa, ci sono meccanismi ancora non ben compresi: ad esempio pare che le mutazioni non siano solo “errori di trascrizione” del Dna, si sta studiando il fenomeno del trasferimento di materiale genetico da una specie all’altra tramite microbi e virus, che potrebbe essere un’altra importante sorgente di novità evolutive. Sui dettagli gli studi procedono, ma certo l’ossatura della Teoria dell’evoluzione è ormai sicura».
Una rete di relazioni lega in un’unica maglia tutti i viventi.
«Oggi sappiamo, ad esempio, che il nostro cervello umano è definito da alcuni geni, una parte dei quali li abbiamo in comune addirittura con le planarie, piccoli invertebrati acquatici molto elementari. Negli ultimi anni, grazie alla catalogazione dei genomi, stiamo iniziando a chiarire più nel dettaglio queste cose, le nostre conoscenze si sono molto arricchite e confermano tutte l’idea di Darwin: sull’evoluzione come tale ormai non ci sono più dubbi. Cosa diversa, invece, è l’evoluzionismo».
Ovvero?
«L’idea che, avendo scoperto che c’è stata e c’è l’evoluzione, Dio sia diventato un’ipotesi inutile».
Anzi, dannosa.
«Come scrive Richard Dawkins nel suo libro L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere. Questa però, naturalmente, non è una teoria scientifica ma un pensiero filosofico, ateo, di alcuni signori che in qualche modo si ispirano al progresso della scienza per sostenere determinate tesi. Questo “evoluzionismo” non è, e non può essere, scientificamente provato ».
In che rapporti è la scienza con la religione?
«La scienza non appartiene a una singola Chiesa: molti ricercatori non sono cattolici, molti non sono neppure cristiani né ebrei; pensiamo ai giapponesi, in gran parte legati alle loro tradizioni e alla loro sensibilità buddista o shintoista: sono degli ottimi scienziati. Mi sembra che oggi sia importante soprattutto per la Chiesa cattolica avere un’idea abbastanza chiara di dove la scienza sta andando. Gli ultimi Papi hanno voluto rinsaldare la tradizione di quella che anticamente era l’Accademia dei Lincei e oggi è la Pontificia Accademia delle Scienze che ho l’onore di presiedere. Non è l’unico ambito di riflessione, naturalmente: c’è anche la Specola vaticana, o l’Università cattolica ad esempio. È importante che le nuove ricerche vengano conosciute a fondo, anche per contrastare il rischio che si ricada in errori tipo quello del processo di Galileo, per non parlare del rogo di Giordano Bruno. La scienza sta progredendo, è un’esperienza meravigliosa che noi uomini stiamo facendo che porta man mano nuove importanti scoperte che, io credo, potranno essere utili anche al pensiero religioso ».
Pensa a una ricaduta sul piano teologico?
«Ci sono segnali molto positivi. Recentemente Papa Ratzinger, soprattutto all’Angelus del 21 dicembre e in occasione dell’Epifania, citando Galileo ha parlato della bellezza delle leggi della natura “che nel corso dei secoli tanti uomini e donne di scienza ci hanno fatto capire sempre meglio” come una fonte di ispirazione per lo stesso sguardo religioso. Passaggi interessanti».
Ci sono anche terreni su cui il dialogo è più difficile.
«Ogni tanto si nota una specie di timore. Probabilmente causato proprio dagli eccessi del pensiero ateo, che si sente inutilmente trionfante: mai, infatti, la scienza potrà stabilire se Dio esista o no. Non mi pare che ci sia molto da esultare a questo proposito: sono atteggiamenti che trovo del tutto ingiustificati e un po’ sciocchi».
Quale sarà, secondo lei, la «bomba atomica» del XXI secolo? Il maggior pericolo a cui ci espone la nuova scienza: la manipolazione del genoma?
«Io credo che sarà ancora la bomba atomica. Il vero, grossissimo pericolo che abbiamo di fronte è che si scatenino conflitti nucleari. Purtroppo con il tempo, con il fatto che certe tecnologie si sono diffuse e sono diventate meno costose, è diventato più probabile. Se pensiamo a cos’è stato negli Stati Uniti degli anni ’40 il gigantesco “progetto Manhattan” che ha portato all’atomica, e osserviamo che oggi un paese relativamente piccolo e relativamente povero come il Pakistan – per non parlare della Corea del Nord – è riuscito a dotarsi dell’arma nucleare, ci rendiamo conto che il pericolo sussiste, e purtroppo è molto grave».
In campo biologico la grande frontiera è quella dell’evoluzione. E nel suo?
«In fisica il tema centrale è la cosmologia, che oggi è in pieno sviluppo. L’universo non è statico ma in un certo senso si “evolve” anch’esso: è quasi fuorviante usare la stessa parola per fenomeni di scala così differente, eppure indubbiamente esiste anche un’”evoluzione cosmica”, una “storia” non solo dei viventi ma dell’universo nel suo complesso».
L’unificazione delle varie teorie fisiche si avvicina, o mancano ancora tasselli importanti?
«Mancano sicuramente. Una fase di unificazione è praticamente completa, anche se dovrà essere ancora messa a punto con il lavoro che si farà con l’acceleratore di Ginevra, ma ci sono ancora tante cose non capite: soprattutto il ruolo della forza di gravità nel campo delle particelle, studi che potrebbero avere decisive ricadute sui nostri modelli della nascita dell’universo. La gravità, scoperta da Newton, non è ancora incorporata nella teoria quantistica. Poi c’è tutto il problema della materia oscura: lì probabilmente ci saranno delle sorprese proprio dagli esperimenti del CERN».
Sta riacquistando importanza anche la fisica spaziale.
«È vero. In particolare c’è un gruppo romano, a Tor Vergata, che con l’esperimento “Pamela”, un piccolo satellite, negli ultimi anni ha scoperto radiazioni, raggi cosmici che potrebbero derivare dall’annichilazione di particelle di materia oscura. Il risultato è stato pubblicato ed è una delle grosse novità recenti. Lo spazio come “laboratorio” è importantissimo perché l’energia che possiamo mettere insieme in un acceleratore sotterraneo come l’LHC di Ginevra ha dei limiti. Anche se questo strumento ci dà valori molto più dettagliati, più precisi».
Oggi lei di cosa si sta occupando?
«La cosa che più mi incuriosisce è proprio la gravità quantistica. Non che stia facendo dei grossi passi avanti, sto studiando quello che si fa nel mondo e cerco di capire se si può tentare qualcosa di diverso. E sto ancora collaborando con un gruppo che lavora a Ginevra su esperimenti connessi alle mie vecchie teorie sul rimescolamento dei quark: in fondo io amo “giocare” con questi aspetti sperimentali».
Nella scienza sofisticatissima di oggi c’è ancora spazio per giocare?
«Assolutamente. Queste macchine sono meravigliose: io, devo ammetterlo, mi diverto moltissimo».