di Massimo Robberto.
Alcuni giorni fa sono sceso alla mensa dello Space Telescope Science Institute per prendere un “Grande Non-Fat Latte”, oramai il mio beverone americano preferito, mezzo litro di latte magro con dentro quattro espressi. Nel salone semideserto ho notato a un tavolo tre colleghi, Adam Riess, Mario Livio e Mike Hauser, intenti a discutere. Si tratta, diciamolo subito, di tre personaggi di un certo calibro. Adam Riess è quello che ha scoperto l’accelerazione dell’universo e quindi l’enigmatica “energia oscura” che costituisce il più grande mistero scientifico di questo ultimo decennio. Probabilmente prenderà il Nobel per questo. Mario Livio è un eminente astrofisico teorico, e oltre ad avere un record mostruoso di pubblicazioni e citazioni, scrive a tempo perso best seller tradotti in tutto il mondo. Mike Hauser, il nostro vicedirettore, è stato il responsabile di uno dei tre strumenti che hanno volato sul satellite COBE per mappare la radiazione cosmica di fondo, la luce primordiale emessa poco dopo il Big Bang. Lui il premio Nobel non lo ha preso perché lo hanno dato solo ai responsabili degli altri due strumenti, John Mather e George Smoot. Chiamatela sfortuna, ma insomma, siamo a quei livelli.
La cosa che mi ha colpito del terzetto era il loro atteggiamento. Adam aveva dei fogli tra le mani e gesticolava. Gli altri due lo guardavano con gli occhi sgranati e la bocca aperta, annuendo ogni tanto. La evidente eccitazione mi ha ricordato, permettetemi il paragone, una scena caravaggesca, resa ancora più incredibile dalla altrimenti abituale compostezza soprattutto di Mario e Mike, che hanno passato i 60, ne hanno viste tante e non sono tipi da eccitarsi facilmente quando qualcuno ha una storia da raccontare.
Mi sono quindi avvicinato col mio tazzone in mano, “quarto tra cotanto senno”, dicendo apertamente che non potevo resistere alla curiosità di sapere cosa stava succedendo, che cosa stessero guardando di così stupefacente. Pazientemente, Adam ha girato i fogli da capo mentre gli altri due, per niente seccati, lo incoraggiavano come se dicessero: “vai, raccontacela di nuovo!”. In effetti, si tratta di una cosa veramente sorprendente.
Nel 1572, esattamente il giorno 11 novembre, una nuova stella apparve nella costellazione di Cassiopea. In pochi giorni la stella diventò brillante come Venere, visibile anche di giorno, ma presto iniziò a indebolirsi scomparendo dalla vista dopo poco più di un anno. Il più grande astronomo del tempo, Tycho Brahe, stabilì che la stella non si muoveva rispetto alle altre, quindi non era uno dei pianeti ma apparteneva alla sfera delle stelle fisse, supposte con Aristotele e Tolomeo perfetta e immutabile. Per l’epoca, una scoperta traumatica.
Tycho Brahe aveva osservato quello che oggi chiamiamo una supernova. Le supernove rappresentano il più formidabile evento catastrofico nella astrofisica stellare, l’esplosione finale di una stella. La quantità di energia emessa nell’esplosione è confrontabile con quella emessa da tutte le stelle di una galassia, circa cento miliardi di soli. Essendo così brillanti, le supernove possono essere rivelate fino a distanze enormi, confrontabili con la dimensione dell’universo che possiamo osservare. Ma quelle vicine sono anche estremamente rare (diciamoci la verità, per fortuna!). Caso vuole che pochi anni dopo, nel 1604, l’allievo di Tycho, Keplero, ne scoprisse un’altra. Dopo queste due, più niente per più di 400 anni. Aspettiamo ancora.
Diciamo anche che ci sono due tipi diversi di supernove: di tipo I e di tipo II. Quelle di tipo II sono prodotte dalle stelle supergiganti, che vivono una vita breve e intensa, specie di cosmiche James Dean. Le altre, di tipo I, hanno origini più modeste. Immaginate due stelle come il Sole ma vicine fin quasi a toccarsi, in orbita una attorno all’altra. Nel corso della loro vita si scambiano materiale l’una con l’altra finché, a un certo punto, una si spoglia quasi completamente mantenendo soltano il suo “nocciolo duro” mentre l’altra si gonfia enormemente. Tecnicamente, la prima è una “nana bianca”, la seconda una “gigante rossa”. La gigante vuole restituire materiale alla compagna. Ma una nana bianca non può accettarne più di tanto: superata una certa soglia diventa instabile ed esplode catastroficamente.
Supernove di questo tipo, che più che a James Dean potremmo assimilare a una mediocre crisi di coppia, emettono comunque ancora più energia delle tipo II. Ma il motivo per cui sono particolarmente importanti è che le tipo I sono esplosioni più o meno tutte uguali, cioè rilasciano la stessa quantità di energia (sorvolo sui dettagli). Quindi rappresentano indicatori di distanza fondamentali: se so quanta luce viene emessa e misuro quanta me ne arriva, trovo la distanza. È proprio usando questo metodo che Adam Riess e compagni hanno scoperto che qualcosa non va nel modo con cui l’universo si espande, cioè che sta accelerando.
Che tipo di supernova era quella di Keplero? Purtroppo non lo sappiamo. La sua luce giunse a noi pochi anni prima della scoperta del telescopio astronomico da parte di Galileo, nel 1609 (ricorre proprio questo anno il 400mo anniversario). Dovevano passare altri tre secoli prima che imparassimo a studiare la luce dei corpi celesti attraverso la spettroscopia, alla fine dell’800. La supernova di Keplero esplose dunque troppo presto, la civiltà non si era ancora sviluppata per poterla studiarle. Ed è un peccato, perché sarebbe fondamentale per noi oggi poter misurare con estrema precisione una supernova vicina, soprattutto se di tipo I, per poter comprendere meglio le esplosioni che avvengono nei più remoti angoli dell’universo e di cui arrivano solo deboli segnali.
In realtà, la luce emessa dalla supernova di Tycho si propagò come un’onda per tutto lo spazio. A seconda della direzione, sul suo cammino ha incontrato altri corpi celesti, altre stelle e nebulose. Ed ecco l’imprevisto: una di queste anonime nubi di gas e polveri, raggiunta a un certo momento dall’effimero lampo di luce si è illuminata, riflettendo a sua volta il flash della supernova e inviando quindi un tardivo segnale riflesso anche alla Terra. È quello che gli astronomi chiamano una “eco di luce”. Il ritardo di questa eco e’ stato di circa 400 anni. Quattro secoli che ci hanno permesso di inventare il telescopio, l’astrofisica, eccetera. Così, il 24 settembre del 2008 un gruppo di astronomi tedeschi e giapponesi hanno potuto osservare dalle Hawaii l’eco della supernova di Tycho e prenderne lo spettro: si tratta proprio di uno spettacolare spettro di una supernova di tipo I, finalmente!
La natura, possiamo dire, ha avuto pazienza con noi, compensando il nostro ritardo e dandoci una nuova chance. La realtà è generosa. Questo non sminuisce il fatto che bisogna essere scienziati brillanti per andare a cercare queste cose, per farsi “trovare pronti”. C’è in questo episodio un po’ tutta la dinamica della avventura della scoperta scientifica. Ma continuo in questi giorni a ripensare soprattutto ai volti stupefatti dei miei tre amici che riescono solo a ripetersi “amazing!”, al nostro successivo discorrere intuendo che l’universo in ogni angolo riverbera una fioca eco di tutte le luci apparse nel suo passato, e a questa evidenza che il grande mistero della realtà abbia – letteralmente – la bontà di svelarsi e di non saziarci mai, come un vero amante. Queste sono cose bellissime. E noi siamo dei privilegiati, perché è bello diventare grandi e cominciare un altro anno – che sarà celebrato come Anno Mondiale dell’Astronomia – sempre più capaci di stupirsi ancora.
La cosa che mi ha colpito del terzetto era il loro atteggiamento. Adam aveva dei fogli tra le mani e gesticolava. Gli altri due lo guardavano con gli occhi sgranati e la bocca aperta, annuendo ogni tanto. La evidente eccitazione mi ha ricordato, permettetemi il paragone, una scena caravaggesca, resa ancora più incredibile dalla altrimenti abituale compostezza soprattutto di Mario e Mike, che hanno passato i 60, ne hanno viste tante e non sono tipi da eccitarsi facilmente quando qualcuno ha una storia da raccontare.
Mi sono quindi avvicinato col mio tazzone in mano, “quarto tra cotanto senno”, dicendo apertamente che non potevo resistere alla curiosità di sapere cosa stava succedendo, che cosa stessero guardando di così stupefacente. Pazientemente, Adam ha girato i fogli da capo mentre gli altri due, per niente seccati, lo incoraggiavano come se dicessero: “vai, raccontacela di nuovo!”. In effetti, si tratta di una cosa veramente sorprendente.
Nel 1572, esattamente il giorno 11 novembre, una nuova stella apparve nella costellazione di Cassiopea. In pochi giorni la stella diventò brillante come Venere, visibile anche di giorno, ma presto iniziò a indebolirsi scomparendo dalla vista dopo poco più di un anno. Il più grande astronomo del tempo, Tycho Brahe, stabilì che la stella non si muoveva rispetto alle altre, quindi non era uno dei pianeti ma apparteneva alla sfera delle stelle fisse, supposte con Aristotele e Tolomeo perfetta e immutabile. Per l’epoca, una scoperta traumatica.
Tycho Brahe aveva osservato quello che oggi chiamiamo una supernova. Le supernove rappresentano il più formidabile evento catastrofico nella astrofisica stellare, l’esplosione finale di una stella. La quantità di energia emessa nell’esplosione è confrontabile con quella emessa da tutte le stelle di una galassia, circa cento miliardi di soli. Essendo così brillanti, le supernove possono essere rivelate fino a distanze enormi, confrontabili con la dimensione dell’universo che possiamo osservare. Ma quelle vicine sono anche estremamente rare (diciamoci la verità, per fortuna!). Caso vuole che pochi anni dopo, nel 1604, l’allievo di Tycho, Keplero, ne scoprisse un’altra. Dopo queste due, più niente per più di 400 anni. Aspettiamo ancora.
Diciamo anche che ci sono due tipi diversi di supernove: di tipo I e di tipo II. Quelle di tipo II sono prodotte dalle stelle supergiganti, che vivono una vita breve e intensa, specie di cosmiche James Dean. Le altre, di tipo I, hanno origini più modeste. Immaginate due stelle come il Sole ma vicine fin quasi a toccarsi, in orbita una attorno all’altra. Nel corso della loro vita si scambiano materiale l’una con l’altra finché, a un certo punto, una si spoglia quasi completamente mantenendo soltano il suo “nocciolo duro” mentre l’altra si gonfia enormemente. Tecnicamente, la prima è una “nana bianca”, la seconda una “gigante rossa”. La gigante vuole restituire materiale alla compagna. Ma una nana bianca non può accettarne più di tanto: superata una certa soglia diventa instabile ed esplode catastroficamente.
Supernove di questo tipo, che più che a James Dean potremmo assimilare a una mediocre crisi di coppia, emettono comunque ancora più energia delle tipo II. Ma il motivo per cui sono particolarmente importanti è che le tipo I sono esplosioni più o meno tutte uguali, cioè rilasciano la stessa quantità di energia (sorvolo sui dettagli). Quindi rappresentano indicatori di distanza fondamentali: se so quanta luce viene emessa e misuro quanta me ne arriva, trovo la distanza. È proprio usando questo metodo che Adam Riess e compagni hanno scoperto che qualcosa non va nel modo con cui l’universo si espande, cioè che sta accelerando.
Che tipo di supernova era quella di Keplero? Purtroppo non lo sappiamo. La sua luce giunse a noi pochi anni prima della scoperta del telescopio astronomico da parte di Galileo, nel 1609 (ricorre proprio questo anno il 400mo anniversario). Dovevano passare altri tre secoli prima che imparassimo a studiare la luce dei corpi celesti attraverso la spettroscopia, alla fine dell’800. La supernova di Keplero esplose dunque troppo presto, la civiltà non si era ancora sviluppata per poterla studiarle. Ed è un peccato, perché sarebbe fondamentale per noi oggi poter misurare con estrema precisione una supernova vicina, soprattutto se di tipo I, per poter comprendere meglio le esplosioni che avvengono nei più remoti angoli dell’universo e di cui arrivano solo deboli segnali.
In realtà, la luce emessa dalla supernova di Tycho si propagò come un’onda per tutto lo spazio. A seconda della direzione, sul suo cammino ha incontrato altri corpi celesti, altre stelle e nebulose. Ed ecco l’imprevisto: una di queste anonime nubi di gas e polveri, raggiunta a un certo momento dall’effimero lampo di luce si è illuminata, riflettendo a sua volta il flash della supernova e inviando quindi un tardivo segnale riflesso anche alla Terra. È quello che gli astronomi chiamano una “eco di luce”. Il ritardo di questa eco e’ stato di circa 400 anni. Quattro secoli che ci hanno permesso di inventare il telescopio, l’astrofisica, eccetera. Così, il 24 settembre del 2008 un gruppo di astronomi tedeschi e giapponesi hanno potuto osservare dalle Hawaii l’eco della supernova di Tycho e prenderne lo spettro: si tratta proprio di uno spettacolare spettro di una supernova di tipo I, finalmente!
La natura, possiamo dire, ha avuto pazienza con noi, compensando il nostro ritardo e dandoci una nuova chance. La realtà è generosa. Questo non sminuisce il fatto che bisogna essere scienziati brillanti per andare a cercare queste cose, per farsi “trovare pronti”. C’è in questo episodio un po’ tutta la dinamica della avventura della scoperta scientifica. Ma continuo in questi giorni a ripensare soprattutto ai volti stupefatti dei miei tre amici che riescono solo a ripetersi “amazing!”, al nostro successivo discorrere intuendo che l’universo in ogni angolo riverbera una fioca eco di tutte le luci apparse nel suo passato, e a questa evidenza che il grande mistero della realtà abbia – letteralmente – la bontà di svelarsi e di non saziarci mai, come un vero amante. Queste sono cose bellissime. E noi siamo dei privilegiati, perché è bello diventare grandi e cominciare un altro anno – che sarà celebrato come Anno Mondiale dell’Astronomia – sempre più capaci di stupirsi ancora.