Wallace Broecker, La Stampa, Tuttoscienze, 10 dicembre 2008
Verso la metà degli Anni 80, due mie linee di ricerca si sono improvvisamente incrociate. Una riguardava la determinazione della velocità di «ossigenazione» dell’ambiente oceanico attraverso la formazione di acque profonde e l’altra riguardava la ricostruzione del clima terrestre degli ultimi 100 mila anni.
Questa «collisione» è avvenuta quando mi sono reso conto che le grandi e improvvise variazioni di temperatura registrate nelle carote di ghiaccio della Groenlandia potevano essere spiegate da un fenomeno di attivazione e disattivazione della formazione delle acque profonde nella parte settentrionale dell’Atlantico. Una volta formate, queste acque profonde scorrevano per tutto l’oceano, giravano attorno alla punta dell’Africa e confluivano nella corrente circumantartica. Da lì penetravano nelle profondità dell’Oceano Indiano e dell’Oceano Pacifico per poi risalire in superficie. Completavano il circuito globale rifluendo nell’ Atlantico.
Stando così le cose, l’alterazione da me ipotizzata ha portato a una riorganizzazione del funzionamento dell’oceano e di conseguenza anche a grandi cambiamenti a livello atmosferico.
È stata, questa, una sorta di quantizzazione del clima della Terra. Si disattiva la produzione di acque profonde nell’Atlantico settentrionale e il clima passa di colpo da una modalità di funzionamento a un’altra. Questa era un’idea rivoluzionaria ed è occorso tempo perché prendesse piede. Una volta accettata, però, molti dati a suo sostegno sono arrivati dalla paleoclimatologia e dai modelli climatologici. È emerso che sbalzi di temperatura equivalenti a quelli della Groenlandia erano presenti nelle registrazioni climatiche dell’emisfero settentrionale e ai Tropici.
Pur se ridotte nell’emisfero Sud, le registrazioni delle carote di ghiaccio dell’Antartico mostravano una situazione di antifase rispetto a quelle dell’emisfero Nord. Questo ha portato al concetto di un’oscillazione bipolare del funzionamento dell’oceano. Le interruzioni della formazione di acque profonde nell’Atlantico settentrionale erano apparentemente compensate da un’aumentata formazione di acque profonde nella parte Sud.
È occorso tempo per capire come la riorganizzazione della circolazione oceanica possa aver influito in modo tanto profondo sul clima. La risposta è arrivata quando John Chiang, dell’Università di Berkeley, ha mostrato che la presenza di una copertura più vasta dei ghiacci marini nell’Atlantico del Nord poteva essere responsabile del fenomeno: il ghiaccio non solo impediva la dispersione del calore nell’atmosfera, ma rifletteva la luce del Sole. Avrebbero così avuto origine inverni di tipo siberiano in Canada e nell’Europa del Nord. Chiang ha mostrato che il fenomeno avrebbe anche spinto verso Sud l’equatore termico e la fascia umida, spiegando gli effetti registrati ai Tropici.
Inizialmente ero preoccupato del fatto che il riscaldamento causato dalla CO2 prodotta dai combustibili fossili portasse a una ripetizione dell’ arresto delle acque profonde. Tuttavia non ci sono elementi a favore di un’improvvisa inondazione di acqua dolce. Inoltre, molti modelli hanno mostrato che il previsto aumento delle piogge e del deflusso fluviale darebbero luogo solo a un rallentamento e non a un improvviso arresto del fenomeno. Ad ogni modo, ora che è chiaro che l’andamento del clima può essere soggetto a improvvisi mutamenti non possiamo scartare la possibilità di future sorprese.
Nel 2002 ricevetti una lettera che rivelatrice. Era di Gary Comer, un signore che mi chiedeva consiglio. Spiegava che nell’estate precedente era riuscito a navigare con il suo «Turmoil», uno yacht di 50 metri, attraverso il Passaggio a Nord-Ovest, dalla Groenlandia al Mare di Bering. Essendo stato il primo a realizzare questa impresa, si chiedeva se il riscaldamento globale stesse già influendo sull’Artico. Una settimana dopo, si presentò alla Columbia University con molte domande. Suppongo che le mie risposte lo abbiano soddisfatto, perché prese sotto la sua protezione me e anche alcuni miei amici impegnati nello studio dei cambiamenti climatici. Non solo ci aiutò economicamente, ma ci mise a disposizione i mezzi per raggiungere luoghi per noi altrimenti inaccessibili. Così facendo, creò una squadra di scienziati che, a due anni dalla sua scomparsa, continuano a lavorare in stretta collaborazione.
La missione di Comer si è spinta oltre la sua partecipazione attiva alla nostra ricerca. Era molto preoccupato delle conseguenze del riscaldamento globale e riteneva che tutte le scoperte su quanto il sistema climatico sia sensibile anche a piccole sollecitazioni sarebbero servite da «allerta» sulle conseguenze di tutta la CO2 che produciamo.
Ho in mente un esempio. Klaus Lackner, un collega alla Columbia University, è stato il primo a capire che le correnti d’aria utilizzate per far funzionare gli impianti eolici si sarebbero potute sfruttare anche per eliminare l’anidride carbonica dall’atmosfera. Una volta elaborata l’idea, mi sono reso conto che Klaus aveva trovato una soluzione che sarebbe stata non solo l’elemento- chiave di qualsiasi strategia per contenere l’aumento di CO2, ma che sarebbe diventata anche l’unico modo per diminuirla, una volta stabilizzati i valori. Per questo motivo ho convinto Gary Comer a investire nello sviluppo di un dispositivo in grado di catturare la CO2 in modo economico, nonostante le preoccupazioni dei suoi consulenti finanziari, che ritenevano il progetto troppo rischioso.Ora, dopo cinque anni, la General Research Technologies, alimentata dal genio di Lackner, promette un prototipo che sarà disponibile sul mercato entro due anni.
In conclusione, ho tratto grande piacere dai miei 56 anni da scienziato e l’Osservatorio della Columbia University è il mio paradiso. Ora intendo impiegare il denaro del Premio Balzan per nuove ricerche che consentano di usare i dati paleoclimatici come guida per il futuro.* Professore di geologia alla Columbia University e ricercatore all’osservatorio terrestre Lamont-Doherty
Verso la metà degli Anni 80, due mie linee di ricerca si sono improvvisamente incrociate. Una riguardava la determinazione della velocità di «ossigenazione» dell’ambiente oceanico attraverso la formazione di acque profonde e l’altra riguardava la ricostruzione del clima terrestre degli ultimi 100 mila anni.
Questa «collisione» è avvenuta quando mi sono reso conto che le grandi e improvvise variazioni di temperatura registrate nelle carote di ghiaccio della Groenlandia potevano essere spiegate da un fenomeno di attivazione e disattivazione della formazione delle acque profonde nella parte settentrionale dell’Atlantico. Una volta formate, queste acque profonde scorrevano per tutto l’oceano, giravano attorno alla punta dell’Africa e confluivano nella corrente circumantartica. Da lì penetravano nelle profondità dell’Oceano Indiano e dell’Oceano Pacifico per poi risalire in superficie. Completavano il circuito globale rifluendo nell’ Atlantico.
Stando così le cose, l’alterazione da me ipotizzata ha portato a una riorganizzazione del funzionamento dell’oceano e di conseguenza anche a grandi cambiamenti a livello atmosferico.
È stata, questa, una sorta di quantizzazione del clima della Terra. Si disattiva la produzione di acque profonde nell’Atlantico settentrionale e il clima passa di colpo da una modalità di funzionamento a un’altra. Questa era un’idea rivoluzionaria ed è occorso tempo perché prendesse piede. Una volta accettata, però, molti dati a suo sostegno sono arrivati dalla paleoclimatologia e dai modelli climatologici. È emerso che sbalzi di temperatura equivalenti a quelli della Groenlandia erano presenti nelle registrazioni climatiche dell’emisfero settentrionale e ai Tropici.
Pur se ridotte nell’emisfero Sud, le registrazioni delle carote di ghiaccio dell’Antartico mostravano una situazione di antifase rispetto a quelle dell’emisfero Nord. Questo ha portato al concetto di un’oscillazione bipolare del funzionamento dell’oceano. Le interruzioni della formazione di acque profonde nell’Atlantico settentrionale erano apparentemente compensate da un’aumentata formazione di acque profonde nella parte Sud.
È occorso tempo per capire come la riorganizzazione della circolazione oceanica possa aver influito in modo tanto profondo sul clima. La risposta è arrivata quando John Chiang, dell’Università di Berkeley, ha mostrato che la presenza di una copertura più vasta dei ghiacci marini nell’Atlantico del Nord poteva essere responsabile del fenomeno: il ghiaccio non solo impediva la dispersione del calore nell’atmosfera, ma rifletteva la luce del Sole. Avrebbero così avuto origine inverni di tipo siberiano in Canada e nell’Europa del Nord. Chiang ha mostrato che il fenomeno avrebbe anche spinto verso Sud l’equatore termico e la fascia umida, spiegando gli effetti registrati ai Tropici.
Inizialmente ero preoccupato del fatto che il riscaldamento causato dalla CO2 prodotta dai combustibili fossili portasse a una ripetizione dell’ arresto delle acque profonde. Tuttavia non ci sono elementi a favore di un’improvvisa inondazione di acqua dolce. Inoltre, molti modelli hanno mostrato che il previsto aumento delle piogge e del deflusso fluviale darebbero luogo solo a un rallentamento e non a un improvviso arresto del fenomeno. Ad ogni modo, ora che è chiaro che l’andamento del clima può essere soggetto a improvvisi mutamenti non possiamo scartare la possibilità di future sorprese.
Nel 2002 ricevetti una lettera che rivelatrice. Era di Gary Comer, un signore che mi chiedeva consiglio. Spiegava che nell’estate precedente era riuscito a navigare con il suo «Turmoil», uno yacht di 50 metri, attraverso il Passaggio a Nord-Ovest, dalla Groenlandia al Mare di Bering. Essendo stato il primo a realizzare questa impresa, si chiedeva se il riscaldamento globale stesse già influendo sull’Artico. Una settimana dopo, si presentò alla Columbia University con molte domande. Suppongo che le mie risposte lo abbiano soddisfatto, perché prese sotto la sua protezione me e anche alcuni miei amici impegnati nello studio dei cambiamenti climatici. Non solo ci aiutò economicamente, ma ci mise a disposizione i mezzi per raggiungere luoghi per noi altrimenti inaccessibili. Così facendo, creò una squadra di scienziati che, a due anni dalla sua scomparsa, continuano a lavorare in stretta collaborazione.
La missione di Comer si è spinta oltre la sua partecipazione attiva alla nostra ricerca. Era molto preoccupato delle conseguenze del riscaldamento globale e riteneva che tutte le scoperte su quanto il sistema climatico sia sensibile anche a piccole sollecitazioni sarebbero servite da «allerta» sulle conseguenze di tutta la CO2 che produciamo.
Ho in mente un esempio. Klaus Lackner, un collega alla Columbia University, è stato il primo a capire che le correnti d’aria utilizzate per far funzionare gli impianti eolici si sarebbero potute sfruttare anche per eliminare l’anidride carbonica dall’atmosfera. Una volta elaborata l’idea, mi sono reso conto che Klaus aveva trovato una soluzione che sarebbe stata non solo l’elemento- chiave di qualsiasi strategia per contenere l’aumento di CO2, ma che sarebbe diventata anche l’unico modo per diminuirla, una volta stabilizzati i valori. Per questo motivo ho convinto Gary Comer a investire nello sviluppo di un dispositivo in grado di catturare la CO2 in modo economico, nonostante le preoccupazioni dei suoi consulenti finanziari, che ritenevano il progetto troppo rischioso.Ora, dopo cinque anni, la General Research Technologies, alimentata dal genio di Lackner, promette un prototipo che sarà disponibile sul mercato entro due anni.
In conclusione, ho tratto grande piacere dai miei 56 anni da scienziato e l’Osservatorio della Columbia University è il mio paradiso. Ora intendo impiegare il denaro del Premio Balzan per nuove ricerche che consentano di usare i dati paleoclimatici come guida per il futuro.* Professore di geologia alla Columbia University e ricercatore all’osservatorio terrestre Lamont-Doherty