Il Comune di Milano sta tappezzando in questi giorni la città di manifesti che pubblicizzano in grande stile l’inizio, anche nella metropoli lombarda, del bike-sharing, un servizio, peraltro già da tempo fornito in altre città italiane e straniere, che metterà a disposizione dei cittadini migliaia di biciclette a noleggio. La campagna pubblicitaria è basata su uno slogan, un po’ canzonatorio nei confronti degli automobilisti, “Hai voluto l’automobile ora pedala”, che dà una certa soddisfazione a chi, come noi, non ha mai smesso di rischiare ostinatamente la pelle, e i polmoni, pedalando per le strade cittadine, pur apprezzando senza riserve le libertà e le comodità che le automobili, soprattutto fuori città, ci consentono. Ma nel momento in cui ci sorge spontaneo l’ augurio di pieno successo a questa iniziativa comunale, ed alle altre che seguiranno in analoghe direzioni, non possiamo fare a meno di cogliere l’occasione per qualche riflessione più in generale sulla grave “schiavitù” nella quale le automobili, con la loro pervasiva presenza, ci hanno fatto cadere.
Non c’è bisogno di citare noiose statistiche per dimostrare quanto grande sia il ruolo che le automobili, o più in generale i mezzi di trasporto, hanno progressivamente acquisito nel nostro vivere quotidiano e nell’economia. Le automobili non sono infatti solamente il motore della “mobilità” personale, ma anche uno dei fondamentali motori dell’economia globale, e se immaginiamo di rimuovere magicamente dalle strade del mondo anche solo una parte dei veicoli in circolazione, dobbiamo essere consapevoli che nel momento in cui cominceremmo a godere di più spazio, di più silenzio, di aria più pulita, di meno stress da traffico, si aprirebbe immediatamente un problema economico di dimensioni colossali, probabilmente in grado di sconvolgere completamente gli equilibri planetari. Milioni di posti di lavoro verrebbero persi non solo nelle fabbriche di automobili, pneumatici, accessori, ma anche nelle raffinerie di petrolio, nelle acciaierie, nelle imprese di costruzioni stradali, nelle officine di manutenzione, nelle compagnie di assicurazioni, eccetera. Gli stessi Stati vedrebbero una drastica riduzione delle loro entrate derivanti dalle imposte sui carburanti e dalle altre numerose tasse che attingono dal comparto automobilistico; diminuirebbero anche gli addetti a controlli, omologazioni, traffico e così via.
La magia non è ovviamente possibile, ma questo “esperimento mentale” serve a darci un’idea del perché ogni minima crisi del mercato dell’automobile susciti immediato allarme nella cosiddetta opinione pubblica e nei governi, che in genere si affrettano a varare disposizioni correttive o di sostegno (se ne discute anche in questi giorni a livello italiano ed europeo). Ma in questo modo non si farà altro che perpetrare questa dipendenza dall’automobile a cui il mondo intero è soggetto, ed anzi di estenderla ancor più nel momento in cui paesi emergenti e molto popolosi, quali India e Cina si avvieranno ancor più decisamente di quanto non stiano già facendo sulla strada della motorizzazione di massa.
Non vogliamo però addentrarci ulteriormente nei meandri di un problema così vasto e complesso, ma riportare l’attenzione solamente su uno degli aspetti dalla schiavitù dell’automobile che stanno più al centro dell’attenzione mondiale. Le automobili, o più in generale il settore dei trasporti, consumano in effetti circa un terzo delle fonti energetiche, in questo caso quasi esclusivamente fossili, impiegate annualmente dai paesi avanzati, e sono responsabili di percentuali dello stesso ordine di grandezza delle loro emissioni di gas serra. Se nei prossimi decenni i governi proseguiranno nelle politiche di contenimento e stabilizzazione delle emissioni atmosferiche iniziate dal Protocollo di Kyoto, sembra inevitabile che il problema delle automobili, cioè in sostanza della mobilità personale, dovrà essere affrontato in maniera assai più decisa di quanto non sia stato fatto fino ad ora.
Per quello che abbiamo appena detto, sembra improbabile che la riduzione delle emissioni possa essere ottenuta a scapito di una drastica riduzione del numero complessivo di veicoli circolanti, tali e tanti sono gli interessi a che questa circolazione rimanga intensa ed abbondante. I paesi più avanzati potranno forse contare su una certa saturazione o moderata riduzione del parco dei veicolo circolanti, derivante da cambiamenti culturali (es. andare di più in bicicletta nei centri urbani) e dal miglioramento della mobilità pubblica, ma tale riduzione è probabile che venga più che compensata dalla crescita della domanda di mobilità personale e commerciale, e quindi dall’incremento dei veicoli circolanti, sia nei paesi sviluppati che a maggior ragione in quelli emergenti. Non resta quindi che puntare ad un deciso miglioramento dell’efficienza energetica dei veicoli per sperare in una riduzione delle emissioni e dei consumi in questo settore. E’ difficile prevedere quali potranno essere gli ulteriori progressi della tecnica motoristica basata sui combustibili fossili, ma è probabile che non si sia ormai molto lontani dai limiti superiori, dopo che i motori a scoppio hanno fatto in pochi anni notevolissimi progressi in termini di riduzioni delle emissioni (realmente) inquinanti e di efficienza termodinamica. Le auto elettriche o quelle alimentate a idrogeno non è ancora ben chiaro che contributo potranno dare alla mobilità di massa, né quando lo potranno dare, ma resta in ogni caso aperto il problema del reperimento delle fonti di energia primaria con le quali produrre l’elettricità o l’idrogeno necessari al loro funzionamento.
E’ peraltro evidente che qualsiasi progresso dell’efficienza può essere facilmente vanificato dall’affermarsi di mode di mercato che privilegino la produzione di veicoli di grande peso, dimensioni, potenza e di scarsa penetrazione aerodinamica quali sono i SUV, a scapito di veicoli più utilitari.
Se è vero, come abbiamo letto di recente, che le tre grandi dell’industria automobilistica americana sono andate in crisi perché l’aumento del prezzo della benzina ha depresso il mercato dei SUV che costituivano la quota più remunerativa della loro produzione, si intravede che forse il prezzo dell’energia costituirà il vero grande regolatore del mercato automobilistico. Chi poi non ha mai imparato a produrre economicamente automobili piccole e, continua a pensare di salvare il proprio settore automobilistico scavando nuovi pozzi di petrolio per tenere basso il prezzo della benzina, come qualcuno in America suggerisce, invece di puntare alla produzione di veicoli efficienti, sarà prima o poi probabilmente fatto fuori da giapponesi, coreani, indiani, oppure da qualche new entry con idee completamente nuove (è proprio di questi giorni la notizia che l’azienda tedesca SolarWorld, che ha fatto fortuna nel campo dei pannelli fotovoltaici, ha fatto una offerta di acquisto alla General Motors per alcune sue fabbriche con l’idea di trasformarle per la produzione di auto elettriche).
In sostanza ci sembra inevitabile che per risolvere la difficile equazione di ridurre o contenere i consumi energetici legati alla mobilità personale, senza deprimere eccessivamente il settore dell’automobile sia necessario puntare non solo sui miglioramenti di efficienza e su nuove tecnologie, ma anche sui cambiamenti di cultura e di mentalità degli utenti. In effetti mentre dal punto di vista strettamente tecnico il mercato ha compiuto notevoli progressi in termini di emissioni (ed in parte di efficienza), seguendo gli obblighi che il legislatore ha progressivamente introdotto (es. EURO 4 e EURO 5), non altrettanto si può dire abbia progredito la cultura prevalente nel mondo dell’automobile, che sembra tuttora in larga parte dominata dai miti delle potenza, della velocità, della supercomodità, ampiamente alimentati dai messaggi pubblicitari. Stentano pertanto ad essere recepiti tutti quegli atteggiamenti di “sobrietà” e di ricerca dell’efficienza nella scelta dei mezzi di mobilità personale e nelle modalità di conduzione degli stessi che potrebbero fare molta differenza nel controllo dei consumi energetici di questo settore.
Le biciclette milanesi non ci libereranno sicuramente dalla schiavitù dell’automobile, ma esse sono uno dei segni di quei cambiamenti di cultura senza i quali si rischia di vanificare qualsiasi sforzo, o progresso tecnologico che saremo in grado di conseguire in campo automobilistico. Esse daranno forse una mano a ripensare ad una mobilità futura che non è detto riesca a garantire a tutti neanche una riedizione ipertecnologica della mitica 600, ma che sicuramente non potrà darà a tutti un SUV, neanche se funzionasse a energia solare o ad idrogeno.