Piero Benvenuti, Il Corriere della Sera, 8 novembre 2008
Galileo è stato quanto mai opportunamente evocato e citato da Benedetto XVI nel saluto all’Accademia Pontificia, impegnata nei giorni scorsi nel convegno «Evoluzione dell’Universo e della Vita», che ha visto come relatore di maggior spicco il cosmologo Stephen Hawking. Con evidenti riferimenti alla Lettera alla Granduchessa Cristina di Lorena, che Galileo scrisse nel 1615, il Pontefice riafferma non solo come il «Processo» sia definitivamente superato, ma come il Magistero riconosca oggi autonomamente la necessità di entrare in costruttivo dialogo con la Scienza. La grande novità rispetto al tempo di Galilei, nel rinnovato confronto tra Scienza e Fede, è rappresentata dal concetto relativistico di spazio e tempo entità che non possono più essere considerate come assolute, una sorta di contenitori immutabili entro i quali si svolgono gli eventi, ma parte integrale della realtà fenomenica. In altre parole il Big-Bang non «avviene» all’interno dello spazio e in un determinato istante, ma «assieme» allo spazio e al tempo.
Già Sant’Agostino aveva intuito, su basi filosofiche, che il tempo doveva essere stato «creato» assieme al Cielo e la Terra, ma è solo con Einstein che si giunge ad una simile conclusione su basi scientifiche, ovvero per poter razionalmente comprendere i fenomeni osservati, soprattutto l’evoluzione dell’Universo. Sarebbe però un errore utilizzare questa conquista del pensiero scientifico nel dibattito tra i concetti di evoluzione e creazione. Si rischierebbe di ricadere in una delle trappole più insidiose del dialogo-confronto tra Scienza e Fede, ovvero quella di interpretare la Creazione come inserita nel tempo, come un evento, alla stregua di un fenomeno, ancorché globale. Sarebbe come leggere il racconto della Genesi e il Prologo di Giovanni in una subdola forma letterale, trascurando il vero scopo per il quale sono stati scritti. Se, nella lettura della Bibbia, si accetta fino in fondo la posizione di Galileo («È l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al Cielo, e non come vadia il cielo»), in perfetto accordo con quanto espresso nella Costituzione «Dei Verbum» del Vaticano II, è futile chiedersi dove creazione ed evoluzione si incontrino, dobbiamo piuttosto chiederci per qual motivo, utile alla nostra «salvezza», gli scrittori sacri, soprattutto l’Evangelista Giovanni, abbiano introdotto il concetto di Creazione. La conseguenza più immediata di questa riflessione è quella di trasformare l’individuo, da semplice «prodotto» dell’evoluzione, in una persona creata ed amata, e l’ambiente in cui viviamo in un dono che ci è stato affidato. Indipendentemente dalla libera accettazione o dal rifiuto del concetto di creazione, da esso discendono due principi oggi universalmente accettati: il rispetto reciproco per la persona e la cura per l’ambiente. Mi sembra che questo sia il corretto approccio per risolvere ogni possibile futuro conflitto tra evoluzione e creazione: nei limiti del rispetto della persona e dell’ambiente, la ricerca scientifica può procedere libera e senza timori di indebite interferenze, né il credente deve temere di veder scalfito il concetto a-temporale di Creazione da alcun risultato scientifico presente o futuro.
Anche il controverso concetto di Intelligent Design si trasforma da inaccettabile principio scientifico a evidenza della razionalità del Cosmo, che il credente, senza interferire con la scienza, può interpretare come traccia dell’immanenza di Dio. Ugualmente, Hawking può ben concludere il suo intervento confidando che tra breve la Scienza, da sola, darà risposta alle domande primordiali «Perché siamo qui?», «Da dove veniamo?». Non si accorge forse, che qualora questa sua profezia si avverasse, necessariamente nel tempo, da quel momento in poi la Scienza e la Ricerca terminerebbero e non avrebbero più senso: come scienziato mi sembra una prospettiva molto triste e senza speranza.
Galileo è stato quanto mai opportunamente evocato e citato da Benedetto XVI nel saluto all’Accademia Pontificia, impegnata nei giorni scorsi nel convegno «Evoluzione dell’Universo e della Vita», che ha visto come relatore di maggior spicco il cosmologo Stephen Hawking. Con evidenti riferimenti alla Lettera alla Granduchessa Cristina di Lorena, che Galileo scrisse nel 1615, il Pontefice riafferma non solo come il «Processo» sia definitivamente superato, ma come il Magistero riconosca oggi autonomamente la necessità di entrare in costruttivo dialogo con la Scienza. La grande novità rispetto al tempo di Galilei, nel rinnovato confronto tra Scienza e Fede, è rappresentata dal concetto relativistico di spazio e tempo entità che non possono più essere considerate come assolute, una sorta di contenitori immutabili entro i quali si svolgono gli eventi, ma parte integrale della realtà fenomenica. In altre parole il Big-Bang non «avviene» all’interno dello spazio e in un determinato istante, ma «assieme» allo spazio e al tempo.
Già Sant’Agostino aveva intuito, su basi filosofiche, che il tempo doveva essere stato «creato» assieme al Cielo e la Terra, ma è solo con Einstein che si giunge ad una simile conclusione su basi scientifiche, ovvero per poter razionalmente comprendere i fenomeni osservati, soprattutto l’evoluzione dell’Universo. Sarebbe però un errore utilizzare questa conquista del pensiero scientifico nel dibattito tra i concetti di evoluzione e creazione. Si rischierebbe di ricadere in una delle trappole più insidiose del dialogo-confronto tra Scienza e Fede, ovvero quella di interpretare la Creazione come inserita nel tempo, come un evento, alla stregua di un fenomeno, ancorché globale. Sarebbe come leggere il racconto della Genesi e il Prologo di Giovanni in una subdola forma letterale, trascurando il vero scopo per il quale sono stati scritti. Se, nella lettura della Bibbia, si accetta fino in fondo la posizione di Galileo («È l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al Cielo, e non come vadia il cielo»), in perfetto accordo con quanto espresso nella Costituzione «Dei Verbum» del Vaticano II, è futile chiedersi dove creazione ed evoluzione si incontrino, dobbiamo piuttosto chiederci per qual motivo, utile alla nostra «salvezza», gli scrittori sacri, soprattutto l’Evangelista Giovanni, abbiano introdotto il concetto di Creazione. La conseguenza più immediata di questa riflessione è quella di trasformare l’individuo, da semplice «prodotto» dell’evoluzione, in una persona creata ed amata, e l’ambiente in cui viviamo in un dono che ci è stato affidato. Indipendentemente dalla libera accettazione o dal rifiuto del concetto di creazione, da esso discendono due principi oggi universalmente accettati: il rispetto reciproco per la persona e la cura per l’ambiente. Mi sembra che questo sia il corretto approccio per risolvere ogni possibile futuro conflitto tra evoluzione e creazione: nei limiti del rispetto della persona e dell’ambiente, la ricerca scientifica può procedere libera e senza timori di indebite interferenze, né il credente deve temere di veder scalfito il concetto a-temporale di Creazione da alcun risultato scientifico presente o futuro.
Anche il controverso concetto di Intelligent Design si trasforma da inaccettabile principio scientifico a evidenza della razionalità del Cosmo, che il credente, senza interferire con la scienza, può interpretare come traccia dell’immanenza di Dio. Ugualmente, Hawking può ben concludere il suo intervento confidando che tra breve la Scienza, da sola, darà risposta alle domande primordiali «Perché siamo qui?», «Da dove veniamo?». Non si accorge forse, che qualora questa sua profezia si avverasse, necessariamente nel tempo, da quel momento in poi la Scienza e la Ricerca terminerebbero e non avrebbero più senso: come scienziato mi sembra una prospettiva molto triste e senza speranza.