Di che colore é Barack Obama?

Benedetta CappelliniArticoli

Mentre si sprecano i commenti dei media sulla storica elezione del primo presidente americano di pelle scura, è interessante osservare che nel mondo ambientalista nostrano, Barack Obama non sembra tanto suscitare grandi aspettative perché è nero, ma perché potrebbe essere il primo presidente “verde” nella storia degli Stati Uniti.

Varie prese di posizione in questo senso sono comparse sulla stampa italiana nella settimana dopo l’elezione. La più sintetica e significativa ci è sembrata quella di Ermete Realacci, ministro ombra per l’ambiente del PD, che commentando negativamente un recentissimo intervento dell’amministratore delegato dell’ENI a un convegno milanese, dove Paolo Scaroni ha pesantemente definito il Protocollo di Kyoto e gli accordi europei del 20-20-20, “inutili, iniqui, velleitari e scriteriati”, ha commentato:

“Una stonatura ancor più evidente [quella dell’intervento di Scaroni] nel momento in cui anche dagli Stati Uniti, dopo l’elezione di Barack Obama, emergono segnali di segno completamente opposto”.

Ma, su cosa poggiano le aspettative di Realacci e più in generale degli ambientalisti nostrani?

Ci sembrano rivelatrici, a questo proposito, le osservazioni di un acuto polemista, Steven Milloy, le cui opinioni anti-ambientaliste, sul sito www.junkscience.com sono spesso un po’ “eccessive” e partigiane, ma che usualmente è bene informato sui retroscena americani.

Milloy ricorda per prima cosa che lo stesso Obama ha riconosciuto di dovere molto per il suo passaggio, nel 2004, da oscuro senatore dello stato dell’Illinois a senatore degli Stati Uniti, all’appoggio di due influenti organizzazioni ambientaliste, il “Sierra Club” e la “League of Conservation Voters (LCV)”.

“Non avevo fondi né organizzazione – ha dichiarato tempo fa Obama a un giornale – ed era improbabile che i Democratici dessero la loro preferenza a un tipetto di colore del Southside, con un buffo nome come il mio. Tutto ha preso l’abbrivio quando abbiamo ottenuto l’appoggio della LCV. Non solo ci hanno dato supporto finanziario, non solo Deb Callahan [ex-presidente della LCV] ha detto alla televisione che ero un bravo ragazzo, ma soprattutto la LCV, il Sierra Club ed altre organizzazioni ambientaliste hanno segnalato agli “incerti” nello stato dell’Illinois che Obama era il primo non-titolare del Congresso ad esser incluso nella lista dei “campioni ambientali” stilata dalla LCV”.

La LCV stessa ha dichiarato di aver preso la prima decisione di “investire” decisamente su Obama “soprattutto per l’appoggio da lui dato alle tematiche ambientali durante il suo mandato al Senato dell’Illinois”, e di averlo di conseguenza sostenuto anche alle elezioni primarie del 2008 e poi nelle elezioni presidenziali, accordandogli il più alto indice di gradimento mai assegnato ad un candidato presidenziale.

Da parte sua Carl Pope [presidente del Sierra Club], quando un reporter prima delle elezioni gli chiese se le loro aspettative su Obama non fossero troppo alte rispose “…non ci tireremo indietro quando sarà eletto. Noi e le altre forze che lo stanno appoggiando rimarremo compatti…e lo manterremo sotto pressione”.

Alcune prime scelte e prese di posizione del nuovo presidente sembrano effettivamente indicare la sua attenzione per le tematiche ambientali e per le lobbies ad esse collegate.

Innanzi tutto nella scelta di alcuni collaboratori, quali il capo del suo staff Rahm Emanuel (anch’esso molto gradito a LCV e similari) che è noto per essere un convinto sostenitore della necessità di maggiori spese federali nelle ricerche sulle tecnologie di gassificazione del carbone con CCS (cattura e sequestro della CO2), dell’obbligo per le industrie elettriche americane di produrre parte dell’elettricità da energie rinnovabili, della necessità di spingere l’industria automobilistica americana a migliorare gli standard di consumo delle automobili, eccetera. Ma soprattutto nella scelta come suo consigliere energetico di Steve Chu e come consigliere ambientale  di Carol Browner che fu nello staff di Al Gore ai tempi del presidente Clinton, e come capo della EPA, l’agenzia statale americana per l’ambiente, si distinse per posizioni piuttosto radicali.

Obama in persona sembra molto sensibile ad una convinzione che è molto diffusa nel mondo dell’ambientalismo americano (oltre a essere molto popolare presso la Commissione Europea), che sulla trasformazione dell’attuale sistema energetico e sulle tematiche del contenimento delle emissioni climalteranti si giochi la partita del futuro sviluppo economico dei paesi avanzati.

“Trovare un nuovo motore per la nostra economia, sta diventando il problema più critico – ha dichiarato due settimane fa Obama fa in una intervista a Joe Klein della rivista Time. Non c’è nessun driver che pervada tutti gli aspetti della nostra economia, migliore di una nuova economia dell’energia. Questa sarà la mia priorità numero uno quando sarò nell’ufficio ovale, ovviamente appena avremo fatto quanto basta a stabilizzare la situazione economica immediata”.

Sono idee senz’altro molto simili a quelle espresse in una conferenza stampa post elezioni dai leaders dei principali movimenti ambientalisti, che hanno fra l’altro sottolineato la necessità di un pacchetto economico che includa provvedimenti per il sostegno al miglioramento dell’efficienza energetica negli edifici e nelle fabbriche, e l’aiuto all’industria automobilistica perché produca veicoli meno energivori, nella convinzione, come ha dichiarato il portavoce politico del Sierra Club, che: “E’ tempo di chiudere il cerchio fra energia, ambiente ed economia –ciò aiuterà la nostra economia, ed anche il nostro ambiente, a riprendersi”.

Al di là del sostegno e delle pressioni ambientaliste non è comunque improbabile che su questo fronte il nuovo presidente trovi consensi bipartisan o trovi in ogni caso la strada abbastanza spianata dall’ampia maggioranza democratica al Congresso.

Il compito di Obama sarà sicuramente più duro quando affronterà il problema, molto sentito dall’industria energetica americana, di adottare schemi di limitazione delle emissioni di CO2 (del tipo cap-and-trade). Su tale tema le opposizioni sono trasversali e presenti anche nel partito democratico, e tanto più il presidente potrà trovarsi in difficoltà in quanto al Senato non è facile che i democratici raggiungano il numero, 60 senatori, che li renderebbe in grado di prevalere.

Per superare le opposizioni su questo fronte ci sembra interessante segnalare che i movimenti ambientalisti americani stanno scatenando la loro fantasia con proposte che a dir la verità suscitano non poche perplessità.

E’ il caso per esempio del NRDC (Natural Resources Defense Council) che è convinto che un semplice programma di cap-and-trade potrebbe essere giudicato troppo costoso in una situazione economica recessiva come quella attuale, e quindi difficilmente accettato.

Ma se un eventuale provvedimento, da adottare al più presto, impegnasse il Tesoro americano a garantire il valore delle quote di emissione di CO2 almeno per i primi anni, per esempio ad un valore minimo di 15$/ton, le società energetiche potrebbero utilizzare una parte del mercato che si verrebbe a creare per questi certificati, dell’ordine presunto dei 90 miliardi di dollari, come una forma di garanzia accessoria (da parte dello Stato) per la concessione dei crediti per il finanziamento degli interventi necessari al contenimento delle emissioni stesse.

Questa operazione, garantita dal Tesoro americano, potrebbe aiutare a superare l’attuale grave carenza di liquidità e di fiducia del sistema finanziario americano, rimettendo in moto l’economia del paese.

Non siamo francamente competenti a giudicare la validità di simili idee, che il NRDC ha messo a punto con la consulenza di un certo Andy Stevenson, quotato consulente finanziario.

Ma a dir la verità, visto i disastri che ha di recente combinato la finanza americana, abbiamo il timore che possa aver ragione il caustico Steven Melloy a definire questa operazione “magica trasformazione di aria fritta in un asset da 90 miliardi di dollari”.