Kyoto e il 20-20-20

Benedetta CappelliniArticoli

Dopo lo scoppio della grave crisi finanziaria mondiale, che covava sotto la cenere da molto tempo, ma alla quale pochi in Europa avevano dato sufficiente importanza, ritenendo forse che fosse un problema solo degli americani, un’altra crisi, quella del protocollo di Kyoto e dei cosiddetti accordi del 20-20-20, sta agitando il Vecchio Continente, minacciando di scoppiare in maniera non meno clamorosa, e di lasciare strascichi pesanti, e forse altrettanto gravi.

Anche in questo caso il problema era noto da tempo agli addetti ai lavori1 , ma solo da poco il governo Berlusconi ha deciso di sollevarlo.

Come al solito le reazioni del mondo politico e tecnologico italiano a questa presa di posizione governativa si sono divise fra quanti l’hanno salutata con entusiasmo e quanti hanno visto in essa la conferma della endemica incapacità del sistema Italia di adottare politiche energetiche coerenti.

Nel polverone ideologico che subito si solleva nel nostro paese quando si discute di questioni energetiche e ambientali non è semplice distinguere da che parte stia la ragione. L’occasione ci è sembrata pertanto favorevole per riassumere i termini essenziali del problema, offrendo in tal modo ai lettori che avranno la pazienza di seguirci nella descrizione di una materia tutt’altro che semplice, almeno la possibilità di comprendere quali sono i reali motivi del contendere.

Come si è arrivati al protocollo di Kyoto

Tutti probabilmente sanno che il Protocollo di Kyoto è un accordo internazionale volto a contenere le emissioni in atmosfera dei gas prodotti da tutte le attività umane, che secondo una parte del mondo scientifico potrebbero indurre significativi cambiamenti del clima del nostro pianeta, e che potrebbero avere gravi o addirittura catastrofiche conseguenze per gli insediamenti umani o più in generale sulla vita sul pianeta2. Il protocollo prende origine dalla prima conferenza internazionale sui cambiamenti climatici (CC) che si tenne a Rio de Janeiro nel 1992, nel corso della quale fu ratificata la convenzione quadro definita con la sigla UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) fra i 186 paesi partecipanti che li impegnava a prendere iniziative per la riduzione della emissione di gas serra (anidride carbonica ed altri cinque gas, ovvero metano, protossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi ed esafluoruro di zolfo), cioè di intervenire su uno dei principali meccanismi3 che potrebbero indurre dei cambiamenti nel complesso bilancio fra l’energia in arrivo dal sole e quella emessa dal pianeta, e di conseguenza nel clima della Terra.

Questa convenzione fu preceduta, e fu in qualche modo uno dei primi risultati della fondazione nel 1988 dello IPCC (Intergovernamental Panel on Climate Change), il comitato scientifico internazionale, formato da due organismi dell’ONU, la WMO (World Meteorological Organization) e l’ UNEP (United Nations Environment Programme), che aveva dato inizio a un ampio programma di ricerche sul clima terrestre e sulle conseguenze sul clima delle attività antropiche.

La conferenza di Rio diede avvio al processo permanente di esame, di discussione e di scambio di informazioni fra gli Stati che portò al Protocollo di Kyoto, la cui bozza fu redatta nel corso di una serie di ben otto incontri che fecero seguito alla prima sessione della “Conferenza delle Parti”, svoltasi a Berlino nel 1995.

La conferenza di Kyoto del dicembre del 1997 fu dunque più che altro un evento mediatico (vi parteciparono ben 10.000 fra delegati, osservatori e specialisti), volto a dare rilievo e solennità alla firma di un protocollo di accordo fra i 160 paesi partecipanti, che era già stato ampiamente preparato fra le delegazioni governative.

I firmatari si impegnarono a ridurre, nel periodo 2008-2012, le emissioni complessive di gas serra di un valore globale di almeno il 5,2% rispetto ai loro valori di emissioni al 1990. Per l’esattezza tale percentuale é più o meno alta per i singoli paesi, a seconda della loro incidenza sulle emissioni complessive, e l’Europa accettò di fissare tale valore ad un ambizioso 8%. Con un accordo siglato nel giugno del 1998 fra i propri ministri dell’ambiente, noto come il Burden Sharing Agreement gli stati europei si misero poi d’accordo sulla ripartizione delle percentuali nazionali ed il governo italiano di allora (presidente del consiglio Romano Prodi, ministro dell’Ambiente Edo Ronchi) concordò per il nostro paese la percentuale del 6,5%.

Gli impegni di Kyoto furono peraltro assunti solo dai paesi più industrializzati, che hanno riconosciuta come essenzialmente propria la responsabilità storica dell’aumento di gas serra finora registrata. Il protocollo non impegna infatti i paesi in via di sviluppo, compresi quelli molto popolosi quali India e Cina, proprio per non ostacolarne lo sviluppo (nell’accordo si auspica in ogni caso che anche questi paesi partecipino volontariamente a iniziative volte alla riduzione delle emissioni).

Il protocollo doveva comunque essere ratificato in via definitiva dai singoli governi entro il 2005, e in ogni caso sarebbe entrato in vigore solo a seguito della ratifica da parte di almeno 55 degli stati aderenti, e con l’ulteriore condizioni che essi producessero almeno il 55% delle emissioni globali.

Questo processo di ratifica è stato piuttosto faticoso ed ha richiesto diversi altri incontri internazionali. Alla fine del 2001 solo 40 paesi avevano accettato il protocollo, e la stessa Europa lo ha ratificato solamente nella primavera del 2002 (decisione 2002/358/CE, subito dopo fatta propria anche dall’Italia con la legge 120, del giugno 2002).

Nel 2003 il numero degli aderenti era salito a 120, ma fu solamente alla fine del 2004 che la (a lungo contrattata) adesione della Russia (che da sola produce quasi il 18% delle emissioni) salvò l’accordo dal fallimento, permettendo di superare la soglia del 55% delle emissioni.

All’accordo, entrato definitivamente in vigore il 16 febbraio 2005, nel 2007 ha aderito anche l’Australia, mentre é noto che il governo degli Stati Uniti, che sono responsabili di poco più del 36% delle emissioni mondiali, non ha voluto ratificarlo4.

Come funziona il Protocollo di Kyoto

Il Protocollo di Kyoto (KP), non si limita a indicare la necessità di interventi per la riduzione delle emissioni di gas serra e a fissare gli obbiettivi di riduzione a carico di ciascun aderente, ma introduce anche degli strumenti definiti di “flessibilità” che dovrebbero consentire di conciliare le esigenze di contenimento delle emissioni e di mantenimento di una buona dinamica di sviluppo economico. Gli strumenti sono di tre tipi: di compensazione, di “basket” (il basket è il complesso dei gas serra su cui si agisce), ed economici.

I primi riguardano i cosiddetti carbon sink, cioè la possibilità di compensare le sorgenti di CO2 con dei “pozzi” (sink) naturali di assorbimento, costituiti per esempio da foreste o coltivazioni che ri-utilizzino il gas serra prodotto5 (la materia è comunque piuttosto controversa).

I secondi prevedono che la riduzione complessiva possa essere conteggiata come somma delle singole riduzioni dei 6 gas serra sopra citati, opportunamente convertiti in CO2 equivalente.

Gli ultimi, che sono quelli di cui si parla più spesso, prevedono un complesso meccanismo di scambio di “crediti” fra gli stati, in base al quale i vari paesi possano acquisire dei crediti se la riduzione di emissioni da loro ottenuta è superiore a quella assegnata, oppure debbano acquistarli se per qualsiasi motivo non possano o non vogliano raggiungere i loro obbiettivi.

Complessivamente il principio di flessibilità si basa sull’assunto che essendo l’effetto serra un problema globale, i benefici di riduzione sono indipendenti dal luogo in cui essi sono conseguiti, e che quindi è economicamente vantaggioso realizzarli nei luoghi in cui i loro costi marginali sono minori (sono state comunque fissate delle regole e dei limiti per evitare che si abusi di questa possibilità e gli interventi siano effettuati prevalentemente nei luoghi stessi in cui le emissioni sono generate).

Sarebbe troppo lungo entrare nei dettagli dei tre strumenti di flessibilità sopra descritti. Ci limitiamo pertanto solamente ad accennare, a titolo di esempio, che per l’acquisizione dei crediti “economici” di emissione, sono previste le tre seguenti possibilità:

Clean Development Mechanism (CDM), consente ai paesi industrializzati di realizzare, nei paesi in via di sviluppo, progetti che producano benefici ambientali (in termini di riduzione delle emissioni di gas serra e di sviluppo socio-economico dei paesi ospiti); tali progetti generano crediti di emissioni nei paesi promotori;

Joint Implementation (JI), consente ai paesi industrializzati di realizzare progetti di riduzione delle emissioni in un altro paese dello stesso gruppo, e di utilizzare i crediti derivanti congiuntamente col paese ospite;

Emission Trading (ET), consente lo scambio di crediti di emissione fra paesi industrializzati, e più in particolare fra le imprese dei singoli paesi; un paese (o un’impresa) che abbia conseguito una diminuzione delle proprie emissioni di gas serra superiore al proprio obbiettivo assegnato può così cedere questi crediti ad un paese che non sia in grado di rispettare i propri impegni 6.

La prima fase di applicazione del Protocollo di Kyoto in Europa

Gli impegni assunti dall’Europa con la ratifica del KP si sono tradotti in una serie di direttive emesse dalla UE, che sono state a loro volta fatte proprie dalle legislazioni nazionali dei singoli stati.

La Direttiva principale è la 2003/87/CE (13/10/2003), che ha istituito il meccanismo ET per lo scambio di quote di emissioni di gas serra, ed è entrata in vigore nei singoli Stati membri a partire dal 01/01/2005 (in realtà in Italia il relativo iter legislativo nazionale si è concluso solamente nel febbraio del 2006, durante il III governo Berlusconi, e tutta la complessa macchina si è di conseguenza messa in moto con un certo ritardo).

Il sistema europeo é il primo meccanismo multinazionale per lo scambio di quote di emissione ad entrare in funzione, ed è considerato il precursore dell’analogo sistema internazionale previsto dal KP.

Il sistema è del tipo usualmente definito col termine cap-and-trade7, e si applica, per il momento, solo alle emissioni di CO2, coinvolgendo solo i settori produttivi più energivori, cioè quello termoelettrico, quello della raffinazione del petrolio e quelli della produzione di cemento, acciaio, carta, vetro e ceramica (altri settori come quello della produzione di alluminio, l’industria chimica e i trasporti, sono in discussione, ma non sono stati per il momento inclusi). Si tratta di un gruppo di impianti che sono nel complesso responsabili di circa il 45% delle emissioni continentali di anidride carbonica, e sui quali il legislatore ha deciso di intervenire per primi in quanto il loro numero pur essendo grande (sono circa 11.000 in tutta Europa), è ancora abbastanza limitato da consentire la messa a punto di tutto il sistema.

Dal 1 gennaio 2005, ogni impianto con potenza maggiore di 20 MW termici deve essere autorizzato dai governi a emettere anidride carbonica. Gli Stati membri assegnano agli impianti che rientrano in questa categoria le quote di emissioni (cap) che sarà loro permesso di generare nello svolgimento dell’attività produttiva e l a definizione del numero totale di permessi costituisce di fatto l’obbiettivo ambientale fissato dal governo. La vera difficoltà del sistema deriva, come è facile comprendere, dai criteri di assegnazione dei permessi, che per ragione di opportunità politica, e per non appesantire eccessivamente le imprese, per il primo triennio ‘05-’07, sono stati assegnati a titolo gratuito. I criteri di assegnazione delle quote sono stati decisi dalla UE a livello di principio, ma le quote stesse sono state poi concretamente definite da un Piano Nazionale di Allocazione (PNA) che ogni Stato ha sottoposto all’approvazione della Commissione Europea. In particolare il PNA italiano, notificato per la prima volta alla Commissione Europea nel luglio del 2004 (ai tempi del II governo Berlusconi), respinto e ripresentato, è stato approvato nel maggio del 2005 ed è stato ufficialmente pubblicato solo nella primavera del 2006.

Sulla base del PNA ogni gestore d’impianto, alla fine di ogni anno, deve consegnare permessi di emissione in misura uguale alle emissioni effettivamente rilasciate in atmosfera (le quantità devono essere certificate da società terze qualificate), e se non ne ha abbastanza acquistarli da altri, oppure pagare una sanzione (dell’ordine di 40-100€ per tonnellata di CO2), che peraltro non estingue l’obbligo annuale, ma lo cumula con quello dell’anno successivo. Se invece ha ottenuto una riduzione delle emissioni al di sotto dei limiti fissati (per esempio perché ha effettuato qualche miglioramento di efficienza dell’impianto) le quote eccedenti possono essere vendute, o tenute per gli anni successivi.

In effetti ogni gestore può liberamente commercializzare (trade) le quote assegnategli dalla Autorità nazionale cedendo le quote eccedenti o comprando quelle mancanti.

La logica con cui il sistema dovrebbe funzionare – secondo i suoi sostenitori – è la seguente:

le emissioni verranno “spontaneamente” ridotte in primo luogo nelle imprese in cui il processo tecnologico permetterà di farlo con più facilità; tali imprese disporranno così di un surplus di quote che potranno rivendere alle imprese che potrebbero invece ridurre le emissioni solo ad un costo elevato, e che avranno quindi più convenienza ad acquistare le quote che a fare gli interventi; complessivamente il risultato ambientale sarà lo stesso, ma il costo totale dovrebbe essere minore in quanto il commercio di quote bilancerà i costi fra gli operatori.

Operativamente il sistema è complesso, ma le sue funzionalità non sono molto diverse da quelle che rendono possibile la gestione dei mercati finanziari mondiali. Analoghe tecnologie informatiche forniscono quindi la base per creare il sistema dei “registri” nazionali e internazionali delle quote di emissione, sui quali vengono registrate le assegnazioni e gli interscambi fra gli impianti. Il registro europeo si chiama CITL; il corrispondente registro nazionale italiano, è gestito dall’ISPRA, l’istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale, che è sotto il diretto controllo del Ministero dell’Ambiente.

Oltre a questi Pubblici Registri delle quote di emissione, in parallelo sono state create, su iniziativa privata, delle piattaforme di scambio che aiutano gli utenti nella ricerca e nella negoziazione delle transazioni di vendita delle quote stesse. Attualmente tali piattaforme non sono collegate ai Registri nazionali, ma potranno esserlo nel futuro.

E’ difficile negare che tutto il sistema sia piuttosto macchinoso, ed anche ammettendo che tutto funzioni come i legislatori e i burocrati si attendono, immaginare la sua estensione e gestione a livello mondiale, fa venire un po’ le vertigini!!

Per concludere un rapido accenno anche alla consistenza di questo mercato delle quote. All’interno della compagine dei 25 paesi che formano la UE25, la Germania è quella che per il periodo 2005-2007, aveva di gran lunga il maggior numero di permessi di emissione allocati, seguita da Italia, Polonia e Gran Bretagna. I paesi appena citati, assieme a Francia e Spagna, coprono in totale il 71% di tutti i permessi rilasciati. Da notare inoltre che il settore della produzione di energia elettrica e di calore è quello che produce di gran lunga la maggior parte delle emissioni, con oltre il 55% del totale. Questo settore ha ovviamente una forte incidenza in paesi come la Germania, l’Italia e la Polonia che usano in larga misura combustibili fossili per la produzione della loro energia elettrica, mentre incide un po’ meno in paesi, quali la Francia, che hanno una forte quota di produzione elettronucleare.

In particolare, in base ai dati che l’agenzia nazionale per l’ambiente comunica periodicamente alla segreteria della UNFCCC, il tetto sulle emissioni assegnato l’Italia per il 1990 era pari a circa 516 milioni di tonnellate anno di CO2; tale quantitativo dovrebbe essere tagliato di circa 33,5 milioni di tonnellate (6,5%), in un periodo di cinque anni (dal 2008 al 2012). Ma le emissioni del sistema Italia sono andate aumentando nel frattempo, e agli attuali ritmi il nostro paese emetterà in questo periodo circa 614 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, con un surplus di circa 130 Mton/anno. Ipotizzando che il prezzo della tonnellata di CO2 si attesti, come stima la Banca Mondiale, attorno ai 25 €, i costi per la mancata attuazione di Kyoto corrisponderebbero ad un onere di quasi 3,3 miliardi all’anno, o di complessivi 16,5 miliardi in cinque anni.

La seconda fase di applicazione del KP in Europa e gli accordi 20-20-20

La seconda fase di applicazione del KP nella UE riguarda il periodo 2008-2012, che coincide col primo periodo fissato dal KP stesso per la verifica degli obbiettivi di riduzione delle emissioni accettate dai vari governi. In questo periodo il sistema di emission trading europeo (EU ETS) si integrerà con il sistema di emission trading internazionale previsto dal KP, e le quote europee (EUA) verranno convertite in quote di Kyoto (AAU). Gli scambi potranno quindi avvenire non solo fra le imprese, ma anche tra gli Stati.

In questo secondo periodo assumeranno maggior rilievo anche i meccanismi di flessibilità del tipo CDM e JI; essi sono stati regolati, a livello generale, dalla direttiva europea 101/2004/CE, nota anche come “direttiva Linking”, ma ogni Stato deve poi definire in dettaglio nel proprio piano nazionale di allocazione come utilizzarli.

L’esperienza acquisita nel triennio 2005-2007 non è stata del tutto positiva, ed ha messo in luce che l’approccio adottato per la definizione dei PNA doveva essere in buona parte modificato in quanto inefficiente e fonte di evidenti disomogeneità nei criteri di assegnazione delle quote di emissioni adottate dai singoli stati. Si è quindi aperta una difficile fase di conciliazione per la definizione dei PNA relativi a questo secondo periodo.

Bisogna inoltre tener presente che nella seconda fase il quadro che abbiamo cercato di descrivere per il KP, si è ulteriormente complicato per la contemporanea presenza nelle discussioni delle problematiche relative al pacchetto europeo clima-energia, usualmente indicato con la sigla 20-20-20.

In aggiunta agli obbiettivi di Kyoto la EU si è in effetti data l ’obbiettivo unilaterale di ridurre del 20% le emissioni di gas serra entro il 2020, percentuale elevabile al 30% nel caso in cui anche USA, Australia e paesi emergenti si impegnino in questa direzione. Inoltre, per la stessa data si vuole conseguire un miglioramento del 20% dell’efficienza dei processi energetici ed arrivare a coprire il 20% dei consumi finali di energia tramite fonti rinnovabili, oltre che a introdurre una quota del 10% di biocombustibili nei consumi globali di carburanti per i trasporti.

Le recenti contestazioni al commissario europeo all’ambiente (il greco Stavros Dimas), da parte del ministro dell’ambiente italiano (Stefania Prestigiacomo), sono uno degli esempi più eclatanti delle notevoli difficoltà che l’Italia ed altri paesi specie dell’est europeo, hanno cominciato meglio a rendersi conto che esistono, dopo aver forse con una certa leggerezza accettato questa proposta, che dovrebbe ora essere ratificata entro la fine dell’anno. La proposta, è opportuno ricordarlo é stata avanzata in sede di commissione europea nel gennaio del 2008, rispondendo agli impegni assunti nel marzo del 2007 dal consiglio europeo, quando questo schema era stato siglato nella speranza di facilitare un accordo globale post–Kyoto alla conferenza di Bali del dicembre 2007.

Il governo si è evidentemente fatto carico delle preoccupazioni 8 dell’industria italiana, espresse in particolare, dall’Unione Petrolifera (l’associazione delle industrie petrolifere) e dall’Assoelettrica (l’associazione dei produttori di energia elettrica), che hanno preso esplicitamente posizione già prima dell’estate. La prima affermava, in una nota stampa diffusa a luglio: “Lo spazio di riduzione delle emissioni del nostro sistema industriale è praticamente nullo, tenuto conto dell’elevata efficienza energetica già raggiunta e confrontata con quella degli altri paesi europei…”. Si auspicava quindi una forte presa di posizione da parte del Governo “per la ridefinizione in sede comunitaria degli impegni assunti dal nostro paese per la riduzione delle emissioni di CO2, troppo pesanti rispetto a quelli degli altri paesi europei beneficiari di allocazioni in eccesso, per un effettivo riequilibrio degli oneri relativi”.

La seconda, da parte sua affermava che “un’ulteriore riduzione delle quote di emissione, che peraltro già nel 2005 sono risultate insufficienti, potrebbe comportare conseguenze molto gravi…sotto il profilo dei prezzi…laddove i produttori italiani saranno costretti ad acquistare diritti di emissione sul mercato”.

A questo proposito bisogna effettivamente ricordare che paesi quali ad esempio l’Inghilterra e la Germania che dopo il 1990 hanno chiuso una consistente fetta di impianti molto vecchi ed inefficienti (l’Inghilterra la sua industria del carbone, la Germania i vecchi impianti della DDR), oppure hanno subito gravi recessioni economiche che hanno drasticamente ridotto i consumi di energia della loro industria pesante (la Russia e tutto il blocco dell’ex Unione Sovietica), hanno avuto la possibilità di acquisire notevoli crediti, mentre paesi tutto sommato abbastanza efficienti, come l’Italia si sono trovati un po’ svantaggiati. In effetti l’Italia, come si è sentito spesso ricordare in questo periodo, dispone attualmente del parco di centrali elettriche energeticamente (non economicamente) più efficienti, ed ha le minori emissioni specifiche di CO2 nella produzione termoelettrica fra tutti i paesi della EU (in quanto il parco centrali italiane è ormai per la gran parte costituito da cicli combinati alimentati a gas naturale), ma nonostante questo rischia di ritrovarsi nel “elenco dei cattivi”.

In aggiunta a quanto riguarda il settore cosiddetto ETS (cioè quello delle industrie energivore del quale abbiamo fin qui prevalentemente parlato) si tenga anche presente che, in particolare per l’Italia, l’accordo 20-20-20 implicherebbe, due obbiettivi sicuramente non facili da ottenere entro il 2020: una riduzione del 13% al di sotto dei valori al 2005 delle emissioni prodotte dai settori non ETS e l’innalzamento al 17% del consumo finale della quota di energia prodotta da fonti rinnovabili. Il primo obbiettivo richiede un consistente incremento di efficienza nel consumo di energia nei settori abitativo e del trasporto su strada, nei quali sarà necessario inventare stimoli e incentivi efficaci per un mercato molto parcellizzato e decentralizzato. Il secondo, richiede un fortissimo aumento, all’incirca una moltiplicazione per dieci, del ritmo di costruzione di questi impianti, rispetto a quello tenuto per esempio negli anni 2000-2005 (l’incremento è stato infatti in questo periodo dello 0,08% annuo, e sarà necessario portarlo a circa lo 0,78% annuo).

L’efficacia prevista e gli sviluppi post 2012 del Protocollo di Kyoto

A giudizio di molti studiosi, la prima fase mondiale del KP che si chiuderà con il 2012, potrà produrrà effetti poco più che simbolici sui livelli di CO2 in atmosfera, anche se potrà essere sufficiente a mettere in difficoltà un paese come l’Italia che, come si è accennato, non ha preso troppo sul serio l’accordo, aumentando le sue emissioni di CO2 del 10% rispetto al 1990, e si trova ora in forte difficoltà a mantenere un impegno che inizialmente le assegnava un 6,5% di riduzione.

In ogni caso, una seconda fase del protocollo di Kyoto, da iniziarsi dopo il 2012, se vorrà essere efficace dovrà fissare riduzioni assai più consistenti, e tali da produrre una effettiva stabilizzazione dei livelli di gas serra.

In questa seconda fase, che non è stata ancora negoziata, ma della quale si sta già discutendo da tempo e che sarà in particolare oggetto delle prossime conferenze di Poznan e Copenhagen, la UE vuole continuare a giocare un ruolo di trainatore: sta quindi cercando di accelerare i tempi al suo interno con gli accordi 20-20-20, nella convinzione che solo “dando per primi il buon esempio” si riuscirà a convincere anche gli altri paesi. Come si è accennato tali accordi riguarderanno necessariamente anche altri settori altamente energivori, quali quello residenziale e quello dei trasporti. Si tratta, come è facile comprendere, di settori assai più diffusi e parcellizzati dei settori industriali regolati nella prima fase, per i quali non è facile immaginare dei meccanismi di controllo altrettanto deterministici. Per lo stesso settore degli impianti termoelettrici ed industriali appena citati, si parla inoltre non più di assegnazione gratuita delle quote di emissione, ma di messa all’asta di tutti i diritti di emissione a partire dal 2013. Un simile provvedimento potrebbe avere conseguenze ben più consistente sui costi di produzione di molte industrie, di quanto è successo nella prima fase di Kyoto, tanto che si discute di una possibile esclusione dal provvedimento stesso almeno dei settori a più alto rischio di delocalizzazione9 .

Uno sforzo davvero titanico, quello del 20-20-20, la cui difficoltà é accentuata dall’intervallo temporale molto ristretto nel quale viene concepito, ma sulla cui efficacia sia climatica che economica non mancano da più parti i pareri discordi, sia in Italia 10 che all’estero 11 .

Uno sforzo sulla opportunità e convenienza del quale – pur se l’attuale leadership politica della UE è evidentemente convinta che si tratterà di una grande (forse della più grande) occasione di sviluppo dell’economia mondiale nei prossimi decenni, e che l’Europa ne deve essere a capo – ha quindi senso che la comunità tecnico-scientifica continui ad interrogarsi.

Riferimenti:

G. D’Andrea, F. di Macco, Per la UE 2020 la “ricetta” deforestazione, Quotidiano energia, 30 ottobre 2008

F. Ranci, Il protocollo di Kyoto ha fallito, Quotidiano energia, 21 ottobre 2008

P. D’Ermo, Emissioni UE 15: -11,3% al 2012, Quotidiano energia 29 ottobre 2008

AA.VV, Kyoto, una penale da 16 miliardi di euro, Quotidiano energia, 22 ottobre 2008

http://www.brunoleoni.it/nextpage.aspx?codice=7218

 

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1 Se ne può trovare un’ampia descrizione per esempio nel libro di Agnoli-Pireddu, Il prezzo da pagare, edizioni Baldini Castoldi, Milano, uscito qualche mese fa.

2 A dir la verità, essendo ormai ben noti agli scienziati, gli enormi sconvolgimenti climatici che il pianeta ha subito nel corso della sua lunga storia, nessuno è tanto catastrofista da ipotizzare che gli eventuali cambiamenti climatici indotti dall’uomo possano mettere in pericolo la continuità della vita sul pianeta. I timori riguardano essenzialmente gli attuali livelli di civiltà e di benessere umani, o l’eventuale sopravvivenza di alcune specie animali.

3 I gas serra sono la cosa di cui sente più spesso parlare, ma in realtà ci sono altri importanti elementi che possono alterare il bilancio radiativo, e di conseguenza il clima, del nostro pianeta, quali le variazioni di albedo provocate dai cambiamenti di utilizzo dei suoli o dalla variazione delle superfici innevate, le variazioni di copertura nuvolosa, il contenuto di polveri e aerosol nell’atmosfera, eccetera.

4 Gli USA sono stati all’inizio fra i promotori degli accordi sui cambiamenti climatici, specie ad opera del vicepresidente Al Gore, che aveva indotto il presidente Bill Clinton a firmare l’accordo negli ultimi mesi del suo mandato (mancava comunque l’approvazione del Senato). Il presidente George W. Bush ritirò però l’adesione presidenziale poco dopo il suo insediamento, e successivamente ha sempre rifiutato qualsiasi rinegoziazione del protocollo, anche quella proposta nel 2001 dal ministro olandese Jan Pronk, che a nome dell’ONU aveva promesso notevoli sconti sulle percentuali di riduzione inizialmente richieste agli USA. L’attuale governo statunitense ha sempre sostenuto di non voler prendere impegni che non vengano assunti anche dai grandi paesi quali l’India e la Cina, che sono ormai diventati grossi emettitori di gas serra. In effetti nel 2007 la Cina ha eguagliato il livello di emissioni degli Stati Uniti.

5 Attualmente i meccanismi del KP (periodo 2008-2012) prevedono la generazione di crediti di carbonio a seguito di opere di afforestazione e riforestazione, nonché di gestione e cambiamento d’uso dei suoli, ma non permettono di combattere la deforestazione in quanto tale. Non è infatti contemplata la possibilità di tenere conto delle potenziali emissioni evitate da attività inerenti la protezione delle foreste tropicali. L’inclusione di questo tema nel KP potrebbe, secondo alcuni commentatori, contribuire ad allargare il futuro accordo ad un maggior numero di partecipanti, proprio come più volte richiesto dagli esponenti del governo italiano durante l’attuale fase di rinegoziazione dell’obbiettivo europeo 20-20-20.

6 Ci sembra comunque utile aggiungere, per il lettore interessato a qualche maggiore dettaglio, la descrizione del significato di alcune sigle riguardanti il meccanismo di scambio dei crediti, che capita spesso di incontrare nella pubblicistica sul KP, e che non sono sempre di immediata comprensione:

AAU (Assigned Amount Units), sono unità commerciabili (l’unità corrisponde a 1 tonnellata di CO2) che derivano dalle quantità assegnate ai singoli paesi

RMU (Removal Units), sono unità commerciabili rilasciate in base all’assorbimento di gas serra tramite attività cosiddette LULUCF (land use, land use change and forestry)

ERU (Emission Reduction Unit), sono unità commerciabili generate a seguito di attività JI

CER (Certified Emission Reductions), sono unità commerciabili generate a seguito di progetti CDM

lCER (long term CER), sono CER rilasciati per attività di afforestazione o riforestazione di un progetto CMD, che scadono al termine del periodo successivo a quello per cui sono stati rilasciati

tCER (temporary CER), sono CER rilasciati per attività di afforestazione o riforestazione di un progetto CMD, che scadono al termine del periodo per il quale sono stati rilasciati

7 Il termine cap-and-trade, fu coniato per la prima volta negli USA negli anni ’70, quando fu affrontato il grave problema dell’inquinamento atmosferico da ossidi di zolfo (SOx) e di azoto (NOx) prodotti dalle centrali elettriche o da altri impianti a forte consumo di combustibili fossili (es. cementifici). In pratica si fissa un tetto (cap) alle emissioni annuali di ciascun impianto, attribuendo alle imprese un onere se il tetto viene superato o un credito se viene ridotto, per esempio con l’introduzione di miglioramenti tecnologici. Oneri e crediti possono essere scambiati (trade) fra vari impianti; così per esempio una azienda che abbia un impianto inquinante può acquistare crediti da un’altra azienda che ha un impianto più moderno, in attesa di introdurre a sua volta dei miglioramenti.

8 Sembra che l’allarme abbia preso le mosse, o il pretesto, dalla diffusione delle valutazioni sui costi per i vari paesi europei dell’applicazione del KP (e del pacchetto 20-20-20) condotta dal prof. Pantelis Capros per conto della UE. Questo studio, come tutti gli “studi di scenario” di questo tipo, basati su complessi modelli econometrici, fornisce una “forchetta” dei possibili costi piuttosto ampia e variabile in funzione della gamma di ipotesi che sono state prese in considerazione; le valutazioni di tali costi possono poi essere riassunti in termini di incidenza globale sul PIL dei singoli paesi, come è spesso accaduto di vedere riportato sulla stampa di questo periodo. In Italia ci si è a quanto pare preoccupati del limite superiore di costo calcolato, mentre la commissione europea ha ribadito che i costi reali potrebbero anche essere vicini ai limiti inferiori.

9 Un crescente numero di industrie potrebbe cioè decidere di trasferire le loro produzioni in altri paesi, ad esempio in India o Cina, non solo per motivi di minor costo della manodopera, ma anche per sfuggire agli eccessivi oneri imposti dal KP.

10 Un buon esempio di voce dissenziente italiana ci pare quella dell’ing. Carlo Stagnaro, che in un recente intervento sul sito dall’associazione Bruno Leoni, così scrive:
“…Ammesso e non concesso che il riscaldamento globale sia effettivamente causato dall’uomo e che sia desiderabile mitigarne gli effetti, è ovvio che ciò richiede uno sforzo che coinvolge ogni nazione su questo pianeta, per un significativo abbattimento delle emissioni complessive. Poiché un accordo del genere non esiste e non è in vista, l’unico effetto atteso delle politiche europee è quello di perseguire una riduzione locale delle emissioni, a cui potrebbe addirittura corrispondere un aumento di quelle globali (a causa della delocalizzazione delle imprese energivore)”.

Critiche sono di recente arrivate anche dal mondo sindacale. La segreteria nazionale della FLAEI-CISL (lavoratori elettrici) scriveva per esempio in un comunicato per i lavoratori datato 27 ottobre 2008, intitolato “20-20-20, il kyoto fisso”:

“L’Europa ha deciso, coraggiosamente e meritoriamente, di porsi all’avanguardia nel perseguire politiche tese a ridurre l’effetto serra e a conseguire miglioramenti climatici, conciliando crescita economica e tutela dell’ambiente, ma da sola non può risolvere problemi globali….Sul versante delle quote assegnate, l’Italia è stata sicuramente penalizzata ed è corretta la posizione del governo nel chiederne la rinegoziazione, in particolare nei tempi; nel nostro paese le emissioni pro capite di CO2 sono inferiori alla media europea e a quelle della maggior parte dei singoli paesi, il rendimento delle nostre centrali termoelettriche è fra i più elevati al mondo, così come il parco di vetture circolanti ha un consumo chilometrico tra i più bassi….”

11 Alcuni commentatori, quali Thomas C. Heller, professore di diritto internazionale alla università californiana di Stanford, che ha recentemente partecipato ad un seminario organizzato dallo IEFE (Istituto di Economia delle Fonti Energetiche) alla Bocconi di Milano, si spingono addirittura ad affermare che il KP ha completamente fallito proprio nel punto cruciale, quello di dar vita a un circuito virtuoso di cooperazione internazionale. Le grandi conferenze internazionali si sono risolte, secondo Heller, in una sterile contrapposizione fra USA ed Europa che ha sostanzialmente emarginato tutti gli altri. Né è probabile che gli USA aderiscano anche in futuro all’idea di un sistema regolatorio mondiale del tipo cap-and-trade, che rimane in ogni caso uno schema calato dall’alto dalla politica. Secondo Heller, e secondo la più vasta corrente di pensiero che egli rappresenta, la vera alternativa è puntare sul coordinamento fra i vari programmi che i singoli paesi, OCSE ed emergenti, stanno sviluppando per l’energia e l’ambiente, lavorando a livello internazionale sulle compatibilità e complementarietà.
Staremo a vedere da che parte il recentissimo cambio della guardia al vertice politico degli USA farà pendere la bilancia americana.