di Gianluca Lapini
PremessaLa pesante eredità della guerraOrigini e sviluppi del nucleare in ItaliaLo stato attuale e futuro della tecnologia nucleare-La sicurezza-Il problema delle scorie-I costi economici -I reattori di quarta generazioneQuale futuro per il nucleare in Italia?Qualche considerazione conclusivaBibliografiaNote
Premessa
Dopo anni e anni di demonizzazione, dell’energia nucleare in Italia si ricomincia a parlare sempre più spesso. Il governo Berlusconi sta dando numerosi segnali di voler riaprire la partita delle centrali nucleari, ma a dir la verità qualche spiraglio aveva cominciato a intravedersi anche durante il precedente governo, ad indicare che pure nell’ambiente della sinistra é in corso un ripensamento [1] su questa forma di energia a cui tale parte politica è stata, almeno da noi, per lungo tempo fortemente avversa.
Questo rinnovato interesse non garantisce peraltro che la discussione proceda su binari di maggiore obbiettività di quanto non sia successo in passato, e ciò a maggior ragione ci stimola, a compiere un tentativo di superare il clima di slogan e contrapposizioni ideologiche che ha troppo spesso caratterizzato questo dibattito, per effettuare un’analisi serena sia di ciò che è successo, sia di quale potrà essere il futuro della tecnologia nucleare in Italia.
A questo scopo, dedicheremo la parte iniziale dell’articolo a ripercorrere, a grandi linee, le vicende storiche del nucleare in Italia e nel mondo (il lettore frettoloso potrà eventualmente saltare questa parte, che peraltro contiene considerazioni che ci sembrano importanti per comprendere le scelte da fare e gli errori da non ripetere). La seconda parte sarà invece dedicata ad una sintetica panoramica delle prospettive tecnologiche ed energetiche del nucleare, con particolare considerazione al dibattito tecnico-politico che caratterizza l’attuale situazione italiana.
La pesante eredità della guerra
Per comprendere almeno qualcosa delle accanite dispute che hanno accompagnato in tutto il mondo lo sviluppo e l’applicazione pacifica dell’energia nucleare, non si può fare a meno di ricordare che la nascita delle tecnologie nucleari fu pesantemente condizionata da quello che inizialmente fu lo scopo principale del titanico sforzo di ricerca e sviluppo che ne caratterizzò l’origine, cioè lo sfruttamento dell’enorme potenziale distruttivo della fissione nucleare.
La potenza dell’atomo divenne a tutti tragicamente evidente, verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, con lo sgancio delle due bombe atomiche americane sul Giappone, e costituì successivamente il deterrente sul quale si mantenne l’equilibrio del terrore del lungo periodo della Guerra Fredda. Di utilizzo pacifico dell’energia nucleare si cominciò a parlare presto, ma la messa in servizio delle prime centrali elettronucleari negli stati che per primi svilupparono armi nucleari (USA, URSS, Inghilterra e Francia) fu in realtà una diretta conseguenza della primaria necessità di mettere in servizio reattori in grado di produrre materiale fissile (principalmente plutonio) per gli ordigni nucleari [2], mentre la produzione di energia elettrica costituì inizialmente una specie di sottoprodotto, quasi gratuito, di tale processo [3]. A guerra finita, l’idea che fosse possibile produrre e mettere a disposizioni di tutti grandi quantità di energia elettrica dall’atomo, fu comunque un argomento che aiutò i governi a far inghiottire alle popolazioni e alla cosiddetta “opinione pubblica” l’amara pillola dell’enorme sforzo e dell’enormi spese dedicate alla produzione di armi nucleari.
Nella nascita della tecnologia e dell’industria elettronucleare, sembra quindi difficile negare che abbia giocato un ruolo rilevante la necessità ideologico-propagandistica di trovare in qualche modo una compensazione alla connotazione negativa che il solo nominare il termine energia “atomica” suscitava nella gente degli anni ’50-60, quotidianamente preoccupata per gli esperimenti nucleari in atmosfera e per la costante minaccia dello scoppio di un conflitto nucleare mondiale (una reazione in parte emotiva, ma comprensibile dopo quello che pochi anni prima era successo ai poveri abitanti di Hiroshima e Nagasaki, che si sarebbe rinnovata anche molti anni più tardi al primo accenno di incidenti in centrali nucleari ed a maggior ragione dopo quello tragico di Chernobil).
Questa osservazione non vuole misconoscere gli sforzi, la dedizione e l’impegno personale degli scienziati e dei tecnici che si dedicarono all’utilizzo pacifico dell’energia nucleare, intravedendo in essa, con notevole lungimiranza, una enorme potenzialità di fornitura di energia a basso costo, particolarmente interessante per paesi come l’Italia da sempre sofferenti per la scarsità di risorse energetiche. Ma è altrimenti difficile spiegare come sia stato possibile dedicare tante risorse [4] allo sviluppo delle tecnologie elettronucleari in paesi quali USA, URSS, UK, ampiamente dotate di risorse energetiche fossili a basso prezzo, in anni nei quali non si era certo ancora cominciato a parlare di un loro possibile esaurimento, né tanto meno esisteva ancora una diffusa sensibilità ai problemi ambientali.
Facendo un piccolo passo indietro vale comunque la pena di ricordare che nel mondo scientifico la consapevolezza delle potenzialità di utilizzo pacifico dell’energia da fissione atomica, si sviluppò assai precocemente, e contemporaneamente alla scoperta del suo enorme potenziale distruttivo. Ne sono una testimonianza significativa, per esempio, le conclusioni dei lavori della famosa commissione scientifica MAUD [5], che riunì i migliori scienziati inglesi che si occupavano di ricerche nucleari, contenute in due rapporti paralleli, emessi nel luglio del 1941, intitolati rispettivamente “Use of Uranium for a Bomb” e “Use of Uranium as a Source of Power”. Il primo concludeva che una bomba era fattibile, delineando nel contempo come realizzare un impianto per la produzione del materiale necessario, cioè dell’isotopo U-235. Il secondo affermava che era possibile realizzare la fissione controllata dell’uranio, usando come moderatori l’acqua pesante o la grafite, producendo calore e vari radioisotopi utili; il rapporto affermava inoltre che utilizzando uranio naturale leggermente arricchito ed acqua leggera come moderatore sarebbe stato possibile realizzare una “caldaia nucleare”. La commissione sottolineava che questi sviluppi avrebbero avuto un notevole potenziale in tempo di pace, anche se ne sconsigliava l’avvio, vista la preminenza delle esigenze belliche.
Circa nello stesso periodo, negli Stati Uniti, gli studi condotti da una commissione della National Academy of Science erano inizialmente indirizzati ad applicazioni pacifiche della fissione, e fu solo dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour, alla fine del 1941, che l’obbiettivo cambiò drasticamente, ed una enorme quantità di risorse furono esclusivamente dedicate alla realizzazione di tutto quanto sarebbe servito per la bomba atomica (Progetto Manhattan).
Nel dopoguerra, utilizzando le ampie conoscenze messe assieme per lo sviluppo degli ordigni nucleari, l’Occidente e l’URSS, furono in grado di riprendere le idee di un utilizzo pacifico dell’energia nucleare. In ogni caso, se il primo reattore in grado di produrre una piccola quantità di energia elettrica era stato, già nel dicembre del 1951, lo EBR-1 (Experimental Breeder Reactor), un reattore sperimentale del tipo “autofertilizzante” messo in funzione dagli USA, fu solo dopo il 1953 con il lancio del programma Atoms for Peace del presidente Eisenhower che ci fu un consistente riorientamento dei programmi di ricerca verso le applicazioni civili dell’energia nucleare.
Lo sviluppo di configurazioni di impianto adatte alla produzione di energia passò comunque ancora in buona parte attraverso esigenze militari; in effetti lo sviluppo della centrale dimostrativa da 90 MWe di Shippingport, in Pennsylvania, la prima a entrare in servizio in Occidente nel 1957, fu in larga parte debitore del progetto che aveva portato, nel 1953 alla realizzazione del Mark 1, il prototipo dei reattori pressurizzati ad acqua leggera (PWR) ed ossido di uranio arricchito che equipaggiarono i sottomarini a propulsione nucleare della classe Nautilus. A questo impianto prototipale fece seguito nel 1960 la prima centrale PWR commerciale da 250 MWe, che la Westinghouse realizzò a Yankee Rowe nel 1960. Contemporaneamente era stata messa a punto dallo Argonne National Laboratory la tecnologia dei reattori ad acqua bollente (BWR) il cui prototipo fu avviato a Vallicitos nel 1957, giungendo poi nel 1960 alla unità commerciale da 250 MWe di Dresden-1, realizzata dalla General Electric.
Strade alternative furono inizialmente tentate dall’Inghilterra con i reattori di tipo Magnox, alimentati a uranio naturale metallico, moderati a grafite e raffreddati a gas (primo prototipo da 50 MWe a Calder Hall nel 1956), dalla Francia (con una variante dei reattori Magnox) e dal Canada (reattori ad uranio naturale, moderati ad acqua pesante).
L’Unione Sovietica adattò invece alla produzione di energia lo schema dei reattori inizialmente sviluppati per la produzione di plutonio per gli ordigni nucleari. Si trattava dello stesso schema di impianto a canali d’acqua in pressione, moderato a grafite, che con vari perfezionamenti sarebbe evoluto nel tipo di unità in servizio anche a Chernobil. Il prototipo AM-1 di questa filiera di reattori, che aveva indubbiamente il vantaggio di una grande economicità di realizzazione [6], ma di una forte pericolosità intrinseca, entrò in servizio a Obninsk nel 1954; la potenza elettrica prodotta era modesta, 5 MWe, ma si trattò effettivamente del primo impianto al mondo in grado di fornire una quantità significativa di energia elettronucleare. Anche in URSS bisognò comunque aspettare una decina d’anni prima che entrassero in funzione dei reattori di caratteristiche più industriali e di potenze più significative, quali i reattori del tipo VVER (simili ai PWR) da 210 MWe della centrale di Novovoronezh, sul Volga (1964).
I Sovietici realizzarono anche piccoli reattori in gradi di produrre, assieme all’elettricità, calore da distribuire nelle reti di teleriscaldamento delle loro città, specialmente nelle aree più fredde del paese.
Origini e sviluppi del nucleare in Italia
Riservando solo un fugace accenno, per motivi di spazio, a far memoria dell’importante contributo che l’ambiente scientifico italiano diede negli anni ’30 allo sviluppo della fisica dei fenomeni nucleari (purtroppo abbinato al ricordo del fatto che un genio come Enrico Fermi fu costretto a emigrare negli USA dalle eleggi razziali del 1938), possiamo in qualche modo fissare la data di inizio delle vicende elettronucleari italiane al 19 novembre del 1946, quando a Milano fu fondato il CISE (Centro Informazioni Studi Esperienze), un piccolo centro di ricerche dedicato allo studio dell’utilizzo pacifico dell’energia nucleare. La fondazione del CISE, che avvenne ad opera della Edison, allora la maggiore azienda elettrica italiana, con l’apporto della Fiat e della Cogne Acciai Speciali, pur nei limiti delle clausole del trattato di pace, della pesante situazione economica dell’immediato dopoguerra e delle modeste risorse messe a disposizione dal capitale privato, segnò l’inizio dell’interesse dell’industria italiana per una forma di energia che si intuiva di potenzialità enormi per un paese come il nostro, povero di risorse energetiche proprie.
Sei anni più tardi, anche la mano pubblica decise di coinvolgersi nelle ricerche, così che nell’ambito del CNR fu fondato il CNRN (Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari). Purtroppo l’atto fondativo avvenne con scarsa chiarezza il quanto il nuovo comitato non aveva né autonomia amministrativa, né fondi regolari propri. Le cose sarebbero cambiate solo nel 1960 quando il comitato divenne un ente indipendente, assumendo la denominazione di CNEN (Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare). Intanto anche l’industria pubblica iniziava a interessarsi di nucleare: nel 1956 venne fondata l’Agip Nucleare, che da subito manifestò la sua intenzione di non dedicarsi solamente alle ricerche, siglando un accordo con gli inglesi per la costruzione in Italia di un reattore della filiera Magnox.
In verità fu ben presto chiaro che era tutto il comparto industriale a non avere molte intenzione di attendere la conclusione degli studi che erano stati intrapresi per la realizzazione di un reattore di progetto italiano [7] cosicché verso la fine degli anni ’50, in un’Italia che assaporava il clima del boom economico, ma che certamente non era ancora un colosso industriale, iniziò una specie di gara [8] a chi per primo riuscisse a mettere in funzione una centrale elettronucleare, naturalmente non senza l’appoggio e le pressioni dei grandi gruppi industriali dei paesi che avevano vinto la guerra, America ed Inghilterra.
La Edison, a capo di un consorzio di imprese pubbliche e private, si lanciò pertanto nella costruzione a Trino Vercellese di un reattore PWR da 260 MWe con tecnologia Westinghouse, la SENN (Società Elettro Nucleare Nazionale, del gruppo pubblico IRI-Finelettrica) in quella della centrale da circa 160 MWe del Garigliano, che adottava la tecnologia BWR della General Electric e l’Agip Nucleare in quella dell’impianto da 210 MWe di Latina, che adottava un reattore a gas-grafite prodotto dalla società inglese NPCC. Nel 1964 questi tre impianti erano stati terminati ed erano tutti quanti entrati regolarmente in funzione [9]. Nel 1966 produssero ben 3,6 miliardi di kWh: l’Italia si trovava al terzo posto fra le nazioni con maggiore potenza installata e produzione elettronucleare!
Sul rampante mondo nucleare italiano era però già caduta una “atomica” che ne sconvolse i giovani equilibri: nell’estate del 1963 al prof. Felice Ippolito, presidente del CNEN, aveva ricevuto un avviso di garanzia [10] per presunte irregolarità amministrative nella gestione dell’ente. All’avviso seguì il processo ed una esemplare condanna a 11 anni di carcere, interrotti nel 1966 dalla grazia del Presidente della Repubblica. Il 1963 fu anche l’anno della nazionalizzazione dell’industria elettrica italiana e della nascita dell’ENEL.
Alla fine degli anni ’60 il CNEN tentò di riordinare le idee e di lanciare due programmi su reattori di ricerca nazionali, il PEC ed il CIRENE [11], che se fossero stati realizzati in tempi ragionevoli avrebbero forse rilanciato l’Italia nel novero delle nazioni in grado di realizzare impianti nucleari. Ma questi due progetti ebbero una vita così lunga e travagliata (nel 1986 non erano stati ancora conclusi) che si tradussero in pratica solo un colossale spreco di risorse pubbliche.
Negli anni ’70 l’industria elettromeccanica e nucleare nazionale produsse in ogni caso una discreta mole di lavoro, sia costruendo impianti e componenti su licenza americana, sia partecipando a progetti innovativi. Così l’ENEL e l’Ansaldo Meccanico Nucleare realizzarono la centrale BWR di Caorso (830 MWe), entrata in servizio nel 1978, ed un consorzio di industrie italiane partecipò in Francia alla costruzione della centrale autofertilizzante Super Phoenix. In sostanza l’apparato industriale, pur basato su diverse aziende produttive di non grandissime dimensioni, dimostrò buone capacità, si attrezzò gradualmente anche in funzione della costruzione delle ulteriori quattro centrali nucleari da 1000 MWe ciascuna, che l’ENEL aveva ordinato fra il 1973 e il 1974, e sarebbe stato molto probabilmente in grado di rispondere adeguatamente alla grande domanda del mercato interno che sembrava prospettarsi. In effetti la prima crisi petrolifera del ’73 sembrò giocare fortemente a favore dell’energia nucleare, tant’è vero che fra CNEN e CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) nel 1975 fu concordato un faraonico, Piano Energetico Nazionale (PEN), purtroppo basato su previsioni di aumento dei consumi elettrici molto esagerate, che prevedeva la costruzione di almeno una ventina di centrali nucleari.
La realtà si dimostrò molto diversa degli esercizi di programmazione: oltre al calo della domanda indotto dalle crisi energetiche, le risorse finanziarie per la costruzione non si trovavano e soprattutto erano iniziate forti opposizioni politiche e popolari alla localizzazione degli impianti, tanto che con grande fatica si riuscì a mettere in moto solo la localizzazione di due reattori a Montalto di Castro, nell’Alto Lazio. Le previsioni del PEN subirono un primo ridimensionate nel 1977 ed un secondo nel 1981, riducendo il numero degli impianti nucleari da costruire entro fine decennio a non più di sette [12].
Intanto le opposizioni locali erano ulteriormente aumentate, specie dopo l’incidente americano al reattore di Three Mile Island, del marzo 1979, che rimise molto in discussioni le convinzioni sulla sicurezza degli impianti nucleari. Ma é indubbio che le opposizioni locali fecero spesso molto comodo alle indecisioni ed ai contrasti dell’ambiente governativo, al quale tornò facile addossare tutte le colpe a pochi sindaci irresponsabili.
Alle fine comunque, nel 1983, fu trovato in parlamento un accordo quasi unanime su un paio di “leggine” che consentissero di superare gli ostacoli alle localizzazioni, trasferendo le decisioni al CIPE se i poteri locali non arrivano ad una decisione entro un certo tempo e prevedendo una serie di compensazioni economiche ai comuni interessati, sia durante la costruzione che nel successivo periodo di esercizio delle centrali nucleari (ed anche a carbone).
Nel marzo del 1986 il CIPE approvò una ulteriore revisione del PEN, nel quale si prevedeva che entro il 2000 sarebbero state completate: la centrale di Montalto di Castro, allora già in avanzato stato di costruzione, quella di Trino 2, già in ordine, ed altre quattro centrali, per un totale complessivo di circa 13.000 MW [13].
Ma il 26 aprile del 1986 avvenne il grave incidente della centrale ucraina di Chernobil. Nel giro di qualche giorno gli organismi di controllo nazionali (ENEA) cominciarono a dimostrare la loro alta efficienza nel misurare gli effetti della nube radioattiva portata dai venti, e la loro altrettanto grande incapacità a spiegare in maniera convincente alla gente cos’era successo e quali erano i reali pericoli. Senato e parlamento chiesero subito la convocazione di una conferenza nazionale sull’energia, che si tenne però solamente a fine febbraio 1987. Durante tale conferenza la maggior parte degli interventi scientifici fu favorevole al proseguimento dei programmi nucleari, anche se grande peso negativo ebbe la relazione del Ministero della Sanità, la quale affermando fra l’altro che “La scala delle conseguenze associate ad alcuni incidenti dei quali non é possibile escludere l’accadimento, induce a ritenere che i concetti di sicurezza propri dei reattori dell’attuale generazione non siano sufficienti a garantire livelli di rischio socialmente accettabili”, faceva di ogni erba un fascio assimilando i laschi criteri di sicurezza sovietici a quelli occidentali.
Quella conferenza si dimostrò comunque del tutto inutile perché il mondo politico aveva ormai già preso le sue decisioni e la sua attenzione era rivolta alla preparazione del referendum [14] che si sarebbe svolto a fine anno. Come è noto tutti i partiti, compresa la DC che si era sempre dichiarata in precedenza favorevole al nucleare, meno i Partiti Liberale e Repubblicano, diedero indicazione ai loro elettori di votare a favore dei quesiti referendari; questo ebbe l’effetto di portare molta gente alle urne, facendo superare ampiamente il quorum e di rendere abbastanza scontato il voto.
Ma il risultato referendario per quanto avrebbe di nuovo reso molto difficoltosa la localizzazione di nuovi impianti, non implicava di per sé la necessità di quel completo stop al nucleare che il mondo politico italiano decise di adottare, andando molto al di là delle intenzioni di buona parte dell’elettorato, od almeno di quella parte che aveva probabilmente voluto indicare la sua preoccupazione per la sicurezza degli impianti, ed aveva sperato in quella occasione per un miglioramento della legislazione in vigore, ma non aveva certo immaginato i successivi atti (o non atti) governativi, e le conseguenze che ne derivarono. In particolare gli spaventosi sprechi di denaro pubblico e di risorse umane che avvennero con la chiusura degli impianti nucleari esistenti, anche quelli in perfetta efficienza, e con l’interruzione dei lavori della centrale di Montalto di Castro, già completata all’80%.
Se il biasimo per i governi nazionali e locali di quegli anni può essere grande, non si può fare a meno di constatare che il mondo tecnico scientifico nucleare italiano si dimostrò in occasione del referendum scarsamente capace di convincere la gente della bontà delle proprie argomentazioni e di trovare i canali di comunicazione adatti a far comprendere la posta in gioco. Per spiegare questo fallimento a nostro parere è importante ricordare che il mondo nucleare italiano aveva negli anni precedenti “bruciata” buona parte della sua credibilità di fronte all’opinione pubblica, sia lasciandosi trascinare nelle poco realistiche previsioni di crescita dei Piani Energetici Nazionali, più volte ridimensionati e smentiti, sia dimostrandosi inconcludente nei suoi progetti di costruzione e di ricerca. A livello più sostanziale, quello cioè delle lotte fra potentati economici, ai piani energetici nazionali così sbilanciati verso l’energia nucleare non corrispose una effettiva capacità e forza del relativo mondo industriale, né dell’ENEL, di monopolizzare la scena energetica nazionale, così come successe per esempio nella vicina Francia. Ma noi non avevamo una “Force de Frappe” [15], a giustificare la necessità di tante centrali nucleari, e così finirono per prevalere gli interessi e gli argomenti, pur di corto respiro, del comparto petrolifero e di un potentissimo ente pubblico quale l’ENI, istituzionalmente dedicato allo sfruttamento degli idrocarburi (se pur in parte impegnato esso stesso nel nucleare), che a tante velleità e incognite opponevano la banale concretezza di una fonte energetica percepita come pulita e in quegli anni a bassissimo costo. Sta di fatto che il tentativo di egemonia finì per ritorcersi contro, in maniera molto pesante, al partito del nucleare, determinando una stasi industriale che è durata vent’anni.
Se in Italia la tecnologia nucleare si è quasi del tutto fermata [16], non altrettanto è successo nel resto dell’Europa e del mondo, e particolare attenzione è stata dedicata ai problemi che ne hanno fin qui maggiormente condizionato la penetrazione, cioè la sicurezza, lo smaltimento delle scorie e gli effettivi costi.
Lo stato attuale e futuro della tecnologia nucleare
La sicurezza
Le soluzioni tecnologiche oggi disponibili per gli impianti elettronucleari sono molteplici, e tutte hanno affrontato il problema della sicurezza in maniera ancora più approfondita di quanto non fosse stato fatto nelle prime generazioni d’impianti (un sintetico schema dell’evoluzione passata e futura della tecnologia elettronucleare è riportato sulla fig.1).
Le soluzioni tecnologiche oggi disponibili per gli impianti elettronucleari sono molteplici, e tutte hanno affrontato il problema della sicurezza in maniera ancora più approfonditadi quanto non fosse stato fatto nelle prime generazioni d’impianti(un sintetico schema dell’evoluzione passata e futura della tecnologia elettronucleare è riportato sulla fig.1).
fig. 1 Evoluzione della tecnologia nucleare a fissione
Per non appesantire troppo il discorso ci limiteremo ad esaminare la situazione europea, descrivendo brevemente le principali caratteristiche dei reattori nucleari cosiddetti di “terza generazione plus”, un paio dei quali sono in stato di avanzata costruzione in Finlandia (Olkiluoto) e in Francia (Flamanville). Si tratta di reattori del tipo denominato EPR (European Pressurized Reactor), costruiti dal consorzio franco-tedesco AREVA, che rappresentano lo stato dell’arte attuale della tecnologia nucleare europea, e che dovrebbero corrispondere a quanto anche da noi si potrà realisticamente costruire da qui a quattro-cinque anni, mentre per gli impianti cosiddetti di “quarta generazione” bisognerà probabilmente attendere fino ad oltre il 2030
Sostanzialmente un impianto di terza generazione plus, quali i due appena citati, è un perfezionamento dei precedenti progetti PWR, realizzati nel mondo in moltissimi esemplari, che erano anche la filiera scelta per i reattori italiani PUN, alla metà degli anni ’80.
Il nocciolo del reattore, racchiuso in un unico vessel (contenitore) in acciaio, é moderato e raffreddato con acqua leggera in pressione; il circuito primario, lavora alla pressione 155 bar e alla temperatura di circa 300 °C, ed completamente separato dal circuito secondario, costituito da quattro generatori di vapore che alimentano la turbina. La potenza elettrica è di 1600 MWe e la potenzialità di produzione dell’ordine di 10 miliardi di kWh all’anno (fig.2, accanto al titolo)
Un reattore di questo tipo utilizza circa 30 tonnellate all’anno di combustibile costituito da ossido di uranio arricchito fino al 5%, e può utilizzare anche ossidi misti di uranio e plutonio. Produce in un anno una quantità di scorie altamente radioattive dell’ordine delle tre tonnellate, oltre a una trentina di tonnellate (qualche centinaio di metri cubi) di rifiuti a bassa radioattività, generati durante le attività di gestione e manutenzione. Peraltro, rispetto ad una centrale alimentata con combustibili fossili di equivalente potenza e produzione, che movimenterebbe in un anno da 2 a 3 milioni di tonnellate di combustibile, si evita la immissione nell’ambiente di una quantità stimabile fra 5 e 10 milioni di tonnellate di sola anidride carbonica (a seconda che si consideri l’utilizzo di gas naturale o carbone) senza contare gli altri inquinanti quali SOx, NOx, polveri, ceneri.
Dal punto di vista della sicurezza il progetto EPR è caratterizzato non solo dalla presenza di un doppio edificio di contenimento del reattore, in cemento armato ed acciaio, ma anche dalla particolare conformazione degli edifici di contenimento, che sono in grado di evitare ogni rilascio (pur minimo) all’esterno di materiali radioattivi, anche nel caso si verifichi il più grave degli incidenti possibili, quello della fusione del nocciolo del reattore (ciò non era invece garantito nei progetti precedenti, come si constatò nell’incidente di Three Mile Island).
Dal punto di vista della tecnologia il reattore EPR [17] rappresenta quanto di meglio è disponibile, consentendo di ottenere:
-una elevata potenza unitaria, con vantaggi in termini di costo per MW installato;
-un elevato rendimento termodinamico stimabile fra il 36 e 37%, in funzione del sito;
-tempi ridotti di costruzione (mediamente 5 anni), grazie alla modularità e alla standardizzazione in fase di realizzazione;
-una vita effettiva dell’impianto stimata in 60 anni;
-una gestione del combustibile flessibile ed avanzata;
-una elevata disponibilità, stimata al 92% durante tutta la vita dell’impianto, ottenuta attraverso alti tassi di bruciamento del combustibile nucleare, ridotti tempi delle operazioni di ricarica e possibilità di eseguire operazioni di manutenzione con l’unità in esercizio
Il problema delle scorie
Per quanto riguarda la gestione delle scorie prodotte da un simile reattore, valgono una serie di considerazioni che sono più o meno comuni a tutte le filiere.
Per quanto riguarda la gestione delle scorie prodotte da un simile reattore, valgono una serie di considerazioni che sono più o meno comuni a tutte le filiere.
Il rifiuto su cui viene maggiormente concentrata l’attenzione è il combustibile esaurito. In esso sono contenuti sia gli elementi radiotossici più pericolosi, sia gli elementi transuranici, come il plutonio, riutilizzabili come nuovo combustibile (ma non come esplosivo nucleare). La possibilità di effettuare questo recupero implica un ciclo del combustibile “chiuso” nel quale gli elementi di combustibile esauriti vengono trattati in opportuni impianti di riprocessamento.
Mentre in Europa il ciclo del combustibile comprendente il riprocessamento fa ormai parte dell’industria nucleare e addirittura si presta allo smaltimento del plutonio derivante dalla distruzione delle testate nucleari, negli USA, per una precisa scelta politica attuata una trentina di anni fa dall’amministrazione Carter, il combustibile esaurito è accantonato tal quale in attesa di essere immagazzinato in un deposito definitivo nel sottosuolo di una zona desertica dello stato del Nevada (fig.3). Questa politica statunitense, volta ad impedire la nascita di un mercato del plutonio per usi non pacifici, è tuttora oggetto delle critiche di molti specialisti che vedono nello stoccaggio del combustibile esaurito senza alcun trattamento i presupposti per un deposito di plutonio di grandi dimensioni per il quale sarà assai difficile garantire l’inaccessibilità a malintenzionati per un futuro di migliaia di anni.
In prospettiva gli sforzi per i generatori di nuova generazione, necessariamente caratterizzati da uno “spettro neutronico veloce”, sono indirizzati proprio a rendere il ciclo del combustibile “sostenibile”, sia dal punto di vista della generazione delle scorie, minimizzando l’accumulo di plutonio e di attinidi minori mediante strategie innovative di “bruciamento” negli stessi reattori elettronucleari, sia anche dal punto di vista del rapido esaurimento delle scorte conosciute di uranio, che si intravede se fosse utilizzato esclusivamente un ciclo del combustibile “aperto”.
A differenza di quelli della seconda-terza generazione nei reattori “veloci” i neutroni emessi dalle fissioni dei nuclei di uranio non vengono moderati (rallentati), ma interagiscono con il materiale fissile con un’energia prossima a quella che possedevano al momento della fissione (mentre nei reattori tradizionali i neutroni “termici”, rallentati dal moderatore, hanno energie assai minori). In questo modo è possibile “bruciare” anche dell’uranio naturale o del combustibile impoverito. Bisogna peraltro partire da una situazione in cui il nocciolo del reattore è diviso in una parte centrale, detta “seme”, costituita da uranio molto arricchito, o plutonio (o una miscela dei due) e da un “mantello” esterno di materiale meno attivo, che però gradualmente si arricchisce di nuclei fissili attraverso un processo di fertilizzazione che in sostanza produce più “combustibile” di quanto ne consuma. Si attiva in tal modo un ciclo del combustibile nel quale l’uranio viene sfruttato in maniera molto più intensa, e diventa una risorsa praticamente inesauribile. Perché ciò avvenga è peraltro necessario eliminare l’acqua come mezzo di refrigerazione del nucleo, in quanto essa ha un forte effetto moderatore, e passare a refrigeranti quali il sodio [18] o il piombo liquidi (con complicazioni tecnologiche che sono facilmente immaginabili). Per completezza accenniamo brevemente anche al fatto che il fenomeno della fertilizzazione può essere ottenuto anche con i neutroni termici, ma a condizione di utilizzare come materiale fissile il torio al posto dell’uranio. Anche in questo caso si dà origine ad un ciclo del combustibile sostenibile, a maggior ragione in quanto le riserve accertate di torio sono più abbondanti di quelle di uranio. Infine va ricordato che nel caso dei reattori veloci le scorie ad alta radioattività che vengono al fine prodotte sono in minore quantità e meno attive [19].
Resta comunque il fatto che pur in presenza di un ciclo ottimale con il quale bruciare la maggior quantità di scorie possibili, nel sistema nucleare, come in tutti i sistemi industriali, viene prodotta una certa quantità di rifiuti. Per questi la destinazione finale non potrà che essere un deposito definitivo in luoghi in cui il rilascio di radioattività nell’ambiente sia praticamente nullo per i radionuclidi che decadono nel giro di qualche decennio, oppure per quello a vita lunghissima sia così lento da risultare inferiore ai rilasci di radioattività naturale dei giacimenti di minerale.
Benché i siti di stoccaggio del combustibile esaurito non abbiano mai avuto incidenti duranti i vari decennio di storia dell’energia nucleare, la necessità di allestire depositi di stoccaggio per il materiale radioattivo con garanzie di sicurezza e compatibilità ambientale per tempi estremamente lunghi viene da molti considerato un punto di debolezza del sistema nucleare. Questo aspetto critico, spesso molto enfatizzato a causa del suo forte impatto psicologico, caratterizza però a ben vedere anche lo smaltimento di alcuni rifiuti chimici pericolosi, la cui tossicità può anch’essa durare per tempi molto lunghi o essere addirittura permanente.
I costi economici
E’ importante sottolineare che a differenza degli impianti termoelettrici tradizionali, per i quali il costo di produzione è per lo più legato al costo del combustibile, negli impianti nucleari il costo di produzione è fortemente dipendente dai costi di investimento, che a loro volta hanno un valore ingente a causa della grossa taglia, degli alti costi delle tecnologie coinvolte e della maggior durata del periodo di costruzione. Tuttavia, gli alti costi di investimento sono controbilanciati da una minore incidenza del prezzo del combustibile e dalla possibilità di costituirne scorte in grado di coprire la produzione di diversi anni.
In particolare nei mercati elettrici liberalizzati la natura capital intensive di un impianto nucleare induce gli investitori ad un atteggiamento molto cautelativo nei riguardi di una tecnologia che è soggetta a forti rischi legati alla criticità della fase autorizzativa, alla aleatorietà dei prezzi dell’energia durante la lunga vita operativa dell’impianto, ai problemi di sicurezza durante la vita operativa ed alle problematiche del decommissioning (smantellamento) a fine vita. E’ evidente che i suddetti rischi hanno un diretto impatto sul costo del capitale e quindi penalizzano progetti capital intensive. In effetti proprio queste considerazioni di natura economica, più ancora che problemi tecnici legati alla gestione delle scorie o alla sicurezza dell’impianto, hanno indotto una stasi negli investimenti nel nucleare nel mondo occidentale dopo gli incidenti di Three Mile Island e Chernobyl. Questa situazione ha impedito, tra l’altro, che si creassero dei riferimenti condivisi circa i costi per la realizzazione e l’esercizio di impianti nucleari basati sulle tecnologie disponibili, e tali incertezze hanno ovviamente indotto gli investitori e i policy makers a considerare con molta cautela la tecnologia nucleare come possibile opzione per nuova capacità di produzione.
In un recente studio effettuato coi fondi pubblici della “Ricerca per il Sistema Elettrico”, la società CESI RICERCA di Milano, ha analizzato le principali voci di costo degli impianti nucleari attualmente disponibili valutando, mediante un modello economico finanziario, il loro contributo al costo complessivo dell’energia elettrica prodotta. In particolare, è stata effettuata un’analisi di sensitività del costo di produzione al variare dei parametri economici più significativi, prendendo come riferimento il nuovo reattore EPR.
Analizzando due scenari economici differenti, uno scenario “merchant” nel quale i capitali fossero disponibili a tassi di mercato e uno scenario con capitali a tasso di interesse agevolato, è stata calcolata una “forbice” piuttosto elevata del costo dell’energia elettrica prodotta, giungendo a valori del costo unitario quasi doppio nel primo caso, confermando il ruolo chiave giocato dalle modalità di finanziamento dell’investimento e dal regime fiscale applicato.
Confrontando questi valori con gli odierni costi dell’energia prodotta dagli impianti convenzionali, il costo del megawattora prodotto dal nucleare risulta per altro, in entrambi gli scenari, più conveniente rispetto a quello dei cicli combinati a gas. Per contro, la convenienza del nucleare rispetto alla produzione a carbone è evidente solo nello scenario a tassi di interesse ridotti, mentre nello di scenario “merchant” i valori per le due tecnologie sono confrontabili.
La situazione potrebbe risultare ancora più favorevole alla produzione nucleare includendo nei costo dell’energia prodotta da impianti a carbone anche la tassa sulla CO2, od altri significativi aumenti di prezzo dei combustibili fossili.
Occorre comunque rilevare che, nel caso di più reattori realizzati in serie, eventualmente sullo stesso sito, il costo potrebbe scendere decisamente anche nell’ipotesi “merchant”. La disponibilità di più reattori consentirebbe inoltre di predisporre una soluzione più stabile ed economica anche per il trattamento delle scorie e il loro stoccaggio in adeguati depositi.
Resta in ogni caso il problema legato agli ingenti investimenti richiesti per cogliere i benefici del fattore di scala e la difficoltà di intercettare il capitale sul mercato del credito, anche in considerazione del lungo tempo di ritorno dell’investimento.
Inoltre è chiaro che per quanto riguarda l’economicità della opzione nucleare molto dipenderà, anche in futuro, dal confronto con i prezzi delle fonti energetiche di confronto (fossili) che potrebbero di nuovo scendere anche per effetto di un massiccio ricorso all’energia nucleare che ne facesse diminuire significativamente il consumo (ma l’ipotesi ci sembra francamente abbastanza remota).
I reattori di quarta generazione
I reattori di quarta generazione sono delle tipologie di impianto fortemente innovative, attualmente solo allo studio [20], mediante le quali il mondo nucleare si propone di superare i limiti dell’attuale tecnologia con decisi miglioramenti della economicità, sostenibilità, sicurezza, resistenza alla proliferazione ed agli attacchi dolosi. Questi reattori potranno però difficilmente essere operativi prima del 2030.
I reattori di quarta generazione sono delle tipologie di impianto fortemente innovative, attualmente solo allo studio [20], mediante le quali il mondonucleare si propone disuperare i limiti dell’attuale tecnologia condecisi miglioramenti della economicità, sostenibilità, sicurezza, resistenza alla proliferazione ed agli attacchi dolosi. Questi reattoripotranno però difficilmenteessere operativi prima del 2030.
La tabella [a] seguente riporta la sigla e le tipologie dei progetti allo studio nel mondo, nonché i paesi che vi sono coinvolti.
Tabella [a]
Acronimo | Tipologia di reattore | Paesi maggiormente interessati |
GFR | Gas-Cooled Fast Reactor | Francia, Giappone, Sud Corea, Sud Africa, Svizzera, UK, USA |
VHTR | Very-High-Temperature Reactor | Canada, Francia, Giappone, Sud Corea, Sud Africa, Svizzera, UK, USA |
MSR | Molten Salt Reactor | Francia, USA |
SFR | Sodium-Cooled Fast Reactor | Francia , Giappone, Sud Corea, UK, USA, Italia |
SCWR | Supercritical-Water-Cooled Reactor | Canada, Francia, Giappone, Sud Corea, USA |
LFR | Lead-Cooled Fast Reactor | USA, Italia, Giappone, Sud Corea |
Non abbiamo spazio per una descrizione dei vari progetti, e ci limiteremo solo ad un breve accenno alle caratteristiche dei reattori LFR, uno dei due progetti nel cui sviluppo è coinvolta anche l’Italia.
L’LFR (Lead Fast Reactor) è un reattore di tipo veloce che impiega il piombo liquido o una lega eutettica piombo-bismuto come fluido termovettore. E’ un reattore che opera secondo un ciclo chiuso del combustibile mediante conversione dell’uranio fertile e la gestione delle scorie (attinidi). Le opzioni attualmente allo studio includono una configurazione di piccola e media taglia (50 – 150 MWe) con tempi assai lunghi per la sostituzione del combustible, una di media taglia di tipo modulare (300 – 400 MWe) ed infine una di grossa taglia con potenze fino a 1200 MWe. (fig. 5)
Data l’alta temperatura del metallo liquido in uscita dal nocciolo, circa 550 °C, il reattore LFR è concepito anche per produrre idrogeno mediante processi termochimici.
All’interno del 6° Programma Quadro di ricerca della EU è stato lanciato un progetto triennale denominato ELSY (European Lead-cooled SYstem), coordinato da Ansaldo Nucleare, che consiste in test sperimentali e nello studio di fattibilità di un reattore veloce a piombo di elevata potenza (almeno 600 MWe), propedeutico alla progettazione e costruzione di un impianto dimostrativo nei prossimi anni. Al Progetto ELSY partecipano 20 organizzazioni internazionali fra centri di ricerca (non solo europei), aziende elettriche e costruttori.
Accenniamo molto brevemente anche ai reattori autofertilizzanti che utilizzano come combustibile il torio-232, un elemento presente in natura in quantità assai più abbondante dell’uranio, e che non richiede arricchimento. Questi reattori presenterebbero il vantaggio di non produrre plutonio, ma di essere eventualmente in grado di “bruciarlo” al loro interno, ed anche di produrre scorie meno radioattive: potrebbero quindi essere vantaggiosi da diversi punti di vista, compreso quello dei rischi di proliferazione nucleare.
Quale futuro per il nucleare in Italia?
Il rinnovarsi di un forte interesse, in tutto il mondo, per la produzione di energia elettrica da fissione nucleare è chiaramente collegato ai due problemi che maggiormente preoccupano il mondo dell’energia: il forte aumento dei prezzi delle risorse energetiche fossili e la necessità di contenere le emissioni di anidride carbonica in atmosfera.
Il rinnovarsi di un forte interesse, in tutto il mondo, per la produzione di energia elettrica da fissione nucleare è chiaramente collegato ai due problemi che maggiormente preoccupano il mondo dell’energia: il forte aumento dei prezzi delle risorse energetiche fossili e la necessità di contenere le emissioni di anidride carbonica in atmosfera.
E’ noto che il primo di questi due problemi assilla in modo particolare il nostro paese, data la forte dipendenza del sistema energetico italiano da gas e petrolio, mentre il secondo diverrà sempre più urgente per la necessità di raggiungere gli obbiettivi di riduzione delle emissione che ci sono richiesti dalla Comunità Europea e dal protocollo di Kyoto.
E’ indubbio che il ricorso all’energia nucleare potrebbe dare un consistente contributo alla risoluzione di entrambi i problemi, ma è anche evidente che quella nucleare rimane una tecnologia “difficile”, che procura vantaggi solo a chi è in grado di padroneggiarla in tutti i suoi aspetti e di dare continuità a scelte che richiedono tempi sempre piuttosto lunghi di realizzazione e di ritorno degli investimenti.
A questo scopo ci sembra opportuno ricordare quali sono le strade e quali sono i principali problemi che si aprono di fronte all’Italia, ora che il governo non solo ha manifestato la sua intenzione di riaprire il discorso nucleare, con dichiarazioni del tipo “prima della fine della legislatura inizieremo la costruzione della prima di una serie di centrali nucleari che dovranno coprire al 2030 almeno il 20% dei fabbisogni di energia elettrica del paese”, ma ha anche messo in moto le prime azioni in questa direzione.
La prima constatazione che ci viene da fare a proposito di queste intenzioni governative, è che oggi a differenza degli anni ’80, la costruzione di nuove centrali (si parla di costruirne almeno 6-7, per una potenza complessiva di 10-12.000 MW) non è più esclusivamente nelle mani di un ente unico e nazionalizzato qual’era l’ENEL.
Se l’ENEL, che rimane pur sempre il principale produttore nazionale di energia elettrica, si è prontamente “messa sugli attenti”, dichiarando per bocca del suo amministratore delegato di essere pronta a riprendere il cammino nucleare, magari in consorzio con altri, è evidente che per attuare un significativo programma nucleare sarà necessario il consenso e l’impegno anche degli altri produttori di energia elettrica, almeno di quelli più grossi. Non a caso il sen. Guido Possa di Forza Italia, ingegnere nucleare ed ex dirigente del CISE, ha recentemente dichiarato che “la decisione pro-nucleare è straimpegnativa per il governo, ma si tratta in realtà di una bi-decisione, una che spetta all’esecutivo e l’altra ai produttori di energia che devono fare gli investimenti”. Anche altri produttori, quali Edison che ha fra i suoi azionisti EdF (Electricité de France), cioè il più grande gestore europeo di centrali nucleari, hanno manifestato disponibilità. Ma dove potranno essere reperiti i capitali necessari, si parla di 21-24 miliardi di euro, e che parte vorrà giocare il governo nel favorire il loro reperimento e nel garantire la loro remunerazione, non è ancora ben chiaro, anche se, come si è chiaramente detto nei paragrafi precedenti, si tratta di un problema che condiziona pesantemente la convenienza economica della costruzione delle centrali nucleari. Si sente spesso portare ad esempio lo schema di finanziamento messo in atto per la costruzione delle centrale finlandese di Olkiluoto, che è finanziata da un ampio consorzio di soggetti pubblici e privati, compresi i consumatori di energia elettrica, ma non è facile credere che schemi analoghi possano essere riprodotti in Italia.
Il secondo grosso problema che rimane aperto è quello della localizzazione delle centrali (in seconda battuta anche quello del deposito nazionale dei rifiuti nucleari).
La localizzazione di impianti nucleari sul territorio italiano è oggettivamente più difficile che in altri paesi a più bassa densità abitativa e dotati di territorio meno montuoso o a minore rischio sismico. In effetti non è facile trovare un’area che nel raggio di 10-15 chilometri non abbia grossi insediamenti abitativi, sia geologicamente stabile ed abbia a disposizione i cospicui flussi d’acqua necessari al raffreddamento (oppure accetti l’impatto visivo/ambientale della costruzione di enormi torri di raffreddamento). Una volta individuati i pochi siti adatti (probabilmente in gran parte gli stessi individuati nella “carta dei siti” del 1979) risulterà cruciale per superare la “sindrome NYMBY” che il potere politico individui e trovi ampio consenso sui meccanismi di compensazione per riconoscere ai comuni l’effettivo onere che si assumono accettando la costruzione di una centrale nucleare sul loro territorio.
In ogni caso, salvo che si verifichino sostanziali cambiamenti nei requisiti richiesti per la collocazione di una centrale nucleare, è improbabile che in Italia si riescano ad installare più dei 6-7 impianti nucleari ipotizzati.
Un terzo ordine di problemi è rappresentato dalla necessità di aggiornare il quadro normativo e regolatorio, e di definire incarichi e compiti degli organismi preposti alla verifica. La tecnologia nucleare, per la sua complessità e potenziale pericolosità, richiede che sia il processo costruttivo, sia la gestione degli impianti vengano portati avanti secondo rigorose regole e procedure, all’interno di un quadro regolatorio certo e stabile, che risenta il meno possibile, una volta concordato, della turbolenza e della variabilità del mondo politico.
Purtroppo la ri-definizione di questo quadro, sia esso garantito da una apposita agenzia o sia delegato ad organismi esistenti (opportunamente ristrutturati) ha messo subito in evidenza dei conflitti fra ministeri.
Attualmente quanto è rimasto della preesistente struttura di controllo nucleare italiana è una quarantina di tecnici appartenenti alla APAT [21] (Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e per i servizi Tecnici), un numero di persone assolutamente insufficiente alle nuove necessità. Si parla quindi di dar vita ad una nuova Agenzia od Autorità, dotata di personale e mezzi adeguati, nella quale potrebbero confluire forze della stessa ENEA e della SOGIN (la società delegata allo smantellamento delle centrali nucleari della prima generazione).
Il Ministero dell’Ambiente ritiene che questa agenzia, avendo compiti di sorveglianza, debba essere sotto la sua autorità, ma il Ministero dello Sviluppo Economico, promotore delle iniziative nucleari, assieme a partner industriali, e quindi in effetti soggetto da controllare, vorrebbe però avere voce in capitolo, probabilmente per non subire ricatti o ritardi.
Le cose non sembrano iniziate molto bene; la situazione e molto fluida, staremo a vedere cosa succederà, ma quel che è certo é che la mancanza di responsabilità e di precisi compiti in campo regolatorio, potrà avere effetti devastanti sulla concretezza delle iniziative.
Qualche considerazione conclusiva
La tecnologia elettronucleare da fissione, nata da esigenze belliche, cresciuta a tappe forzate sotto la spinta di potenti pressioni ideologiche, erroneamente esaltata come la panacea di tutti i problemi energetici, ha avuto nel passato vari problemi di tipo tecnico ed economico, nati da gravi sottovalutazioni delle problematiche del suo sviluppo e della sua applicazione, che ne hanno per molti anni rimesso in discussione il ruolo, e rallentato l’utilizzo, in molti paesi.
La tecnologia elettronucleare da fissione, nata da esigenze belliche, cresciuta a tappe forzate sotto la spinta di potenti pressioni ideologiche, erroneamente esaltata come la panacea di tutti i problemi energetici, ha avuto nel passato vari problemi di tipo tecnico ed economico, nati da gravi sottovalutazioni delle problematiche del suo sviluppo e della sua applicazione, che ne hanno per molti anni rimesso in discussione il ruolo, e rallentato l’utilizzo, in molti paesi.
La crescita di prezzo dei combustibili fossili e la pressione al contenimento delle emissioni di carbonio in atmosfera stanno però rimettendo decisamente in gioco a livello mondiale una tecnologia che, ormai in gran parte superati i suoi problemi di gioventù, abbandonate alcune strade senza sbocco, ridimensionate le scuole tecnologiche più avventuriste come quella sovietica, ha raggiunto una notevole maturità tecnica, pur avendo tutt’altro che esaurito le sue potenzialità di innovazione.
Il nucleare offre quindi un vasto potenziale di copertura dei fabbisogni elettrici, ma resta comunque una tecnologia di notevole complessità, sia dal punto di vista delle capacità tecnologiche necessarie per la costruzione delle centrali e per il processamento del combustibile, sia di quelle gestionali necessarie a gestire in sicurezza gli impianti ed il ciclo del combustibile stesso.
Per produrre buoni risultati tecnico-economici e per non creare problemi di sicurezza e proliferazione il sistema nucleare richiede pertanto una gestione molto accurata, ben difficilmente garantibile se non viene mantenuto stabile, ma democraticamente controllabile, il quadro politico e di consenso dei paesi che la vogliono utilizzare, e se ai tecnici non viene consentito di svolgere dignitosamente il loro ruolo.
In Italia, dove le carenze dell’ambiente tecnico-scientifico, e la mancanza di lungimiranza della classe politica ne hanno decretato addirittura un ventennale abbandono, non si può sottacere il fatto che l’avventura nucleare si è purtroppo fin qui risolta in nient’altro che in un colossale spreco di risorse umane e di denaro pubblico. Dunque, pur accordando fiducia alle forze politiche e industriali che ne vogliono rinnovare i fasti (anche se permane qualche timore che un paese che si è dimostrato in difficoltà a gestire perfino la propria immondizia riesca in breve tempo a riguadagnare le capacità tecnico-politiche per rilanciare una simile impresa), riteniamo che vada anche detto con molta forza che il paese non potrebbe tollerare un ulteriore fallimento in questo campo. E’ quindi necessario trovare un vasto consenso fra le forze politiche e sociali, in modo da creare le condizioni perché il nucleare italiano riparta attorno ad un’ipotesi ragionevole, fattibile e largamente condivisa, a partire dal tipo di impianto da costruire [22].
Ci sembra vada anche detto con chiarezza che il potere politico deve evitare che il ritorno al nucleare si trasformi in una operazione di sterile egemonia (già fallita nel passato), che tagli le gambe a qualsiasi altra iniziativa nel campo del risparmio e dell’efficienza energetica (in tutti i comparti, dai trasporti all’edilizia), e delle fonti di energia alternativa, pena l’impedire la nascita e lo sviluppo anche in Italia di quei nuovi settori industriali che originano dalla ricerca dell’efficienza e dall’applicazione sistematica delle fonti rinnovabili (solare, fotovoltaico, eolico, geotermico a bassa temperatura, ecc.), e che stanno già dimostrando di avere grandi potenziali di crescita in altre nazioni europee.
In effetti i fautori dell’energia nucleare sono consci che questo settore potrà ripartire in Italia solo con un congruo sostegno legislativo ed economico dello Stato. Lo afferma per esempio a chiare lettere il senatore Guido Possa della CdL che così scrive in un recentissimo intervento [23]:
“…Il primo e fondamentale compito del Governo sarebbe quello di assumersi…la responsabilità del proprio consenso all’investimento nucleare…
…Un secondo importante intervento del Governo e del Parlamento dovrebbe riguardare l’istituzione di una Autorità avente il compito della regolamentazione delle attività nucleari…
…Un terzo provvedimento a favore del nucleare che il Governo dovrebbe assumere è una sua diretta incentivazione. Il provvedimento sarebbe giustificato dal fatto che alcuni importanti benefici dell’investimento nucleare, come la creazione di notevoli quantità di lavoro anche di alto livello e la diminuzione della dipendenza dall’estero, non avvantaggiano tanto l’investitore quanto l’intero Paese….”
Ma allo stesso modo il settore delle energie rinnovabili e delle razionalizzazione dei consumi energetici ha bisogno di forti incentivi per decollare veramente, che in parte ha già ottenuto con iniziative quali il “conto energia” per i pannelli fotovoltaici, gli sgravi fiscali per la ristrutturazione degli edifici, eccetera. In sostanze dietro le quinte del teatrino delle dispute ideologiche che fanno consumare tanto “inchiostro” ai media è in atto una poderosa lotta (non solo in Italia, ma in tutta Europa) fra potentati economico-industriali per garantirsi l’accesso a questi incentivi e sostegni governativi.
Dove reperire le risorse per sostenere l’epocale cambiamento dell’attuale sistema energetico, che è comunque necessario, costituirà sicuramente una delle maggiori sfide per il Governo, che dovrà trovare veramente il modo di stimolare, non di tartassare, il mondo produttivo in modo che si ricreino rapidamente le risorse necessarie a sostenere non solo il nucleare, ma anche questi nuovi comparti, in modo che si compia una vera e sostanziale diversificazione del sistema energetico italiano. A nostro parere se l’attuale governo puntasse tutte le sue carte sul solo rilancio del nucleare, farebbe un cattivo servizio al paese quanto i governi che l’hanno osteggiato. Il governo deve certo rintuzzare lo strapotere dei gruppi ideologici ed economici che hanno fin qui osteggiato il nucleare, conscio che la loro virulenta e faziosa opposizione è tutt’altro che finita [24], ma deve altresì puntare ad una allocazione equilibrata di risorse che non chiuda nessuna delle nuove strade che il mondo dell’energia sta ormai con decisione percorrendo.
Anche per questo é necessario che venga rilanciata in maniera decisa la ricerca in campo nucleare ed energetico, non su obbiettivi velleitari e irraggiungibili, ma in serie collaborazioni internazionali che ci permettano di partecipare agli sviluppi più innovativi, e nella ricerca incrementale che stimoli il continuo miglioramento dei progetti industriali nei quali ci si impegna.
Lo Stato dovrà in questo senso compiere scelte decise ed al limite impopolari, per rinnovare e rivitalizzare quanto già esiste, o creare del nuovo, in modo da togliere, in particolare la ricerca pubblica, dalle sabbie mobili dell’unico e misero ruolo che per lunghi anni le è stato troppo spesso lasciato, quello del sostegno a tutti costi dell’occupazione [25].
Bibliografia
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AA.VV., L’opzione nucleare in Italia: quali prospettive, Atti dell’omonimo convegno organizzato dalla AIEE, Milano 7 ottobre 2008
H. Etherington, Nuclear Engineering Handbook, Mac Graw Hill Co,
L. Ferravante, F. Parozzi, F. Polidoro, Prospettive per il settore elettronucleare italiano, Rapporto Pubblico di RdS, CESI RICERCA 06006385, Milano, 2006
Barbara Curli, Il progetto nucleare italiano (1952-1964). Conversazioni con Felice Ippolito, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2000
Robert Jungk, Gli apprendisti stregoni, Einaudi, Torino, 1975
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F. Parozzi, Generazione elettronucleare. Situazione e prospettive, Seminario interno CESI Ricerca, Milano, 2008
Mario Silvestri, Il costo della menzogna. Italia nucleare 1945-1968, Einaudi, Torino, 1968
Mario Silvestri, Il futuro dell’energia, Bollati Boringhieri, Torino, 1988
World Energy Council, The Role of Nuclear Power in Europe,
Note
[1] Particolarmente clamoroso il ripensamento di un personaggio quale Chicco Testa, peraltro noto per il suo trasformismo politico-ideologico, che ebbe un notevole ruolo nel referendum antinucleare del 1987, del quale è uscito da pochi mesi il libro: Tornare al Nucleare?L’Italia, l’energia, l’ambiente.
[2] Questo è il motivo di fondo della contesa che attualmente contrappone l’Iran al resto del mondo, in quanto l’arricchimento dell’uranio che l’Iran vorrebbe condurre, nominalmente per scopi pacifici, potrebbe servire per la produzione di ordigni nucleari.
[3] Non è né il primo né l’ultimo caso di tecnologie che hanno origine da esigenze belliche. Ad esempio i primi utilizzi commerciali del gas naturale liquefatto avvennero negli anni ’30 negli Stati Uniti dove esso costituiva un sottoprodotto della produzione di elio per il gonfiaggio dei dirigibili militari. L’elio veniva infatti ricavato dal gas naturale, dove è sempre presente in piccolissima percentuale, liquefacendo il metano e gli altri composti presenti nel gas; poiché essi condensano tutti quanti a temperatura superiore all’elio, quest’ultimo era l’unico a rimanere in fase gassosa, e veniva così facilmente separato.
[4] Forse non è immediatamente percepibile dai non addetti ai lavori, ma gli sforzi e gli investimenti che furono necessari per costruire una tecnologia completamente nuova, in grado di far passare dall’idea della fissione nucleare ad un impianto in grado di funzionare, furono veramente immensi. Si dovettero inventare interi nuovi settori, nelle fisica, nella scienza dei materiali, nella termoidraulica, nella strumentazione meccanica ed elettronica, nella diagnostica, nella radioprotezione, nella stessa organizzazione e gestione del lavoro, ecc., ecc.. Un tale sforzo, di entità paragonabile solamente a quello fu fatto in campo spaziale, richiese un enorme investimento di risorse economiche pubbliche, che molto probabilmente avrebbero fatto una grande fatica ad essere rinvenute, seguendo i normali canali economici e di mercato, stante il basso costo, in quegli anni, della produzione elettrica da fonti energetiche fossili.
[5] La Commissione MAUD si riunì la prima volta nell’aprile del 1940 per decidere che cosa fare per il “problema dell’uranio”. Era presieduta da Sir George Paget Thompson e ne facevano parte sei scienziati inglesi delle università di Birmingham, Bristol, Cambridge, Liverpool e Oxford; dalla commissione rimasero esclusi, per motivi di “sicurezza nazionale”, i due scienziati tedeschi di origini ebraiche, Otto Frisch e Rudolf Peierls, rifugiati in Inghilterra, che per primi avevano analizzato la fattibilità di una bomba atomica, descrivendone le principali fasi realizzative in un memorandum redatto nel febbraio dello stesso anno e fatto avere al prof. Marcus Oliphant dell’Università di Birmingham, che fu uno dei promotori della commissione.
Curiosamente, la commissione deve il suo strano nome in codice ad un sintetico messaggio che il fisico danese Niels Bohr aveva inviato a Frisch subito dopo l’occupazione tedesca di Copenhagen, nel quale si accennava a una “miss Maud Rey at Kent”. Bohr a quanto pare voleva semplicemente avere notizie di questa signorina che era stata la governante dei suoi figli, e che si doveva trovare nel Kent; ma siccome questa persona non si trovava, inizialmente si pensò che Bohr avesse voluto inviare un messaggio in codice (dal testo era stato estratto il presunto messaggio in codice “radium taken”, che sembrava riferirsi a qualcosa attinente a materiali radioattivi). L’equivoco poi si chiarì, ma il nome MAUD rimase alla commissione.
[6] E’ un fatto abbastanza noto che la tecnologia sovietica ha percorso in campo nucleare delle pericolose strade di semplificazione degli impianti, soprattutto dal lato sicurezza (ad esempio mancanza di edifici esterni di contenimento), forse in parte spiegabili con la enorme pressione politica, non temperata da alcun controllo democratico, alla loro realizzazione alla quale gli ingegneri sovietici furono sottoposti.
In questo senso è corretto il discorso che si sente spesso ripetere dai sostenitori dell’energia nucleare nostrani, che un incidente di proporzioni e conseguenze simili a quello di Chernobil, nelle centrali nucleari occidentali non avrebbe mai potuto accadere.
Forse meno noto è il fatto che dopo Chernobil la Comunità Europea si è fatta promotrice, nell’ambito di un ampio programma di assistenza tecnica alla ex Unione Sovietica, denominato TACIS (Technical Aid to the Community of Indipendent States), di un vasto progetto di modernizzazione delle centrali elettronucleari a tecnologia sovietica, per avvicinarne i livelli di sicurezza agli standard in uso in Occidente.
Tale programma, iniziato nel 1991 e non ancora del tutto concluso, è costato cifre notevoli ai contribuenti europei, anche se ha creato delle interessanti contropartite per le industrie nostrane impegnate nella fornitura dei macchinari e della strumentazione utilizzati per l’aggiornamento degli impianti sovietici.
[7] A Ispra, sul lago Maggiore, il CNRN aveva costruito, su di una vasta area boscosa, un magnifico centro di ricerche, dove nel 1959 entrò in servizio il primo reattore da ricerca italiano. Il centro di Ispra nel 1962 fu ceduto dal CNEN, succeduto al CNRN, all’EURATOM, l’organismo europeo sorto nel 1957 per coordinare gli sforzi di ricerca in campo nucleare dei paesi europei che avevano fondato la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio). A Ispra si insediò così il CCR (Centro Comune di Ricerca), ma il CNEN mantenne anche dei suoi laboratori, tuttora gestiti da ENEA. Il CCR lavorò per tutti gli anni ’60 alla costruzione del reattore ESSOR da 35 MW, che era concepito per dare grandi possibilità di sperimentazione di varie formule d’impianto, che però, per decisione politica, non entrò mai in servizio. Anche in ambito comunitario non sono quindi mancate incertezze e cambi di programma, con notevole spreco di risorse materiali ed umane.
[8] Mentre é difficile non condividere le critiche dei tanti che hanno visto in questo scoordinato sorgere di ben tre impianti di differente tecnologia, uno dei primi segnali di debolezza del “progetto” nucleare italiano, non si può fare a meno di constatare che gli exploits che allora in poco tempo furono realizzati, in assenza di programmazione politica, sono il segno di una vitalità e di un entusiasmo che in seguito non si sarebbero più tanto facilmente ripresentati.
[9] Questi impianti ebbero diversi problemi di gioventù e di mezza età, ma in nessuno dei tre accaddero incidenti gravi. Quello di Trino dimostrò negli anni la migliore affidabilità, mentre il Garigliano fu quello con maggiori problemi, anche perché aveva una configurazione impiantistica piuttosto complessa, che la stessa General Electric abbandonò rapidamente. Tutti e tre gli impianti sono tuttora esistenti, ma da tempo in fase di smantellamento.
[10] La magistratura praticava anche allora il suo sport preferito, quello di utilizzare cavilli formali per intervenire al bisogno negli scontri fra i poteri stessi dello Stato. Si veda a questo proposito anche l’interessante libro-intervista di B. Curli, citato fra i riferimenti, che si affianca al più noto libro che fu scritto sulla vicenda dal prof. Mario Silvestri (Il prezzo delle menzogna).
[11] Il PEC (Prova Elementi Combustibile) era un reattore veloce progettato dell’ENEA, che doveva servire essenzialmente alla prova degli elementi di combustibile del Superphoenix; il CIRENE (CISE Reattore a Nebbia) era un progetto concepito del CISE già alla fine degli anni ’50, la cui costruzione fu intrapresa e quasi conclusa dalla NIRA (società genovese collegata ad Ansaldo) presso la centrale di Latina, ma che non è stato mai avviato.
[12] Fu ridotto anche l’impegno italiano nell’impianto europeo di arricchimento dell’uranio Eurodif, e fu svenduta una quota dell’uranio arricchito per la quale ci si era già impegnati, visto il ridimensionamento del numero di impianti da costruire.
[13] Le centrali successive a quella di Montalto di Castro, che era ancora del tipo BWR, come quella di Caorso, avrebbero dovute essere tutte dello stesso tipo denominato PUN (Progetto Unificato Nucleare); si trattava di un progetto di reattore da circa 950 MWe, predisposto da ENEL e ANSALDO sulla base della tecnologia PWR della Westinghouse e che voleva il più possibile standardizzare la configurazione degli impianti, in modo da semplificarne e renderne più economica la costruzione, dando finalmente un taglio a quella che era stata fino allora una caratteristica negativa del parco centrali italiane, disperse fra diverse tipologie.
[14] Ricordiamo che il referendum, obbedendo ai dettati della costituzione, non avrebbero potuto porre nessun quesito diretto pro o contro il nucleare. Ma, molto abilmente, i suoi promotori proponevano al giudizio popolare l’abrogazione di quelle due leggi del 1983 con le quali il parlamento aveva trovato il modo di superare il problema delle localizzazioni, dando per altro buone compensazioni alle popolazioni locali interessate dalla costruzione di una centrale. Si aggiungeva inoltre la proposta di abrogazione della legge che aveva permesso all’ENEL di impegnarsi in importanti progetti all’estero, quali il Superphoenix.
[15] La Force de Frappe era il termine usato per indicare il potenziale nucleare delle forze armate francesi, voluto dal generale De Gaulle.
L’Italia non ha mai avuto, come è noto, un suo armamento nucleare, anche se sembra che i vertici militari ci abbiano almeno pensato. Peraltro non sono mancati gli sforzi per l’utilizzo dell’energia nucleare in ambito militare, come testimonia per esempio la nascita nel 1955 del centro di ricerca CAMEN (Centro Applicazioni Militari Energia Nucleare) di Livorno-Pisa, che si occupò prevalentemente di sviluppare reattori per la propulsione di navi e sottomarini.
[16] In realtà non si sono del tutto fermate né l’industria (l’Ansaldo Nucleare esiste sempre), né l’università (le cattedre di impianti nucleari esistono ancora), né la ricerca (presso l’Enea ed altri centri), né l’asssociazionismo di settore (esiste ancora la AIN, Associazione Italiana Nucleare).
[17] Per completezza accenniamo molto brevemente anche agli altri reattori attualmente disponibili sul mercato, che fanno concorrenza al progetto EPR. Il reattore AP1000 (potenza 1100 MW) di Westinghouse è un perfezionamento degli schemi PWR sviluppati da questa società fin dagli anni ’60. Il reattore APR da 1400 MW della Korea&Hydro è anch’esso uno sviluppo dello schema PWR di Westinghouse, sviluppato nella Korea del Sud, un paese che ha puntato molto sull’energia nucleare. Il progetto VVR della società Gidopress (potenza 1000 MW) è l’evoluzione della versione russa del concetto PWR, diffuso nei paesi dell’ex blocco comunista. La società General Electric offre sempre un perfezionamento del suo schema BWR, ora prodotto nella taglia da 1400 MW. Sul mercato sono anche disponibili i reattori canadesi CANDU ad acqua pesante ed uranio naturale, disponibili nelle taglie di potenza da 700, 1000 e 1200 MW.
[18] Con il sodio era per esempio raffreddato il prototipo di reattore francese SuperPhoenix, che è stato abbandonato per una serie di gravi problemi tecnologici, le cui origini sono state comprese, ma non corrette in quanto avrebbero implicato una pesante ristrutturazione dell’impianto.
[19] In ogni caso è necessario accettare l’idea di un ciclo del combustibile nel quale il plutonio non viene “sequestrato”, ma riprocessato e riutilizzato, con possibili pericoli, ovviamente, di proliferazione nucleare. In tale senso i reattori autofertilizzanti al torio sono assai promettenti in quanto non producono plutonio (pur essendo in grado di bruciarlo) ed danno anche luogo a scorie radioattive a minore attività.
[20] I reattori della quarta generazione non potranno essere operativi prima del 2030-2040. Prima di quelle date potrebbero invece essere disponibili i reattori cosiddetti “near term”, per esempio il reattore sudafricano PBMR (Pebble Bed Modular Reactor) e quello di un consorzio internazionale guidato dalla Westinghouse denominato IRIS (fig.4) (International Reactore Innovative and Secure, una evoluzione dello schema PWR ad acqua leggera), che rappresentano una specie di fase di passaggio, adottando tecnologie già oggi disponibili ed in fase di qualificazione.
[21] Questo gruppo di persone in precedenza appartenevano a ENEA Disp (Direzione per la Sicurezza nucleare e la Protezione sanitaria), poi divenuta ANPA (Agenzia Nazionale per la Protezione Ambientale). Per la precisione a partire dal 24 luglio 2008 la stessa APAT è stata soppressa ed assieme ICRAM (Istituto Centrale per la Ricerca Scientifica e Tecnologica Applicata al Mare) e INFS (Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica) è confluita a formare il nuovo Istituto di Ricerca per la Protezione Ambientale (IRPA), per il momento sotto la direzione di un commissario straordinario, il prefetto Vincenzo Grimaldi.
[22] Se come si è detto alla fine sarà ben difficile riuscire a costruire più di 6-7 centrali, non possiamo permetterci di costruirle tutte diverse, dobbiamo il più possibile standardizzare i progetti, mantenendo solo le opportunità di aggiornarli nel corso degli anni da qui al 2030, nelle parti più soggette a rapido sviluppo tecnologici, per esempio quelle di automazione e controllo.
[23] “L’opzione nucleare in Italia:quali prospettive?”, Quaderni della AIEE (Associazione Italiana Economisti dell’Energia), Milano, Ottobre 2008
[24] In questa direzione si collocano per esempio gli articoli di G. Silvestrini e dei soliti G. Mattioli e M Scalia comparsi sul numero di maggio-giugno 2008 della rivista Qualenergia. Ma si tratta di un tipo di posizione ancora molto vitale anche in altri paesi. Negli USA, ad esempio, il noto antinuclearista A. Lovins sostiene che al nucleare non si può neanche riconoscere il beneficio di essere una tecnologia che riduce i pericoli legati alla emissione dei gas serra, in quanto le iniziative nucleari assorbono risorse che potrebbero essere dedicate alle energie alternative ed ai progetti di efficienza energetica, che per altra via porterebbero ad una analoga riduzione dei gas serra stessi.
[25] Una politica miope, che al vantaggio immediato di non lasciare sul lastrico forze lavoro di notevole valore intellettuale, contrappone sul lungo periodo lo svantaggio di esaurire la loro capacità creativa ed innovativa. Una politica della non decisione, che in Italia è stata purtroppo spesso adottata, producendo danni enormi in molti comparti d’avanguardia di vari settori scientifici e industriali.