Nel dibattito sui cambiamenti climatici e sulla necessità di ridurre le emissioni di anidride carbonica prodotte dall’utilizzo dei combustibili fossili, è noto che la posizione degli Stati Uniti è stata fino a questo momento sostanzialmente negativa. Gli USA non hanno aderito, nel 1997, al protocollo di Kyoto e la posizione ufficiale dei vari governi americani non è in seguito cambiata, neppure quando il protocollo è stato definitivamente ratificato nel 2005. Le ragioni di questa opposizione, se si cerca di dissipare almeno un po’ del polverone ideologico che avvolge la materia, sono abbastanza semplici da comprendere: gli Stati Uniti, dopo le prime crisi energetiche degli anni ‘70 e dopo il sostanziale stop al nucleare che ha fatto seguito all’incidente di Three Mile Island (1979) hanno basato una larga fetta (in 25 degli stati americani la quota è superiore al 50%) della loro produzione elettrica sulle centrali a carbone, che sono come è noto grandi produttrici di anidride carbonica.
Il dibattito interno all’America su queste tematiche è comunque rimasto assai acceso, e lo scontro fra posizioni favorevoli e contrarie all’introduzioni di vincoli od oneri sulle emissioni di CO2 prodotte in particolare dalle centrali elettriche, ha raggiunto forti livelli, probabilmente anche sulla spinta di quanto succede in Europa dove, almeno nelle intenzioni, i governi sembrano orientati a rispettare gli impegni di Kyoto.
Negli ultimi mesi sono comunque aumentati i segnali che nel muro americano stia comparendo qualche crepa, e l’avvicinarsi del cambio di mandato presidenziale non fa che rafforzare l’attesa di un possibile cambiamento di fronte, che potrebbe avvenire indipendentemente dal fatto che prevalga il candidato democratico o repubblicano. Il terreno è stato in qualche modo preparato dalla approvazione alla fine del 2007 di una legge (Energy Indipendence and Security Act), ratificata dal presidente Bush, che rende più stringenti gli standard di efficienza energetica, in particolare nel comparto dei trasporti, e favorisce l’utilizzo dei biocombustibili di produzione nazionale.
Ma in particolare il nuovo presidente si troverà molto probabilmente di fronte alla riproposizione della proposta di legge (Lieberman-Warner Climate Security Act) che i senatori Joseph Lieberman (indipendente) e John Warner (repubblicano) hanno portato in discussione lo scorso giugno nell’aula del Senato. Questa complessa proposta, che vorrebbe stabilire il quadro legislativo per poter tagliare di due terzi le emissioni americane di CO2 entro il 2050, non ha per il momento avuto molta fortuna in quanto, secondo alcuni commentatori, è stata presentata con poca convinzione e in un momento sbagliato (di forti tensioni ed aumenti nel prezzo del petrolio) nel quale hanno prevalso i timori per i cospicui oneri economici che tale proposta metterebbe in atto. Gli stessi presentatori hanno in effetti deciso di ritirarla prima che subisse un voto negativo, ma in campagna elettorale entrambi i candidati presidenziali si sono diplomaticamente dichiarati favorevoli ad essa, ed è quindi molto probabile che la legge verrà riproposta alla discussione nel 2009, magari con qualche aggiustamento. Nel frattempo altre proposte sono state discusse dal senato americano, come quella dei senatori Jeff Bingeman (democratico) e Arlen Spencer (repubblicano) che propongono un sistema cap-and-trade1 da estendere a tutta l’industria, per l’affronto dei problemi dell’emissione dei gas serra.
In sostanza il dibattito è in corso, ma sembra molto probabile che con la prossima legislatura anche gli Stati Uniti introducano una qualche forma di contenimento e di “tassazione” delle emissioni di CO2 e più in generale di gas serra. Non è detto comunque che gli USA adottino necessariamente degli schemi simili a quelli europei. Per esempio un recente intervento sulla autorevole rivista Power di Jim Rogers, amministratore delegato della Duke Energy Corporation (una delle maggiori aziende elettriche americane) sostiene che ad un sistema tipo cap-and-trade basato sulla concessioni di quote di emissione di CO2, sarebbe preferibile una tassazione netta sui kilowattora prodotti dagli impianti, che secondo lui sarebbe più equa e meno onerosa per i consumatori. Sempre secondo Rogers, con lo schema cap-and-trade si darebbe forse più soddisfazione alla frangia dell’ambientalismo più estremo che vorrebbe “punire gli inquinatori”, ma egli stima che, soprattutto negli stati dell’unione in cui prevale l’uso del carbone, in questo modo il prezzo al consumo dell’energia elettrica potrebbe subire aumenti fino al 50%; nel secondo caso, invece, una modesta tassa fissa dell’ordine degli 0,3 cent di dollaro per kilowattora peserebbe sì un po’ di più sui consumatori che attualmente beneficiano delle tariffe più basse praticate dalle aziende che usano il carbone, rispetto a quelle più alte praticate dalle aziende che usano combustibili più pregiati, ma senza stravolgere particolarmente il mercato.
Con un simile modesto prelievo fiscale sul kilowattora, negli USA sarebbe possibile alimentare un fondo annuo da quasi 11 miliardi di dollari, che potrebbe essere utilizzato per finanziare iniziative di ricerca e sviluppo nel campo delle nuove tecnologie energetiche, del nucleare avanzato, dell’efficienza e del risparmio energetico, ecc., con benefici che Rogers giudica potenzialmente assai superiori a quelli che si ottengono con i circa 1,38 miliardi di dollari che il Dipartimento dell’Energia devolve attualmente per le stesse ricerche. Si eviterebbe così di sprecare risorse nel complicato e costoso meccanismo amministrativo necessario a gestire gli schemi cap-and-trade, finalizzando il prelievo fiscale ad un massiccio piano di ricerca volto a rivoluzionare l’attuale sistema tecnologico energetico. In sostanza secondo Rogers (ma anche secondo vari economisti a cui egli probabilmente si ispira), piuttosto che spendere risorse ancora più cospicue in un piano di contenimento delle attuali emissioni, sulla cui efficacia pratica per la effettiva riduzione dei gas serra molti tecnici e scienziati hanno fra l’altro forti dubbi, sarebbe dunque preferibile scommettere sulla capacità tecnologica del paese.
Certamente ci vuole un notevole ottimismo sulla efficacia della ricerca e sviluppo a finanziamento pubblico2 per sostenere simili posizioni, ma indubbiamente il problema fondamentale che sottende tutto il dibattito sui cambiamenti climatici è quello della transizione dall’attuale sistema energetico basato sui combustibili fossili ad un sistema alternativo basato sulle energie rinnovabili e su altri fonti di energia. Ciò implica sicuramente una rivoluzione tecnologica nella quale è necessario investire molto, e l’apparato tecnologico-industriale degli Stati Uniti ha sicuramente i numeri per questo immane sforzo, purché sappia creare sufficiente consenso attorno a questo immane progetto.
A questo proposito vorremmo concludere con un’ulteriore considerazione che vale per gli Stati Uniti, ma anche per noi.
Nei paesi moderni la disponibilità di energia a basso costo è diventata col tempo un “indispensabile anche se negletto diritto civile”. Tutti danno per scontato, compresi i più accesi ambientalisti, che questo diritto vada garantito (non stiamo parlando del consumo degli yacht degli sceicchi arabi, ma della possibilità per tutti di fare cose “normali” come scaldarsi d’inverno, raffrescarsi d’estate, farsi una doccia calda, guardare un po’ di televisione, possedere un’automobile utilitaria, ecc.), ma pochi si rendono conto che il carattere di consumo di massa dell’energia implica inevitabilmente un grosso impatto sull’ambiente, non diversamente da quanto il procurare cibo per tutti trasforma il territorio da selvaggio a coltivato.
Così molti movimenti ambientalisti non cessano di creare ogni sorta di ostacoli perfino quando viene fatto lo sforzo di garantire questo diritto ricorrendo alle più moderne e sofisticate tecnologie per l’utilizzo delle energie rinnovabili, le quali peraltro quando vengono usate a larga scala acquistano ovviamente dimensioni ed impatto significativi e possono divenire piuttosto invasive. Ci sembrano emblematici due esempi che vengono ancora dall’America. Il primo riguarda l’opposizione alla costruzione di un grande elettrodotto che permetterebbe il collegamento fra la California meridionale e l’area di confine con Arizona e New Mexico, che è particolarmente ricca di occasioni di sfruttamento di energie rinnovabili. Le obbiezioni addotte da alcuni gruppi ambientalisti sono che tale linea elettrica attraverserebbe l’area di un parco nazionale dove vivono gli ultimi esemplari delle pecore selvatiche bighorn; ed anche se non si prevede nessun particolare danno per questi animali, durante la costruzione essi verrebbero disturbati da macchinari ed elicotteri, e potrebbero quindi abbandonare definitivamente l’area del parco.
Il secondo è la causa intentata dai 400 abitanti dell’isole di Kivalina, nel nord dell’Alaska, contro la compagnia elettrica NGR ed altre compagnie elettriche ed energetiche, alle quali essi chiedono un risarcimento da 400 milioni di dollari, non per qualche danno specifico subito, ma perché la loro isola rischia di divenire inabitabile a causa del riscaldamento climatico globale; e siccome è opinione scientifica diffusa che l’emissione di gas serra prodotta dalle compagnie energetiche possa essere una delle cause del riscaldamento globale, essi sostengono che tali società debbano farsi carico dei costi che dovranno sostenere se saranno costretti a trasferirsi altrove.
Siamo alla pazzia pura, forse in quest’ultimo caso indotta dalle particolarità del sistema giudiziario americano.
Ma quando si sente che la regione Molise o alcuni comuni della Sicilia meridionale si oppongono alla proposta di installazione dei primi parchi eolici offshore italiani, non c’è da stare molto allegri nemmeno a casa nostra.
Il dibattito interno all’America su queste tematiche è comunque rimasto assai acceso, e lo scontro fra posizioni favorevoli e contrarie all’introduzioni di vincoli od oneri sulle emissioni di CO2 prodotte in particolare dalle centrali elettriche, ha raggiunto forti livelli, probabilmente anche sulla spinta di quanto succede in Europa dove, almeno nelle intenzioni, i governi sembrano orientati a rispettare gli impegni di Kyoto.
Negli ultimi mesi sono comunque aumentati i segnali che nel muro americano stia comparendo qualche crepa, e l’avvicinarsi del cambio di mandato presidenziale non fa che rafforzare l’attesa di un possibile cambiamento di fronte, che potrebbe avvenire indipendentemente dal fatto che prevalga il candidato democratico o repubblicano. Il terreno è stato in qualche modo preparato dalla approvazione alla fine del 2007 di una legge (Energy Indipendence and Security Act), ratificata dal presidente Bush, che rende più stringenti gli standard di efficienza energetica, in particolare nel comparto dei trasporti, e favorisce l’utilizzo dei biocombustibili di produzione nazionale.
Ma in particolare il nuovo presidente si troverà molto probabilmente di fronte alla riproposizione della proposta di legge (Lieberman-Warner Climate Security Act) che i senatori Joseph Lieberman (indipendente) e John Warner (repubblicano) hanno portato in discussione lo scorso giugno nell’aula del Senato. Questa complessa proposta, che vorrebbe stabilire il quadro legislativo per poter tagliare di due terzi le emissioni americane di CO2 entro il 2050, non ha per il momento avuto molta fortuna in quanto, secondo alcuni commentatori, è stata presentata con poca convinzione e in un momento sbagliato (di forti tensioni ed aumenti nel prezzo del petrolio) nel quale hanno prevalso i timori per i cospicui oneri economici che tale proposta metterebbe in atto. Gli stessi presentatori hanno in effetti deciso di ritirarla prima che subisse un voto negativo, ma in campagna elettorale entrambi i candidati presidenziali si sono diplomaticamente dichiarati favorevoli ad essa, ed è quindi molto probabile che la legge verrà riproposta alla discussione nel 2009, magari con qualche aggiustamento. Nel frattempo altre proposte sono state discusse dal senato americano, come quella dei senatori Jeff Bingeman (democratico) e Arlen Spencer (repubblicano) che propongono un sistema cap-and-trade1 da estendere a tutta l’industria, per l’affronto dei problemi dell’emissione dei gas serra.
In sostanza il dibattito è in corso, ma sembra molto probabile che con la prossima legislatura anche gli Stati Uniti introducano una qualche forma di contenimento e di “tassazione” delle emissioni di CO2 e più in generale di gas serra. Non è detto comunque che gli USA adottino necessariamente degli schemi simili a quelli europei. Per esempio un recente intervento sulla autorevole rivista Power di Jim Rogers, amministratore delegato della Duke Energy Corporation (una delle maggiori aziende elettriche americane) sostiene che ad un sistema tipo cap-and-trade basato sulla concessioni di quote di emissione di CO2, sarebbe preferibile una tassazione netta sui kilowattora prodotti dagli impianti, che secondo lui sarebbe più equa e meno onerosa per i consumatori. Sempre secondo Rogers, con lo schema cap-and-trade si darebbe forse più soddisfazione alla frangia dell’ambientalismo più estremo che vorrebbe “punire gli inquinatori”, ma egli stima che, soprattutto negli stati dell’unione in cui prevale l’uso del carbone, in questo modo il prezzo al consumo dell’energia elettrica potrebbe subire aumenti fino al 50%; nel secondo caso, invece, una modesta tassa fissa dell’ordine degli 0,3 cent di dollaro per kilowattora peserebbe sì un po’ di più sui consumatori che attualmente beneficiano delle tariffe più basse praticate dalle aziende che usano il carbone, rispetto a quelle più alte praticate dalle aziende che usano combustibili più pregiati, ma senza stravolgere particolarmente il mercato.
Con un simile modesto prelievo fiscale sul kilowattora, negli USA sarebbe possibile alimentare un fondo annuo da quasi 11 miliardi di dollari, che potrebbe essere utilizzato per finanziare iniziative di ricerca e sviluppo nel campo delle nuove tecnologie energetiche, del nucleare avanzato, dell’efficienza e del risparmio energetico, ecc., con benefici che Rogers giudica potenzialmente assai superiori a quelli che si ottengono con i circa 1,38 miliardi di dollari che il Dipartimento dell’Energia devolve attualmente per le stesse ricerche. Si eviterebbe così di sprecare risorse nel complicato e costoso meccanismo amministrativo necessario a gestire gli schemi cap-and-trade, finalizzando il prelievo fiscale ad un massiccio piano di ricerca volto a rivoluzionare l’attuale sistema tecnologico energetico. In sostanza secondo Rogers (ma anche secondo vari economisti a cui egli probabilmente si ispira), piuttosto che spendere risorse ancora più cospicue in un piano di contenimento delle attuali emissioni, sulla cui efficacia pratica per la effettiva riduzione dei gas serra molti tecnici e scienziati hanno fra l’altro forti dubbi, sarebbe dunque preferibile scommettere sulla capacità tecnologica del paese.
Certamente ci vuole un notevole ottimismo sulla efficacia della ricerca e sviluppo a finanziamento pubblico2 per sostenere simili posizioni, ma indubbiamente il problema fondamentale che sottende tutto il dibattito sui cambiamenti climatici è quello della transizione dall’attuale sistema energetico basato sui combustibili fossili ad un sistema alternativo basato sulle energie rinnovabili e su altri fonti di energia. Ciò implica sicuramente una rivoluzione tecnologica nella quale è necessario investire molto, e l’apparato tecnologico-industriale degli Stati Uniti ha sicuramente i numeri per questo immane sforzo, purché sappia creare sufficiente consenso attorno a questo immane progetto.
A questo proposito vorremmo concludere con un’ulteriore considerazione che vale per gli Stati Uniti, ma anche per noi.
Nei paesi moderni la disponibilità di energia a basso costo è diventata col tempo un “indispensabile anche se negletto diritto civile”. Tutti danno per scontato, compresi i più accesi ambientalisti, che questo diritto vada garantito (non stiamo parlando del consumo degli yacht degli sceicchi arabi, ma della possibilità per tutti di fare cose “normali” come scaldarsi d’inverno, raffrescarsi d’estate, farsi una doccia calda, guardare un po’ di televisione, possedere un’automobile utilitaria, ecc.), ma pochi si rendono conto che il carattere di consumo di massa dell’energia implica inevitabilmente un grosso impatto sull’ambiente, non diversamente da quanto il procurare cibo per tutti trasforma il territorio da selvaggio a coltivato.
Così molti movimenti ambientalisti non cessano di creare ogni sorta di ostacoli perfino quando viene fatto lo sforzo di garantire questo diritto ricorrendo alle più moderne e sofisticate tecnologie per l’utilizzo delle energie rinnovabili, le quali peraltro quando vengono usate a larga scala acquistano ovviamente dimensioni ed impatto significativi e possono divenire piuttosto invasive. Ci sembrano emblematici due esempi che vengono ancora dall’America. Il primo riguarda l’opposizione alla costruzione di un grande elettrodotto che permetterebbe il collegamento fra la California meridionale e l’area di confine con Arizona e New Mexico, che è particolarmente ricca di occasioni di sfruttamento di energie rinnovabili. Le obbiezioni addotte da alcuni gruppi ambientalisti sono che tale linea elettrica attraverserebbe l’area di un parco nazionale dove vivono gli ultimi esemplari delle pecore selvatiche bighorn; ed anche se non si prevede nessun particolare danno per questi animali, durante la costruzione essi verrebbero disturbati da macchinari ed elicotteri, e potrebbero quindi abbandonare definitivamente l’area del parco.
Il secondo è la causa intentata dai 400 abitanti dell’isole di Kivalina, nel nord dell’Alaska, contro la compagnia elettrica NGR ed altre compagnie elettriche ed energetiche, alle quali essi chiedono un risarcimento da 400 milioni di dollari, non per qualche danno specifico subito, ma perché la loro isola rischia di divenire inabitabile a causa del riscaldamento climatico globale; e siccome è opinione scientifica diffusa che l’emissione di gas serra prodotta dalle compagnie energetiche possa essere una delle cause del riscaldamento globale, essi sostengono che tali società debbano farsi carico dei costi che dovranno sostenere se saranno costretti a trasferirsi altrove.
Siamo alla pazzia pura, forse in quest’ultimo caso indotta dalle particolarità del sistema giudiziario americano.
Ma quando si sente che la regione Molise o alcuni comuni della Sicilia meridionale si oppongono alla proposta di installazione dei primi parchi eolici offshore italiani, non c’è da stare molto allegri nemmeno a casa nostra.
Riferimenti:
S.F. Greenwald, J.P Gray, The green trade-off, Power magazine, June 2008
J. Bingaman, Growing a green economy, Power magazine, June 2008
S.F. Greenwald, J.P Gray, Climate change:policy via litigation?, Power magazine, July 2008
R. Peltier, It’s all about power, Power magazine, July 2008
J. Rogers, Kilowatt-hour tax is fairest approach, Power magazine, July 2008
S.F. Greenwald, J.P Gray, The green trade-off, Power magazine, June 2008
J. Bingaman, Growing a green economy, Power magazine, June 2008
S.F. Greenwald, J.P Gray, Climate change:policy via litigation?, Power magazine, July 2008
R. Peltier, It’s all about power, Power magazine, July 2008
J. Rogers, Kilowatt-hour tax is fairest approach, Power magazine, July 2008
1 Le metodologie regolatorie cap-and-trade furono introdotte per la prima volta negli USA stessi negli anni ’70, per affrontare il problema dell’inquinamento atmosferico da ossidi di zolfo (SOx) e di azoto (NOx) prodotti dalle centrali elettriche o da altri impianti a forte consumo di combustibili fossili (es. cementifici). In pratica si fissa un tetto (cap) alle emissioni annuali di ciascun impianto, attribuendo un onere se il tetto viene superato o un credito se viene ridotto, per esempio con l’introduzione di miglioramenti tecnologici. Oneri e crediti possono essere scambiati (trade) fra vari impianti; così per esempio una azienda che abbia un impianto inquinante può acquistare crediti da un’altra azienda che ha un impianto più moderno, in attesa di introdurre a sue volta dei miglioramenti.
Questo meccanismo è stato preso sostanzialmente a modello anche per i regolamenti che costituiscono la parte operativa del protocollo di Kyoto.
2 A titolo di cronaca si fa presente che in Italia esiste già un simile meccanismo di prelievo sul kilowattora, che viene dedicato ad un fondo per l’efficienza energetica e per la Ricerca sul Sistema Elettrico, i cui risultati sono peraltro piuttosto deludenti.
Questo meccanismo è stato preso sostanzialmente a modello anche per i regolamenti che costituiscono la parte operativa del protocollo di Kyoto.
2 A titolo di cronaca si fa presente che in Italia esiste già un simile meccanismo di prelievo sul kilowattora, che viene dedicato ad un fondo per l’efficienza energetica e per la Ricerca sul Sistema Elettrico, i cui risultati sono peraltro piuttosto deludenti.