Principali nodi in tema di evouzione

Benedetta CappelliniRassegna Stampa

Fiorenzo Facchini, L’Osservatore Romano, 21 gennaio 2008
Il cambiamento è una dimensione delle cose sotto gli occhi di tutti, non soltanto degli studiosi dei fenomeni della natura. I cambiamenti che hanno interessato la vita sulla terra determinando uno sviluppo progressivo dei viventi vengono interpretati in chiave evolutiva. Essi pongono  domande sulle loro cause e sul possibile significato. Alcune questioni possono essere affrontate con i metodi empirici che la scienza ha via via affinato, altre richiedono ragionamenti e considerazioni che si sviluppano su altri piani, come quello filosofico e quello religioso.
Viene ammessa una discendenza comune dei viventi sulla terra da forme elementari di vita. E’ quello che viene sostenuto dalla teoria della evoluzione che negli ultimi due secoli si è andata imponendo nella cultura scientifica del nostro tempo. Ma essa solleva molti interrogativi, non solo di ordine scientifico sulle cause e sulle modalità dell’evoluzione, ma sul significato e sulle ragioni ultime della realtà che evolve.
La prima questione riguarda l’origine delle cose. E’ in gioco il concetto di creazione e nello stesso tempo quello di fine dell’universo e dell’uomo. L’universo e la natura si sono autoformati?  La casualità rappresenta una regola nella evoluzione dell’universo e della vita? L’uomo è da considerarsi un evento fortuito? E’ su questi aspetti che si è sviluppato un dibattito che ha coinvolto filosofia e religione.
In questo dibattito spesso ci si muove senza tenere conto dei diversi piani o ordini di conoscenza. Alcune questioni possono essere affrontate con i metodi delle scienze empiriche, basati sulla osservazione e sulla sperimentazione. Altre richiedono considerazioni di tipo filosofico. Si aggiungono verità di ordine rivelato che richiedono riflessioni di carattere teologico. Molte difficoltà ed equivoci nel dialogo fra scienza e fede su questi temi vengono dalla mancata distinzione fra i diversi piani. Viene negata o limitata l’evoluzione ricorrendo ad argomenti desunti dalla fede; nello stesso tempo oggi, come nel secolo XIX, da alcuni viene negata la creazione in nome della evoluzione.
Certamente le distinzioni non sono sempre facili e immediate. Trattando e ragionando sulla stessa realtà vi sono zone di confine o di contatto. In questi casi occorre muoversi nell’ambito specifico e con i metodi propri di ciascun piano di conoscenza. La filosofia della natura rappresenta un’area intermedia sulla quale fare chiarezza prima di affrontare l’ambito teologico.
Un certo riduzionismo metodologico sembra inevitabile nel campo delle scienze empiriche, ma quando viene esteso a una visione generale della realtà, a una metafisica di sfondo di tipo materialista si ha una forma di riduzionismo ontologico, meccanicista e scientista, come nota Agazzi (2007). E’ una posizione che nulla ha a che fare con la scienza.
A nostro modo di vedere sono quattro i principali nodi sui quali possono porsi domande o problemi. Un primo nodo, fondamentale, è quello di evoluzione e creazione. Un secondo è rappresentato dal passaggio dalla non vita alla vita. Un altro nodo è quello della finalità e casualità, a livello dei viventi e della natura, e infine l’uomo nella sua trascendenza.
Evoluzione e creazione
Sono due concetti diversi. L’evoluzione si riferisce a una serie di trasformazioni che hanno portato da strutture viventi molto semplici a strutture via via più complesse. Appartiene al mondo della scienza. Ha a suo favore molti argomenti tratti da vari settori scientifici: dalla paleontologia, alla zoologia, all’anatomia comparata, alla biologia evolutiva, alla genetica molecolare, alla genetica di popolazioni. L’idea di evoluzione così intesa si è sviluppata nell’ambiente culturale e scientifico dell’800. In precedenza vi erano stati filosofi che avevano proposto una visione dinamica della realtà, ma non ancora nei termini evolutivi affermatisi negli ultimi due secoli.
Come tutti i fenomeni che si sviluppano nel tempo, l’evoluzione dei viventi non è riproducibile o falsificabile come molte trasformazioni  di ordine fisico e chimico, salvo certi esperimenti a livello di batteri e di virus e le ricerche di genetica di popolazioni, in cui fenomeni microevolutivi sono  accertati. Il carattere storico dell’evoluzione ha una sua scientificità o plausibilità che deriva dalla convergenza di tanti  argomenti suggeriti in modo indipendente da diversi campi della scienza, come riconosceva Giovanni Paolo II nel messaggio del 22 ottobre 1996 alla Pontificia Accademia delle Scienze. Le implicazioni sono essenzialmente di ordine scientifico e riguardano le cause, le modalità, i meccanismi con cui sono avvenute le trasformazioni dei viventi. Il darwinismo, nella sua versione moderna, offre una spiegazione che ha una sua validità, ma secondo le moderne vedute della genetica sembra richiedere integrazioni o ampliamenti. In ogni caso nè il fatto della evoluzione, né la interpretazione darwiniana possono rispondere a domande sul senso degli eventi descritti, perchè gli interrogativi sul significato si collocano fuori dall’ambito delle scienze della natura.
Il concetto di creazione è una categoria filosofico- religiosa. Non si ritrova nel mondo ellenistico, ma nel pensiero giudaico-cristiano a partire dal periodo postesilico (Genesi, Sapienza, Maccabei). Esso implica il passaggio dalla non esistenza all’esistere, la produzione delle cose da parte di Dio senza servirsi di materia  preesistente e quindi la loro origine nel tempo. E’ un  problema innanzi tutto filosofico che riceve luce dalla Rivelazione. Tutto quello che ci circonda, sulla terra e nel cielo, viene da Dio, è opera sua. La riflessione dei Padri e di S.Tomaso ne approfondisce il significato affermando la dipendenza da Dio di ogni creatura non solo nel suo inizio, ma anche nel suo esistere. La dipendenza è radicale. Le realtà che ci circondano, in quanto mutevoli e contingenti, non hanno in se stesse la ragione dell’esistere e la ricevono da un Essere che non può essere mutevole ed è necessario. La dipendenza dell’essere creato riguarda l’inizio dell’esistere e il perdurare nel tempo. Non va intesa   come la dipendenza di un’opera rispetto al suo artigiano, che è limitata al momento della sua produzione. Secondo S.Tomaso Dio agisce come causa prima in tutte le cose create facendole esistere e operare secondo le loro proprietà come cause seconde. Lo ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Dio opera nelle e per mezzo delle cause seconde” (308).  Dio, come causa prima, fa esistere le cose, come cause seconde, per cui l’operare delle creature è da riferirsi congiuntamente e totalmente a Dio, come causa prima, e alle creature come cause seconde, ciascuno secondo il suo modo specifico di operare. (S.Tomaso, Contra Gent., III, LXX). Come la causa prima agisca nelle e attraverso le cause seconde resta difficile immaginare.
Il concetto metafisico di creazione non implica un inizio temporale della realtà, ma la sua dipendenza radicale da Dio. Il concetto teologico incorpora quello filosofico e aggiunge che l’universo è temporalmente finito (Carrol, 2000).
In conseguenza di ciò tra evoluzione e creazione non può esserci un contrasto. Dio può avere creato un mondo con la capacità  di cambiare e di evolvere per cause naturali. Teilhard de Cahrdin osservava: Dio non fa le cose, ma fa in modo che si facciano. Si affaccia il concetto di creatio continua  messo a punto nella teologia della creazione da vari Autori, fra cui Moltman, Ganoczy. Evolve quello che esiste ed esiste perché creato. Su questo rapporto Giovanni Paolo II così si è espresso: “Una fede rettamente intesa nella creazione e un insegnamento rettamente inteso della evoluzione non creano ostacoli. L’evoluzione presuppone la creazione e la creazione si pone n ella luce dell’evoluzione come un avvenimento che si estende nel tempo, come una creatio continua in cui Dio diventa visibile agli occhi del credente come il Creatore del cielo e della Terra” (L’Osservatore Romano, 27.4.1985)
Nè la teoria dell’evoluzione né il darwinismo implicano di per sé un’opzione materialista. Questa scelta  è nei presupporti ideologici o nelle deduzioni a carattere  filosofico di molti darwinisti, ma non è fondata sulla scienza.
2. Il passaggio dalla non vita alla vita
La vita non è sempre esistita sulla terra. I primi viventi  risalgono a 3,5-4 miliardi di anni fa sotto forma di batteri e procarioti anaerobi. Due miliardi di anni fa si sviluppano i primi eucarioti (forniti di nucleo e citoplasma) che utilizzano ossigeno. Come sia avvenuto il passaggio da molecole organiche a forme viventi non sappiamo. Secondo molti studiosi il passaggio potrebbe essere avvenuto per cause naturali in determinate condizioni ambientali favorevoli: dalle molecole proteiche alle prime forme prebiotiche, poi ai primi batteri (procarioti) poi agli eucarioti, prima unicellulari poi pluricellulari. Christian De Duve (2006) ipotizza alcuni passaggi: assemblaggio molecolare e multimolecolare, molecole capaci di replicazione, variazioni nella replicazione, nuove linee soggette alla selezione naturale. Le variazioni sono accidentali, ma hanno spesso cause precise, anche se sprovviste di intenzionalità. Anche secondo Schuster  (2007) si tratta di un  processo che si svolge secondo le leggi naturali e che non ha bisogno di alcun intervento dall’esterno. Così  pensano numerosi scienziati. Altri Autori, come Behe (1996, 2007), Walker (2006),  ritengono che la formazione dei primi esseri viventi non sia stata possibile alle pure forze della natura e abbia richiesto un intervento esterno di ordine superiore. Non mancano scienziati, come Crick, che ritengono che le prime forme viventi siano di origine extraterrestre. Ma in questo caso il problema è soltanto spostato.
La risposta al problema va cercata nella scienza. Certamente la ricostruzione delle condizioni ambientali di miliardi di anni fa che potrebbero avere favorito o determinato la comparsa di primi viventi appare una operazione non facile, ma non impossibile. Dal punto di vista filosofico non si vede l’impossibilità che la vita si sia formata per qualche reazione di ordine fisico-chimico in circostanze favorevoli avviando processi di integrazione e di crescita di complessità.  Se ciò sia di fatto avvenuto o no sta alla scienza approfondirlo. Ma, come osserva Schuster, nel caso che un intervento esterno ci sia stato, non può essere oggetto delle considerazioni delle scienze naturali.
Si è anche cercato di costruire la vita in laboratorio, ma finora senza risultati. Ciò non significa che in futuro non possa ottenersi.
In ogni caso il meccanismo che ha prodotto la vita non potrebbe essere spiegato negli stessi  termini della teoria darwiniana
3. La finalità: caso o progetto?
Se i processi evolutivi rispondano a delle finalità oppure siano stati del tutto casuali è un problema che si connette strettamente alla spiegazione di Darwin, secondo il quale i cambiamenti avvengono senza alcun piano determinato e sono incanalati in certe direzioni dalla selezione naturale. In ciò la concezione di Darwin si distingue da quella di Lamarck che pensava a un a evoluzione per cause interne. Dai neodarwinisti non viene negato  che si formino strutture ordinate. Non potrebbe essere contestata la stretta relazione tra struttura e funzione. L’occhio è fatto per vedere, le zampe, per muoversi e così via. Si pensi al ciclo riproduttivo delle piante e degli animali. A questi livelli la finalità non può non essere ammessa una finalità. Quello che vien  escluso è che sia collegata a una intenzionalità esterna. Monod (1971)preferisce parlare di teleonomia escludendo qualunque disegno precedente. Altri, come Ayala (2004),  parlano di teleologia interna (es. lo sviluppo dell’embrione a partire dallo zigote). Jacob (1971), sulla linea di  Monod, osserva: “l’essere vivente, rappresenta sì l’esecuzione di un disegno, ma che nessuna mente ha concepito; esso tende a un fine ma che nessuna volontà ha scelto”. Dunque quello che viene raggiunto mediante l’evoluzione è dovuto a cause fortuite. Il finalismo è solo apparente. Eliminata la causa finale rimane la causa efficiente che viene identificata nella selezione naturale operante sulle variazioni casuali della specie.
Ma se si ammette una causalità efficiente nello sviluppo della vita sulla terra come è possibile escludere un fine? A ben riflettere si può pensare a una finalità interna ai processi della natura, senza ricorrere a un agente esterno continuamente all’opera. La riflessione filosofica può aiutare. “La finalità è connessa alla causalità. Non vi è  causalità senza teleologia interna, né teleologia senza causalità” (Possenti, 2007).
Di fatto, riportando la finalità all’interno dei processi evolutivi si riapre la strada al finalismo generale della natura che è sostenibile per considerazioni di ordine filosofico.
Un motivo ricorrente nel pensiero di Benedetto XVI è quello della razionalità della natura espressa dalle leggi e dalla regolarità dei fenomeni naturali. A livello subatomico, molecolare, cellulare, come di corpi celesti, viene riconosciuta una fine sintonia delle varie forze che agiscono. Alla razionalità riconoscibile nella materia si aggiunge una razionalità anche nei processi evolutivi. Tutto ciò induce a pensare a una mente ordinatrice, a una ragione creatrice. Non è una dimostrazione scientifica, raggiunta con i metodi delle scienze, ma una conclusione ragionevole. Si può inoltre osservare che la razionalità della natura si rivela dinamica e si esprime nelle potenzialità della natura, nei processi di cambiamento e  nella crescita della complessità delle forme di vita . E’ legittimo postulare una intenzionalità superiore che ha voluto e vuole l’universo secondo particolari modalità e leggi che gli conferiscono la capacità di evolvere con qualche significato. Secondo Rhonheimer (2007)  ci troviamo di fronte a “un processo naturale non teleologico, anzi non intenzionale e senza intelligenza, che produce un ordine teleologico pieno di senso e adeguatamente descrivibile soltanto in un linguaggio altrettanto teleologico. E’ a questo punto che può essere ribadita la rilevanza della quinta via di S.Tomaso: giacchè l’ordine teleologico è risultato di un processo senza intelligenza intrinseca, questa intelligenza deve essere estrinseca e causa dell’intero processo. Il fatto dell’evoluzione come viene descritto dal neodarwinismo non rende Dio superfluo, ma ancora più necessario”.
Ma l’azione di Dio non è descrivibile in termini fisici e biologici, come talvolta si pretende o si pensa. L’economia divina agisce per mezzo delle cause seconde, ma non può essere identificata con i metodi delle scienze naturali.
Le modalità con cui si è formato e funziona il sistema della natura debbono essere esplorate con i metodi delle scienze della natura. Esse possono comprendere sia processi di tipo deterministico sia processi di tipo stockastico, come osserva la Commissione Teologica Internazionale nel documento “Comunione e servizio” (2004). Anche la casualità di eventi imprevedibili o rientranti nelle leggi della statistica o come coincidenza di eventi collegati a linee indipendenti di cause, può rientrare nei processi evolutivi e nel piano di Dio, a cui tutto è presente essendo  fuori dalla dimensione del tempo.
Questo modo di vedere, che esclude interventi dall’esterno volti  a correggere e orientare l’evoluzione in vista di un disegno (come sostenuto dalla teoria dell’Intelligent Design) si illumina di una particolare luce nella rivelazione cristiana che parla di un progetto di Dio sulla creazione e sull’uomo, in qualunque modo esso possa essersi realizzato.
4.L’uomo
L’uomo fa parte della natura. Affonda le sue radici  nel ceppo dei Primati con i quali condivide gran parte del suo DNA e parte della sua storia evolutiva. Intorno a 6 milioni di anni fa si individua la linea degli Ominidi, nel cui percorso a un certo momento compaiono  le prime forme umane. Quando? La descrizione delle fasi o specie del genere Homo ha un significato essenzialmente morfologico e tassonomico. Quando sia stata raggiunta la soglia umana resta di non facile determinazione. Gli studiosi non sono concordi. Alcuni riconoscono l’uomo in Homo sapiens a partire da circa 100.000 anni fa, altri molto prima con Homo erectus e anche habilis di circa due milioni di anni fa. E’in questione il significato da attribuire alle manifestazioni della cultura che risalgono nelle più antiche espressioni a Homo habilis e con il tempo si fanno più ricche.
La cultura nelle sue espressioni di progettualità e simbolizzazione,  rappresenta una discontinuità rispetto al comportamento dell’animale. Sul piano fenomenologico tali attitudini possono riconoscersi anche nei prodotti della tecnologia e nell’organizzazione del territorio, non solo nelle sepolture e nell’arte praticate da Homo sapiens. Quindi si dovrebbe ammettere che anche in epoche precedenti le manifestazioni di cultura rivelavano la presenza dell’uomo.
A qualunque livello si ponga, la discontinuità rappresentata dalla cultura segna la differenza nel comportamento dell’uomo attuale come dell’uomo preistorico rispetto all’animale. Essa indica capacità di pensiero, consapevolezza di sé, autodeterminazione, innovazione, a prescindere dagli aspetti morfologici dell’Ominide.
La cultura non appartiene alla biologia, anche se è ad essa collegata.  Dobzhansky (1967) riconosceva un duplice trascendimento nella evoluzione della vita: nel passaggio dalla non vita alla vita e nella comparsa dell’uomo, nel senso che i livelli evolutivi raggiunti appaiono qualitativamente diversi dalla fase precedente. Ciò affermava a prescindere dal contenuto filosofico o mistico. Questo modo di vedere richiama quello di Teilhard de Chardin che parla di due punti nella curva di complessificazione della vita, identificabili nella vitalizzazione e nella ominizzazione.
Ma a prescindere dalla discussione sulla delimitazione della soglia e sui criteri per riconoscerla è il discrimine in quanto tale fra forma non umana e forma umana che può fare problema, giacchè la differenza fra l’animale e l’uomo non può essere solo di grado, come riteneva Darwin. Nell’uomo c’è la dimensione spirituale che segna una discontinuità ontologica, e non solo fenomenologica, rispetto al mondo animale, nell’umanità attuale come in quella preistorica.
Il magistero costante della Chiesa sulla presenza dello spirito nell’uomo si è espresso in relazione alla evoluzione umana in varie occasioni, particolarmente nella nota affermazione di Giovanni Paolo II  (1996), circa “il salto ontologico” che deve ammettersi nella comparsa dell’uomo nel processo evolutivo, non potendo derivare lo spirito dalle potenzialità della materia vivente. Come ciò sia avvenuto non ci è dato di sapere. E’ da ammettersi un concorso particolare della causalità divina, diverso da quello che fa esistere le cose, analogamente a  quanto si deve ritenere nell’animazione di ogni essere umano. Il termine “salto” esclude gradi intermedi sul piano ontologico. Maritain (1977) ha osservato che non possono esserci stati esseri per metà animali e per metà umani, anche se  non sono da escludere animali sovrasviluppati o gradi intermedi di psichismo tra Ominide non umano e uomo. Si può ritenere  che quando si sono raggiunte le condizioni biologiche necessarie per supportare attività di ordine spirituale Dio ha voluto l’uomo nella sua completezza, data dalla razionalità e dall’autocoscienza che lo fanno persona.
Questo riferimento alla dimensione trascendente dell’uomo non può essere affermato con argomenti scientifici, ma neppure  contestato, perché si basa su  argomenti di ordine metafisico e rappresenta una spiegazione soddisfacente sul piano razionale. Il ricorso a una causa esterna non significa confusione di piani (come nella teoria dell’Intellligent Design), perché è richiesto per spiegare la presenza dello spirito che non  può rientrare nell’indagine delle scienze empiriche.
Di conseguenza l’uomo non può considerarsi come un evento fortuito e neppure necessario, richiesto dal corso evolutivo, ma è un evento che risponde a una volontà precisa di Dio creatore, a un suo progetto da cui viene luce sulla storia evolutiva della vita. L’uomo non è una specie qualsiasi.
Questo progetto secondo la rivelazione cristiana porta a riconoscere nell’uomo il vertice e il coronamento della creazione per quello che noi conosciamo. E’ una nuova visione antropologica, che culminando in Gesù Cristo, dà un senso nuovo alla  soggettività della persona  umana e al suo ruolo nella natura.