Sandro Fusina, Il Foglio, 16 gennaio 2008
Con due luoghi comuni, un felice gioco di parole, e un processo sensazionale, a Maffeo Barberini, Papa Urbano VIII, fu addossato il peso della riprovazione. “Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini” si dice che mormorasse il popolo romano. Che il popolo romano si esprimesse con tanta eleganza in latino si può dubitare. E più facile che il gioco di parole fosse nato in un palazzo, o nel Collegio romano dove il Barberini contava qualche nemico, o nell’Accademia dei Lincei, dove Urbano VIII contava molti amici. Il gioco di parole alludeva alla disinvoltura con cui gli architetti papali ricavano materiale da costruzione dagli antichi edifici romani, soprattutto il rame della copertura del Pantheon, per costruire nuovi edifici nel fantasioso stile barocco della prima metà del Seicento. Che gli amanti del classicismo trovassero sgradevole il nuovo stile è comprensibile, come è comprensibile che lamentassero che vestigia dell’architettura classica, alla quale il rinascimento italiano si era devotamente ispirato per le sue forme e le sue proporzioni, fosse sacrificato alle fantasie floreali e naturalistiche del barocco. Ma in architettura e urbanistica lo spirito conservazionista e quello innovativo si sono sempre scontrati e le imprese edilizie del Barberini possono anche ascriversi più che alla pura volontà di celebrare se stesso e la sua famiglia a un’apertura alle nuove idee.
Si può affermare che il Seicento fu il secolo degli insetti, il secolo in cui la classe più numerosa, più varia e fantasiosa dal punto di vista delle forme, uscì dai bestiari moralizzati per entrare nell’universo della scienza. Il Seicento fu il secolo degli insetti forse perché fu il secolo del microscopio, che permetteva di vedere con occhio nuovo le forme naturali minuscole. Non è un caso che proprio a Urbano VIII sia stata dedicata la prima rappresentazione in assoluto di un insetto visto al microscopio, nello stemma dei Barberini c’erano tre api.
L’Accademia dei Lincei produsse nel 1625 un grande foglio, tanto storico quanto raro, perché stampato all’origine in pochissime copie. Pare che oggi ne rimanga una sola, conservata nelle biblioteche vaticane. Si intitola “Apiarium”. Era un’opera importante e innovativa, conteneva ogni informazione possibile, di carattere storico, poetico, ma soprattutto scientifico, sulle api che comparivano sullo stemma Barberini. Lo stesso anno, nello stesso contesto, compare un altro foglio. È ancora un omaggio del principe Federico Cesi, fondatore e finanziatore dell’Accademia dei Lincei. Lo stemma del Papa sovrano compariva su ogni monumento voluto dal Barberini.
Ma le api avevano un disegno alquanto convenzionale, araldico appunto. Qualche volta avevano un aspetto persino buffo, più granchi che api, come quelle che compaiono alla base del pettine (pecten per Livio, la zamboriña, la conchiglia che i pellegrini si appuntavano sul mantello per testimoniare il loro viaggio a Compostela, Pecten maximus per la scienza, il simbolo della Shell, per intenderci) che è la decorazione della fontana in Piazza Barberini che Urbano VIII volle perché il popolo e gli animali di Roma potessero dissetarsi e rinfrescarsi con un’acqua limpida. Sempre nel 1625, si diceva, l’Accademia dei Lincei offrì al Papa un altro foglio straordinario per il quale l’incisore Matthäus Greuter e lo scienziato Francesco Stelluti restano nella storia. Oltre alle tre api, molto realistiche che campeggiano sul foglio, dell’imenottero che ronzava orgoglioso sul suo stemma si potevano ammirare alcuni incredibili, perché mai visti fino allora, particolari anatomici. Tutto grazie al microscopio. Ora, si sa con certezza che a battezzare microscopio il nuovo strumento, fino ad allora chiamato cannoncino, occhialino o perspicillo, fu l’accademico dei Lincei Giovanni Faber. Meno certo è chi ne sia stato l’inventore. Già nel Seicento la paternità del microscopio fu molto discussa, ma all’Accademia dei Lincei non c’erano dubbi. Come il telescopio, anche il microscopio era il prodotto dell’ingegno di Galileo. Amico dell’accademia e amico personale del Galilei, il Papa non aveva dubbi a chi essere grato.
Maffeo Barberini, fiorentino, fu 236esimo Papa, dal settembre 1623 al luglio 1644. Ricordare le date è una pignoleria inevitabile. La Guerra dei trent’anni si svolse quasi tutta, nelle sue fasi alterne e ingarbugliate, durante il pontificato di Urbano VIII. Fu una guerra dinastica e religiosa, in cui le forze in campo e le alleanze cambiavano rapidamente e in modo sconcertante, in cui gli interessi dinastici, la lotta tra Asburgo (di Spagna e imperiali) e Borboni (di Francia) intorbidivano spesso le istanze religiose. L’attività diplomatica e la pazienza del Pontefice dovettero fare i conti per esempio con un sovrano per definizione cristianissimo, Luigi XIII, con il suo primo ministro cardinale, Richelieu, con l’eminenza grigia per antonomasia, il cappuccino mistico padre Giuseppe, che per interesse dinastici non esitavano a finanziare la guerra del re protestante di Svezia Gustavo Adolfo contro gli odiati e pur
cattolicissimi Asburgo. Dovette fare i conti con la morsa che gli Asburgo spagnoli andavano stringendo in Italia. Mentre i principi protestanti sembravano prevalere (solo la morte di Gustavo Adolfo in una battaglia un’altra volta vittoriosa salvò le sorti del cattolicesimo in Germania); mentre l’imprenditore della guerra Albrecht conte di Wallenstein, non contento dei titoli di duca di Friedland, principe di Sagan e duca ereditario del Meklemburgo ottenuti dall’imperatore in cambio dei suoi servigi guerreschi, meditava una campagna, indifferentemente contro l’impero turco o con l’impero turco, per ritagliarsi un grande stato nell’Europa centro-orientale; mentre da Regensburg, Ratisbona, sede delle diete imperiali, arrivavano di volta in volta la buona notizia dell’editto di restituzione, per il quale l’imperatore avrebbe restituito alla chiesa cattolica i beni incamerati dai principi protestanti, e i lamenti della delegazione della Pomerania che denunciava la prostrazione in cui la prepotenza esaltata
dalla fame degli eserciti, nemici o amici indifferentemente, avevano ridotto la popolazione, costretta, dopo avere brucato come capre tutta l’erba, a sostentarsi con la carne dei propri simili; mentre doveva occuparsi insomma delle sorti spirituali e politiche dell’Europa sull’orlo della disperazione, Urbano III dovette trovare il tempo e le energie per occuparsi di quell’imprudente di Galileo. A pensare che Urbano VIII, uomo colto avrebbe preferito dedicarsi ai suoi studi di erudizione e a quella attività di poeta verso la quale la pretesa discendenza da Francesco Petrarca e un reale talento lo indirizzavano.
Per fortuna Galileo già nel 1616 era stato ammonito per le sue convinzioni copernicane dal cardinale Roberto Bellarmino. Bellarmino, che già aveva rivisto il testo della Vulgata, che già si era fatto un’esperienza nell’arte di trattare dissidenti coriacei nell’istruzione dei processi a carico di Giordano Bruno, che nelle questioni teologiche aveva mostrato tolleranza, come nel caso della disputa sulla grazia efficace e libertà umana tra tomisti e molinisti, era un uomo aperto verso le nuove teorie scientifiche. Non voleva che Galileo smettesse di occuparsene come ipotesi, ma solo che non si azzardasse a volere dimostrarle come realtà. Del resto Galileo, cinque anni dopo, aveva dedicato il “Saggiatore” proprio a Urbano III, appena eletto. E il Papa, amico degli scienziati, aveva gradito l’omaggio. Cosa era successo di nuovo, con la pubblicazione del “Dialogo sui massimi sistemi”?
Una risposta plausibile la si trova in “Galileo eretico” di Pietro Redondi, professore ordinario di Storia
della scienza all’Università di Milano Bicocca. Il libro, pubblicato in prima edizione nel 1983, ristampato cinque anni dopo e ripubblicato con aggiornamenti nel 2004 è ora esaurito. Sbadatamente la casa editrice non lo ripubblica. Il libro è ricco di informazioni, di letture di prima mano sui documenti, non solo riguardo al pensiero scientifico-filosofico di Galileo, ma soprattutto riguardo al pensiero e all’ambito culturale dei suoi avversari del 1632, i gesuiti che si erano assunti perinde ac cadaver il compito della difesa dell’ortodossia cattolica. A mettere Redondi sulla traccia del vero significato del processo a Galileo sembra proprio la stessa istruzione del processo. Per occuparsi di questioni di ortodossia e di fede la chiesa “aveva istituito un apposito tribunale, il Sant’Uffizio, con una prestigiosa Congregazione di cardinali, fra cui spiccava il rigoroso cardinale Borgia… Se si voleva far proibire un’opera, condannare una teoria, la cosa più comoda era inoltrare una denuncia al Sant’Uffizio”. A Galileo, “scienziato ufficiale del Papa” fu riservato un trattamento d’eccezione. “La causa fu invece sottratta al Sant’Uffizio e condotta dai due più autorevoli amici di Galileo in curia: il Papa, che non vuole apparire, e il cardinale Francesco Barberini ”.
Si tenta, per evitare il processo, di ritirare il “Dialogo dei massimi sistemi” prima che venga distribuito a Roma, ma e troppo tardi. Le giustificazioni per il sequestro sono piuttosto pretestuose: i tre delfini del marchio dello stampatore sarebbero una parodia delle tre api dello stemma papale e Galileo avrebbe omesso di inserire nel testo i suggerimenti del Papa per attenuare la teoria copernicana.
Nei delfini non si poteva intravedere alcuna parodia e Galileo non aveva omesso le parole papali, solo le aveva messe in bocca a Simplicio. Eppure nelle accuse degli avversari di Galileo si parlava di questioni della massima gravità. Se la questione era della massima gravità doveva essere trattata da una commissione segreta.
La cosa turbò molto il frate domenicano, filosofo e rivoluzionario, Tommaso Campanella, che nella Roma di Urbano VIII visse alcuni degli anni più tranquilli e intellettualmente liberi della sua vita. Allarmato, un diplomatico fiorentino chiese chiarimenti sulla faccenda. Fu tranquillizzato. La commissione era ben disposta verso il signor Galileo. “La commissione (presieduta dal cardinale Barberini) si riunì cinque volte… il segreto più assoluto ha coperto gli atti”.
Al tribunale del Sant’Uffizio “fornì un’istruttoria perfettamente confezionata per un rapido processo su un’accusa ben definita: la violazione, nel “Dialogo” del divieto del cardinal Bellarmino di difendere la teoria copernicana… C’era persino una prova a carico, un verbale che si disse scovato fra i fascicoli del Sant’Uffizio, dal quale risultava che il cardinale Bellarmino, in presenza di testimoni… aveva ingiunto a Galileo di non difendere né trattare in alcun modo, le idee di Copernico… V’erano indicati reati minori… tutti pertinenti, ma assai veniali.
Dal corpo tipografico usato nel preambolo al trattamento irriguardoso riservato agli autori consacrati, dall’indebita dimostrazione della rotazione terrestre con l’argomento delle maree alla ridicolizzazione degli argomenti tolemaici, dall’abuso dell’imprimatur romano all’illecito paragone fra il ragionamento umano e l’intelligenza divina”.
Nella commissione c’era anche un rappresentante dei gesuiti, padre Melchior Inchofer, “il meno adatto a fare la voce grossa” in quanto anche lui a Roma per rispondere a una citazione della Congregazione dell’Indice e soprattutto meno agguerrito sul piano teologico degli altri membri. Con un’istruzione del genere il processo non poteva risolversi che con una condanna blanda. Galileo non doveva neppure rispondere delle sue idee, ma solo di disobbedienza a un’ingiunzione di sedici anni prima.
Erano questi i gravi motivi su cui la commissione doveva pronunciarsi? Perché tanto rumore per così poco? Redondi basandosi su una lunga serie di indizi convincenti propone una lettura inconsueta della vicenda. L’accusa grave dei gesuiti, dalla quale l’imputato ben difficilmente si sarebbe salvato, riguardava la concezione atomistica e antiaristotelica di Galileo. Non era una questione di principio. Il recupero dell’atomismo democriteo, soprattutto vitale tra i teologi protestanti, contraddiceva le basi aristoteliche su cui anche si fondava il concetto di transustanziazione. Era il sacramento stesso della Eucarestia a essere messo in discussione. Da un’accusa del genere Galileo non si sarebbe salvato e Urbano non voleva replicare un caso Giordano Bruno in momenti così difficili. E forse non voleva perdere un uomo che ammirava e stimava. Il processo salvò Galileo, il quale ancora spaventato cinque
anni dopo si difese nel “Discorso intorno a due nuove scienze” dall’accusa di praticare una fisica materialista sostenendo di parlare di atomi come “astratte entità di natura geometrica”.