Le prime forme conosciute di terapia furono religiose. Anche gli antichi egizi, che avevano un medico per l’occhio destro e uno per quello sinistro, praticavano cure per meate di teologia. In Grecia è Asclepio, figlio di Apollo, il dio che guarisce: i suoi sacerdoti sono semplici emissari. I malati vengono ricevuti e trattati seguendo precisi riti, dei quali il serpente e il gallo sono i simboli. E anche oggi molti sperano più nei miracoli che non nei medici.
Giorgio Cosmacini ha ora affrontato l’argomento (e i suoi interessanti dintorni) in un accattivante saggio: La religiosità della medicina. Dall’antichità a oggi (Laterza, pp. 214, Euro 18). In esso cristianesimo, ebraismo, islamismo e anche l’atteggiamento agnostico e ateo si confrontano con i rimedi che l’uomo ha scoperto nei secoli. Il titolo del libro richiama alla mente una piccola opera dell’epicureo Thomas Browne, Religio medici, pubblicata a Londra nel 1642. In essa l’autore, che si era ritirato in uno sperduto paesello dello Yorkshire, anticipava di una ventina d’anni la pubblicistica inglese – che causò una rivoluzione paragonabile a quella in politica legata al nome di Cromwell – sull’anatomo – fisiologia del fegato, del cervello, del cuore, del trattamento delle febbri, nonché buona parte qu ce oggi consideriamo una condotta laica dinanzi alla malattia.
Cosmacini offre storie e profili che vanno dai curatori ebrei ai grandi trattati arabi, via via risalendo le epoche sino alla Bibbia: in ogni secolo la bontà di Dio e la sapienza del curatore sembrano dividersi il soccorso al malato. Del resto la parola «medico» compare nel libro del profeta Geremia (è rofè in 8,22), ma essa si può trovare già nella prima parte della cosiddetta rivelazione greca, di poco anteriore al testo profetico: l’Iliade. Il termine ietèr, riferito a Macàone, si legge nel IV libro (verso 194). Ma è altresì vero che la lingua greca confessa un rapporto che si perde nella notte dei tempi, mostrando l’intimo legame tra medicina e religione: isótheos, ovvero simile a Dio: è il medico guaritore. La dimensione religiosa e quella strettamente scientifica non riescono a distinguersi nemmeno con Paracelso, in pieno XVI secolo: egli brucia sulla pubblica piazza i testi di Ippocrate e Galeno, considerati obsoleti, ma le sue cure risentono sovente di concezioni alchemiche. Ci vorrà ancora qualche anno per consentire a William Harvey di scrivere il De motu cordis et sanguinis e dare inizio alla desacralizzazione del sangue.
Gli esempi si moltiplicano se si getta lo sguardo nei rapporti tra progresso delle cure e cristianesimo, dove gli scontri non mancano. Come provano, per esempio, i problemi sollevati dall’innesto del vaiolo nel XVIII secolo. Si parlò di imponderabile salto nel buio, di diavolerie barbare, di peccaminoso vulnus. La pratica, primadi evolversi nella inoculazione di «pus vaccino» attuata nel 1798 dal naturalista inglese Edward Jenner, diventò un problema che, come sottolinea Cosmacini, «non solo richiedeva un netto pronunciamento tra scienza e religione ma che, soprattutto, costituiva un momento di confronto con le correnti più avanzate della cultura illuministica». Papa Benedetto XIV, al secolo Prospero Lambertini, aperto e tollerante, consultò medici e teologi e alla fine si persuase che «non era giunto ancora il tempo» di far «adottare un tal preservativo». La questione impose a tutti una scelta. Se l’imperatrice Maria Teresa d’Austria si convinse della liceità dell’innesto, che considerò un utile mezzo nelle mani del medico e una pratica voluta da Dio, nel 1763 la facoltà di teologia di Parigi si dichiarava contraria sentenziando: «E sufficiente che questa inoculazione sia una novità per essere reputata condannabile».
Oggi stiamo vivendo l’epoca nella quale la scienza sta compiendo miracoli, anche se – come nota Georges Conguilhem nel denso libretto Sulla medicina (appena uscito da Einaudi, pp. 120, Euro 12) – siamo circondati da guaritori che vivono e prosperano appena oltre la soglia degli istituti clinici più attrezzati. Ma sia la ricerca avanzata che la medicina selvaggia rimandano a problemi morali, gli stessi che interagiscono da secoli con competenze e speranze dell’uomo.
Giorgio Cosmacini ha ora affrontato l’argomento (e i suoi interessanti dintorni) in un accattivante saggio: La religiosità della medicina. Dall’antichità a oggi (Laterza, pp. 214, Euro 18). In esso cristianesimo, ebraismo, islamismo e anche l’atteggiamento agnostico e ateo si confrontano con i rimedi che l’uomo ha scoperto nei secoli. Il titolo del libro richiama alla mente una piccola opera dell’epicureo Thomas Browne, Religio medici, pubblicata a Londra nel 1642. In essa l’autore, che si era ritirato in uno sperduto paesello dello Yorkshire, anticipava di una ventina d’anni la pubblicistica inglese – che causò una rivoluzione paragonabile a quella in politica legata al nome di Cromwell – sull’anatomo – fisiologia del fegato, del cervello, del cuore, del trattamento delle febbri, nonché buona parte qu ce oggi consideriamo una condotta laica dinanzi alla malattia.
Cosmacini offre storie e profili che vanno dai curatori ebrei ai grandi trattati arabi, via via risalendo le epoche sino alla Bibbia: in ogni secolo la bontà di Dio e la sapienza del curatore sembrano dividersi il soccorso al malato. Del resto la parola «medico» compare nel libro del profeta Geremia (è rofè in 8,22), ma essa si può trovare già nella prima parte della cosiddetta rivelazione greca, di poco anteriore al testo profetico: l’Iliade. Il termine ietèr, riferito a Macàone, si legge nel IV libro (verso 194). Ma è altresì vero che la lingua greca confessa un rapporto che si perde nella notte dei tempi, mostrando l’intimo legame tra medicina e religione: isótheos, ovvero simile a Dio: è il medico guaritore. La dimensione religiosa e quella strettamente scientifica non riescono a distinguersi nemmeno con Paracelso, in pieno XVI secolo: egli brucia sulla pubblica piazza i testi di Ippocrate e Galeno, considerati obsoleti, ma le sue cure risentono sovente di concezioni alchemiche. Ci vorrà ancora qualche anno per consentire a William Harvey di scrivere il De motu cordis et sanguinis e dare inizio alla desacralizzazione del sangue.
Gli esempi si moltiplicano se si getta lo sguardo nei rapporti tra progresso delle cure e cristianesimo, dove gli scontri non mancano. Come provano, per esempio, i problemi sollevati dall’innesto del vaiolo nel XVIII secolo. Si parlò di imponderabile salto nel buio, di diavolerie barbare, di peccaminoso vulnus. La pratica, primadi evolversi nella inoculazione di «pus vaccino» attuata nel 1798 dal naturalista inglese Edward Jenner, diventò un problema che, come sottolinea Cosmacini, «non solo richiedeva un netto pronunciamento tra scienza e religione ma che, soprattutto, costituiva un momento di confronto con le correnti più avanzate della cultura illuministica». Papa Benedetto XIV, al secolo Prospero Lambertini, aperto e tollerante, consultò medici e teologi e alla fine si persuase che «non era giunto ancora il tempo» di far «adottare un tal preservativo». La questione impose a tutti una scelta. Se l’imperatrice Maria Teresa d’Austria si convinse della liceità dell’innesto, che considerò un utile mezzo nelle mani del medico e una pratica voluta da Dio, nel 1763 la facoltà di teologia di Parigi si dichiarava contraria sentenziando: «E sufficiente che questa inoculazione sia una novità per essere reputata condannabile».
Oggi stiamo vivendo l’epoca nella quale la scienza sta compiendo miracoli, anche se – come nota Georges Conguilhem nel denso libretto Sulla medicina (appena uscito da Einaudi, pp. 120, Euro 12) – siamo circondati da guaritori che vivono e prosperano appena oltre la soglia degli istituti clinici più attrezzati. Ma sia la ricerca avanzata che la medicina selvaggia rimandano a problemi morali, gli stessi che interagiscono da secoli con competenze e speranze dell’uomo.