Secondo una diffusa convinzione, ogni tentativo di far interagire le scienze dure e le scienze umane (l’oggettività dei dati fisico-biologici e la soggettività dell’esperienza) non può che risolversi in un black-out di reciproche preclusioni.
Ma da sempre, l’immunologo e neuroscienziato Gerald Edelman (Nobel 1972 per la medicina) ha contrastato questa convinzione, tanto che nel nuovo libro arriva a trattare frontalmente la «seconda natura» della nostra specie, cioè proprio quelle funzioni psicologiche e mentali irriducibili ai livelli opachi della biochimica.
In una prima parte in cui condensa l’avvicinamento concentrico dei libri precedenti, Edelman ribadisce come alla base di tutto si situi la sua teoria del cervello e della coscienza come prodotti della «selezione naturale», teoria in grado di sequenziare due svolte evolutive capitali: quella che ha portato (circa 250 milioni di anni fa, con la transizione dai rettili agli uccelli e ai mammiferi, in linee separate) alla «coscienza primaria» di certi animali, simile a un «presente ricordato»; e quella che ha portato – in tempi più recenti e rapidi – alla «coscienza di essere coscienti» (la nostra), emersa dall’integrazione tra coscienza primaria, memoria simbolica e linguaggio. Centrale, in questa emersione, è il meccanismo del «rientro», l’incessante brusio neuronale con cui il sistema talamo-corticale tesse la «diffusa sincronizzazione» tra mappe cerebrali differenti: esemplare il caso della visione, con 33 aree specializzate (Vi per l’orientamento degli oggetti, V4 per il colore, V5 per il movimento…) che vengono così armonizzate in un quadro unitario.
Poi – con la cautela e il rigore consueti – Edelman prova ad avvicinare altre «funzioni superiori» complesse, arrivando a risultati spesso controintuitivi. Sottraendo il linguaggio a ogni prospettiva platonica o «mentalista», lo inquadra come approdo di un processo passato perla stazione eretta dello scheletro, l’evoluzione del tratto sopralaringeo, l’espansione della corteccia e culminato nel formarsi di schemi cerebrali pre-sintattici a partire da quelli sulla regolazione delle azioni senso-motorie. Pur riconoscendo la potente capacità di astrazione delle facoltà logico-matematiche, ne scorge l’origine in dinamiche evolutive inseparabili per lungo tratto da quelle emotive, e ne coglie l’antefatto generale nel «riconoscimento delle configurazioni» utile al cervello per orientarsi nello spazio circostante. E restituendo alla creatività un’accezione trasversale, scientifica e umanistica, ne dimostra la dipendenza da una «ridondanza funzionale» del cervello – da un ventaglio infinito di variazioni’ scremate per la loro efficacia adattativa solo a posteriori – che ritroviamo già ai livelli più «bassi» della selezione, come nel caso dei cento miliardi di anticorpi attivi per neutralizzare e poi riconoscere virus e batteri.
Particolarmente notevoli le pagine su psico e neuropatologia. L’analisi originale di molti disagi mentali anche gravi riconduce per esempio la schizofrenia non solo a precise componenti genetiche, ma anche (per quanto riguarda le allucinazioni visivo-uditive e il quadro dissociativo) a una possibile alterazione della sincronizzazione del «rientro» tra certe aree. Mentre la rilettura critica di Freud (una delle più pacatamente provocatorie del libro) ne rivaluta da un lato – a differenza di altri neuroscienziati – molte intuizioni descrittive (dall’inconscio alla struttura tripartita in lo, Es, Super-io) e ne evidenzia, dall’altro, tutti i limiti (la vaghezza di molte metafore, l’applicazione troppo invasiva e indifferenziata delle alterazioni psicosessuali come cause di disagio e, fatalmente, l’approssimazione neurobiologica, di cui del resto Freud stesso era consapevole).
Ricordando quasi a ogni pagina la dinamica sottostante alla sua teoria (il costante scambio di segnali tra cervello, corpo e ambiente, e del cervello con se stesso), Edelman approda a una posizione tesa a scontentare tutti. Si distanzia da ogni forma di dualismo più o meno cartesiano tra spirito e materia o di «funzionalismo» (alla base dell’impropria analogia cervello-computer) e più in generale stigmatizza l’«umanesimo altezzoso» che vede ancora la scienza come il regno inerte della quantità; ma disapprova anche la ruvidezza di certa biologia all’ingrosso (l’ultimo Dawkins) e di certa psicologia evoluzionistica ingenua, e più in generale ogni forma di vetero e neopositivismo.
In questa prospettiva, un libro come Seconda natura potrebbe servire a «sanare le fratture». Chi volesse uscire dal black-out dei pregiudizi incrociati, infatti, vi troverebbe, se non la piena luce, almeno il chiarore di una nuova, promettente teoria della conoscenza.