Riproponiamo l’incontro di mercoledì 8 febbraio 2006, presso la Sala San Marco a Milano.
Relatori:
Giorgio Israel, docente di Storia della Matematica, Università La Sapienza di Roma,
Marco Bersanelli, docente di Astrofisica, Università degli studi di Milano.
Giorgio Israel, docente di Storia della Matematica, Università La Sapienza di Roma,
Marco Bersanelli, docente di Astrofisica, Università degli studi di Milano.
Moderatore:
Mario Gargantini, direttore della Rivista Emmeciquadro.
Mario Gargantini, direttore della Rivista Emmeciquadro.
Mario Gargantini: Buonasera e benvenuti all’incontro: “Verità scientifiche o potere? La scienza a un bivio”. Certo, il volto della scienza più diffuso presso l’opinione pubblica è quello di un’attività orientata e finalizzata alle applicazioni tecnologiche, con le quali estendere il progressivo dominio sui settori sempre crescenti della realtà e della nostra stessa vita quotidiana. Lo sperimentiamo tutti i giorni, sono innegabili peraltro i risultati positivi di tali applicazioni, i vantaggi che l’uomo ne ha ricavato in termini di salute, di condizioni di vita, di possibilità espressive, ma sono altrettanto innegabili le conseguenze negative: le minacce per la vita umana e per l’ambiente. D’altra parte osservando l’attività degli scienziati sembra che la scienza proceda sempre più in modo funzionale. La vera finalità di tante ricerche e di tanto lavoro sembra procedere in modo autosufficiente, senza riferimenti se non ai suoi stessi risultati, ma questi non possono bastare a giustificare, a motivare e a dare senso all’attività stessa, con la conseguenza, soprattutto in certi campi che toccano la sfera più psichica, di non riconoscere alcun tipo di limite e di trovarsi detta attività scientifica spesso coinvolta in palesi violazioni della vita umana, per motivi che hanno più a che fare con il potere che con la sete di conoscenza. Ecco, allora, ci interessa capire se questa prospettiva è evitabile, se siamo di fronte a un senso unico oppure a un bivio, o addirittura a una pluralità di possibilità. Ci interessa capire come gli scienziati vivono questa condizione, prima ancora delle immagini che ci vengono fornite anche dai mezzi di comunicazione, se viene vissuta così la scienza, e se è così, allora che prospettive ci sono? Qual è l’esperienza degli scienziati su questo? Ci interessa capire se la competizione spesso accanita da ricercatori o da gruppi di ricercatori è connessa a capire la realtà, come sono fatte le cose o come è fatto il mondo, oppure se è mossa da altre motivazioni. Ci interessa capire se c’è ancora spazio nell’esperienza degli scienziati per parole come verità, significato, scopo, oppure se la marea del relativismo ha sommerso anche i laboratori o i centri di ricerca, i quali per loro natura non dovrebbero essere relativisti. Rifletteremo su queste e su altre domande che voi stessi potete porre ai nostri ospiti. Con questo scopo abbiamo invitato Giorgio Israel e Marco Bersanelli. Il professor Israel è docente di Storia delle Matematiche all’Università La Sapienza di Roma, noto al pubblico per alcuni suoi interventi su “Il Foglio”, recentemente ha svolto alcune ricerche di storia della scienza oltre che di storia della matematica, è membro di numerosi comitati e gruppi di lavoro, autore di numerose pubblicazioni scientifiche e recentemente del volume La macchina Vivente. Il professor Marco Bersanelli è noto a questo pubblico per precedenti interventi, è docente di Astrofisica all’Università degli Studi di Milano, è tra i responsabili di una missione spaziale internazionale che l’anno prossimo andrà a compiere nuove misure sull’eco dell’esplosione del Big Bang, da cui forse avremo nuove informazioni sul nostro universo; inoltre è presidente dell’associazione Euresis. Io direi di dare loro la parola per aiutarci ad entrare con la loro esperienza e la loro quotidianità in questa tematica che non è solo per gli addetti ai lavori, ma interessa anche noi.
Giorgio Israel: Tre anni fa uscì negli Stati Uniti un libro intitolato La morte della scienza probabilmente un libro un po’ apocalittico, ma forse non arriva a tanto. La scienza non è oggi la stessa cosa che si è conosciuta fino a qualche decennio fa. L’oggetto “scienza”, che abbiamo di fronte, non ha quasi nulla a che fare né con la scienza di Galileo o di Newton, né con quella di Einstein: è qualcosa di profondamente diverso, in particolare riguardo il mutato rapporto tra il progetto di conoscenza della scienza e la tecnologia, nel senso che scienza e tecnologia nella storia sono sempre corse parallele, con delle fortissime interazioni ma con un certo livello di indipendenza. Comunque nella costruzione scientifica la scienza propriamente detta, cioè la scienza teorica, ha sempre avuto un ruolo, per così dire, di “tribunale supremo” anche nei confronti della tecnologia: le scoperte tecnologiche dovevano essere in qualche modo misurate rispetto alla loro validità di fronte alle teorie scientifiche. Oggi non è più così, oggi siamo in una situazione in cui la tecnologia ha un carattere trainante e se si riflette su questo si nota che la scienza teorica è in deperimento, le scoperte di carattere teorico sono sempre meno, sempre meno sono coloro che si impegnano su questo fronte, non si hanno più grandi scoperte scientifiche come quelle avvenute nella prima metà del secolo passato, e il progredire della tecnologia è abbastanza autoreferenziale, nel senso che è piuttosto la ricerca scientifica che rincorre le esigenze di carattere tecnologico, per cui questo spinge a parlare più di qualcosa come la “tecnoscienza”, che del rapporto tra scienza e tecnologia che abbiamo avuto fino a 30/40 anni fa. Ora, questa fortissima enfatizzazione del ruolo della tecnologia ha portato a una modificazione profonda, non soltanto per uno svilimento del valore della ricerca teorica, ma anche su altri piani, persino sul piano direi persino della probità scientifica, quello che è stato tradizionalmente uno dei bastioni, dei vanti della scienza, e cioè quello di ricercare la verità, di manifestare un rigore estremo nel confronto dei risultati con la realtà empirica, di essere aperta alla confutazione di ciò che si presentava come sbagliato, quindi con estremo rigore, è qualche cosa che oggi è largamente macchiato, caduto in certi casi a livelli assai degradanti: gli esempi sono sotto i vostri occhi, basta rifletterci. Non sono soltanto le cose che abbiamo detto di recente sulle truffe dei biotecnologi coreani o cose di questo tipo, ma anche ad esempio quante volte abbiamo sentito parlare negli ultimi anni della scoperta di vaccini contro l’Aids? Ne avete più sentito parlare? Esiste un vaccino per chi si ammali di Aids? Eppure dei ricercatori si sono presentati alla stampa, alle televisioni, dicendo che avevano scoperto chissà che, e poi non è seguito nulla. Perché gran parte delle scoperte oggi si fanno semplicemente presentando; infatti in questi campi soprattutto, sia sotto la spinta delle esigenze di carattere tecnologico e commerciale, sia per il carattere estremamente cogente del finanziamento della ricerca, molte scoperte vengono presentate sui giornali prima che sulle riviste scientifiche. Poi nessuno sa più che quella scoperta presentata con tanto clamore, non è poi stata neanche ritenuta degna di essere pubblicata ed è finita nel nulla, ma magari l’avvertimento, l’avviso pubblico è servito a ottenere un finanziamento. In altre parole, una profonda corruzione si è installata nel mondo scientifico. Facevo l’esempio dell’Aids: ecco, io non sono assolutamente competente in materia, però anni fa io ero amico di un celebre storico della medicina e medico, Mirko D. Grmek, autore di una celebre Storia della medicinapubblicata da Laterza, un personaggio di primo piano, che mi spiegava come concettualmente l’idea di un vaccino Aids sia impossibile proprio per la natura del virus stesso. Mi sono sempre chiesto perché questa questione che è essenzialmente teorica non venga fuori, e si parli di vaccini Aids senza porsi il problema se in realtà concettualmente la cosa sia sensata oppure no. E potrei continuare con esempi del genere. Un esempio analogo: una delle conseguenze della clonazione della pecora Dolly fu la morte rapida di questa pecorella perché quando si clona un animale questo animale nasce con l’età della cellula tratta da un altro animale con cui lo si è clonato, quindi non nasce all’anno zero, al tempo T = 0, ma nasce con una certa età, e quindi nasce vecchio, subisce più rapidamente malattie e così via. Ora, tutto questo è estremamente interessante, perché indica che il tempo è davvero irreversibile e che con la clonazione non si ha la possibilità di invertire la freccia del tempo. Quando questo è stato scoperto, naturalmente sarebbe stato interessante non solo porsi le implicazioni tecnologiche della questione ma anche quelle scientifiche, che sono inerenti a questo problema della irreversibilità, il quale è un problema squisitamente scientifico. Una controfaccia, un riflesso di questo degrado è per esempio il degrado della cultura scientifica generale. Noi ci sentiamo dire continuamente dai pretesi difensori della scienza che il nostro sarebbe un paese culturalmente sottosviluppato dal punto di vista scientifico, e quindi bisogna fare iniezioni di cultura scientifica, di informazione e così via.
Ma andiamo a vedere che cosa è per lo più questa informazione e questa divulgazione scientifica. Il livello della divulgazione scientifica e delle assurdità che vengono raccontate, magari si dedica un’intera pagina del principale quotidiano italiano a raccontare che un oscuro matematico libanese avrebbe dimostrato il quinto postulato delle parallele di Euclide, cioè una cosa che per uno che conosca un minimo di matematica è una bestemmia, come per un fisico sarebbe dire che uno ha costruito il moto perpetuo, ha realizzato il moto perpetuo. Questo è il livello che abbiamo, corrisponde al degrado di cui parlavo e corrisponde anche a una dimenticanza della storia della scienza: noi in Italia abbiamo avuto un episodio abbastanza drammatico per la storia della cultura scientifica, esattamente un secolo fa, quando il matematico italiano Federigo Enriques, che era profondamente interessato alla filosofia, addirittura aveva un progetto di fondazione di una facoltà filosofica che doveva raccogliere tutte le materie di carattere teorico, scientifico e non scientifico, cioè raccogliere filosofia, matematica, fisica in un’unica facoltà filosofica, perché si batteva per l’unità della conoscenza e per il valore della cultura scientifica, unita a quella filosofica. E in una diatriba con Benedetto Croce fu sconfitto non sui contenuti ma sul piano del potere. Questa fu una storia importante e che ha segnato una svolta negativa per la cultura scientifica italiana. L’anno scorso nel corso di una conferenza rivolta ad aspiranti matricole, per cercare di indurle a iscriversi a un corso di laurea in Matematica, un rispettabile matematico ha raccontato di aver sentito parlare di questa cosa, ma che non se la ricordava, e che in ogni caso pensava che non avesse nessuna importanza. E poi ha cercato di spiegare l’interesse per la matematica a questo centinaio di aspiranti matricole dicendo che la matematica è come il maiale, cioè non si butta niente, è tutta buona. Questo è il livello a cui siamo arrivati, per cui non c’è più da stupirsi se siamo di fronte a un crollo delle iscrizioni delle facoltà scientifiche, che non è un fenomeno marginale perché è la testimonianza di un processo in cui si incitano i giovani a credere che quello che conta è la tecnologia, e che quindi la scienza finirà per andarle dietro, e naturalmente questo spinge a indirizzarsi verso facoltà direttamente applicative, a considerare che fare fisica o matematica o biologia sia una perdita di tempo e conduce alla creazione di una potenziale massa di spostati sociali, che saranno coloro che andranno a fare a migliaia facoltà come Psicologia, Scienze della comunicazione (con tutto rispetto per queste materie). È chiaro che non è normale una situazione di questo tipo in una società che si proclama fondata sulla tecnologia ma ha un numero di iscritti a facoltà scientifiche che è meno di un decimo di quello degli iscritti a una facoltà come Scienze della comunicazione. Tutto questo deriva essenzialmente da un crollo dell’idea della scienza come cultura, non dal fatto che si diffonde meno la scienza: questa è la rozzezza degli scientisti che credono basti dare un’overdose di informazione scientifica, è un atteggiamento puerile e antiscientifico se volete, come quello del medico che somministra a un malato una certa dose di antibiotico e poi costatando che questa dose non fa nulla e la febbre rimane, invece di ripensare la propria diagnosi raddoppia la dose di antibiotico, e poi la triplica e la quadruplica. Fuor di metafora, continuare a investire le librerie di cattiva divulgazione scientifica non cambierà le cose. Io sono convinto, anche per esperienza, che un crollo dell’interesse per la scienza sia anche legato al fatto che oggi la scienza non si presenta più come qualcosa che risponde alle domande della gente. Sono convinto che in realtà quello che più preme a ciascuno di noi nella sua vita, sono le domande fondamentali quelle che uno ha di fronte e che inquietano la propria vita, le domande sul senso, che riguardano chi sono io, perché sono qui, che cosa è la morte, da dove mi vengono i principi etici, su che è basata la convivenza.
Ora, perché la scienza deve essere concepita come qualche cosa che non ha nulla a che fare con tutto ciò? Questo è il problema. Ora, se effettivamente la scienza fosse qualcosa per sua natura che non ha niente a che fare con queste domande, allora sarebbe ragionevole, allora avremmo in fondo sì un mondo spaccato in due, come purtroppo oggi un po’ è, un mondo in cui chi si occupa di scienza trascura completamente queste domande oppure, peggio ancora, ritiene che questo tipo di domande, quelle cioè circa ciò che è giusto o ingiusto, ciò che è preferibile o no a una persona, ciò che moralmente è più giusto o no, possano essere risolte sul terreno prettamente scientifico, matematico al limite. Queste domande si risolvono sul piano della massimizzazione dell’utilità, dei principi di ottimizzazione matematica: secondo un punto di vista largamente diffuso e si può arrivare a questo, oppure semplicemente si giunge a spaccare i due mondi in una sorta di schizofrenia. Però la scienza non è nata così, è questo che noi dimentichiamo, lo dimentichiamo anche perché non ne conosciamo la storia, e questo, dato che io faccio anche il mestiere dello storico della scienza, è una cosa che vivo con una certa sofferenza, perché vedo come nel mondo scientifico, e fuori non meno, esiste una totale ignoranza della storia della scienza, di quello che è stata la scienza; del fatto che la scienza in realtà non è nata in contrapposizione a queste domande fondamentali. La scienza è nata all’interno di un progetto complessivo di conoscenza che comprendeva tutto, che risaliva dallo studio dei fenomeni materiali più minuti fino – come diceva Newton – alla Causa Prima. C’è un bellissimo brano di Newton nella sua Ottica, in cui dice che il compito della filosofia della natura è di studiare fenomeni come gli alberi, gli astri, le stelle, i fenomeni planetari, il moto della Terra, e risalendo su su a fenomeni di carattere biologico, e così via, fino alla “Causa Prima”, cioè ai problemi della teologia, di Dio, la Causa Prima che certamente non è meccanica. La scienza è nata essenzialmente all’interno di un grande progetto di conoscenza filosofica e anche teologica, in cui tutto si teneva, in cui non c’era questa scissione drammatica che noi oggi vediamo, qui addirittura non solo filosofia e scienza sono divise, ma filosofia e religione, ad esempio, sono contrapposte, sono viste come nemiche, la scienza sarebbe addirittura la barriera del libero pensiero contro l’oscurantismo della religione. Ma questo naturalmente non appartiene alla storia della scienza. Adesso non mi voglio dilungare troppo, dico soltanto alcuni spunti su questo argomento complesso, che merita che qualcosa si dica. Come possiamo noi affrontare un compito così titanico come quello di riscoprire questo rapporto, e non vedere più la scienza come un fattore meramente tecnologico, di conoscenza pratica, ma riscoprire, ridare valore alla scienza come progetto di conoscenza? E poi guardate, in fondo è abbastanza drammatico osservare che quando diciamo queste cose sembra che parliamo di cose che stanno sulla Luna, in realtà erano vicine a noi, perché uno scienziato come Einstein è colui che ha detto che scienza e religione si tenevano, si devono tenere, legare strettamente una all’altra e sosteneva anche che in realtà uno non può essere un buono scienziato se non ha un senso del mistero, e cioè dell’infinito, perché questo è poi il punto. La conoscenza scientifica ha una sua natura di ricerca della verità nella misura in cui si propone come un incessante avvicinamento verso la conoscenza totale, che certamente mai potrà essere acquisita dall’uomo. L’uomo come essere finito non può acquisire la conoscenza dell’infinito, del trascendente, della totalità, ma è nella misura in cui, diciamo, si pone davanti quella idea, la esistenza della trascendenza, dell’infinito, che in qualche modo la conoscenza umana è garantita di avvicinarsi verso la verità. E quindi è conoscenza! Questo è il punto, questo è ciò che ha dato ancora fino a qualche decennio fa alla scienza il senso di essere una attività che ha a che fare con la conoscenza in generale e con la ricerca del senso dell’esistenza, che è una delle sorgenti fondamentali del pensiero umano. Ora ci potremmo chiedere come è avvenuto questo divorzio, certo, senza dilungarci, in modo molto schematico, ma qualcosa vorrei dire su questo punto: in definitiva c’è stato un grande paradosso nella rivoluzione scientifica.
La rivoluzione scientifica nel ’600, quella dei Galileo, dei Newton, dei Cartesio e così via, è nata appunto sulla base di una visione essenzialmente teologica, quello che animava il pensiero di Galileo come quello di Newton era l’idea che il mondo fosse fondato su grandi leggi naturali che erano state poste da Dio come funzionamento del cosmo, l’idea che appunto oggi noi in qualche modo sembriamo aver perso. E quindi erano idee teologiche. Ora, in qualche modo erano delle idee che ponevano dei seri problemi alla religione, lo sollevo perché io penso che oggi sia un problema ancora con cui dobbiamo fare i conti. Il problema essenzialmente era questo: nella misura in cui noi affermiamo l’idea che il mondo è retto da leggi naturali che Dio ha posto al suo funzionamento, dobbiamo ritenere che queste leggi naturali siano per così dire immutabili, eterne, che siano state poste da Dio al funzionamento del cosmo e poi lui se ne sia ritirato, oppure no? Questo è stato sempre un grande problema che si è posto fin dagli inizi della rivoluzione scientifica per il pensiero religioso. E non è un discorso di pura storiografia quello che faccio, posso mostrare subito che ha a che fare con cose anche molto attuali: perché in definitiva l’Islam, che ha contribuito così fortemente ai primi sviluppi della rivoluzione scientifica, dello sviluppo della scienza moderna, poi se ne è ritirato? L’Islam ha contribuito a trasmettere la cultura greca e ha portato anche altre forme di conoscenza, come l’algebra indiana, le operazioni, e a sua volta ha sviluppato le basi della matematica, che è poi quella che sarebbe diventata la matematica moderna, però poi si è ritirato dalla rivoluzione scientifica, non ha più dato il suo contributo, se ne è allontanato. E se ne è allontanato esattamente per questo motivo: perché non ha scelto la via di Averroè che sosteneva appunto l’idea dell’esistenza delle leggi naturali, ma ha scelto invece la via secondo cui il mondo è assolutamente frutto della volontà divina, che può cambiare ad ogni minuto, quindi non possiede alcun tipo di oggettività; e che quindi nulla può essere detto circa il mondo, perché la volontà divina può cambiare nel mondo quel che vuole ad ogni istante: questa è la posizione di Ghazzali, e l’Islam in definitiva ha adottato la posizione di Ghazzali, per cui ancora oggi il rapporto del mondo islamico con la scienza ha questa duplicità, cioè è un rapporto che in definitiva non accetta la visione scientifica, ma soltanto la visione tecnologica nella sua pura strumentalità. Il mondo occidentale ha accettato un’altra linea, che era quella di sostenere che in qualche modo il mondo è stato costruito da Dio sulla base di leggi oggettive e inamovibili, che sono state poste al suo funzionamento, dopodiché Dio si è per così dire ritirato dal mondo. Però il problema che questo pone non è in realtà da poco, perché è chiaro che, diciamo, questa era la posizione estrema di Cartesio, perché in realtà la scelta di una posizione oggettivista così forte, in realtà è vero che finisce col portare all’esilio di Dio: cioè non c’è più posto per Dio nel cosmo, una volta che l’ha fabbricato. E’ inutile, è un ente inutile. In definitiva, se uno ci riflette – questa è una questione che non mi invento certo io, ma già è rilevata da filosofi come Husserl- se c’è una radice della deviazione della scienza verso l’ateismo moderno, non c’è dubbio che sta qui. Sta qui, in questa teologia laica di Cartesio, cioè in questa idea un po’ estrema che nel cosmo non c’è più posto per Dio, diviene un ente superfluo, è il “Dieu fait-neànt”, il “Dio fannullone”: non serve più a nulla, ha costruito il mondo ma d’ora in poi è nostro, e noi facciamo quel che vogliamo. Quindi: oggettività assoluta e inutilità della presenza divina; dopodiché tutto questo ha portato, in definitiva ha trasformato questa teologia di tipo cartesiano in una forma di materialismo, cioè perché Dio dovrebbe esistere? Non c’è più posto per Dio, quindi per l’anima e per nient’altro di spirituale perché quello che c’è è soltanto il funzionamento del mondo esterno fenomenico così come lo vediamo, e quindi rimane la necessità di scoprire le leggi materiali e basta. Questo è un problema reale, in realtà è un problema di riflessione, se volete anche filosofica, aperto: io non credo che si uscirà oggi da questo divorzio tra scienza e tecnologia, che è essenzialmente basato sul trionfo di una visione materialistica e meccanicistica, se non ci si rende conto che in qualche modo bisogna adottare una linea intermedia, vedere le cose in un modo intermedio. Bisogna cioè forse ammettere – se mi è permessa una osservazione quasi personale, quello che a me per esempio affascina (nella visione cabalistica) è l’idea che il mondo in realtà non è un blocco unico ma è stratificato in una serie di sfere di cui alcune, forse quelle più basse, quelle materiali, sono rette da leggi che hanno un carattere per così dire oggettivo, simile alle leggi della fisica, mentre esistono altre sfere, quelle sempre più vicine alla spiritualità in cui invece la libertà, l’autonomia e la presenza attiva, e il rapporto dell’uomo con la divinità hanno un loro spazio, e mantengono, diciamo, una contingenza, cioè una completa libertà. Io credo che questo genere di riflessioni filosofiche o teologiche siano in realtà fondamentali, cioè sembra che andiamo sulla stratosfera rispetto ai temi “terra terra” che ho sollevato all’inizio, ma in realtà io penso di no: se noi vogliamo risollevare la problematica della scienza in una sfera che sia più vicina alle esigenze spirituali di chiunque, noi dobbiamo combattere quel tipo di visioni che hanno ridotto la scienza essenzialmente a una filosofia di tipo materialistico.
La rivoluzione scientifica nel ’600, quella dei Galileo, dei Newton, dei Cartesio e così via, è nata appunto sulla base di una visione essenzialmente teologica, quello che animava il pensiero di Galileo come quello di Newton era l’idea che il mondo fosse fondato su grandi leggi naturali che erano state poste da Dio come funzionamento del cosmo, l’idea che appunto oggi noi in qualche modo sembriamo aver perso. E quindi erano idee teologiche. Ora, in qualche modo erano delle idee che ponevano dei seri problemi alla religione, lo sollevo perché io penso che oggi sia un problema ancora con cui dobbiamo fare i conti. Il problema essenzialmente era questo: nella misura in cui noi affermiamo l’idea che il mondo è retto da leggi naturali che Dio ha posto al suo funzionamento, dobbiamo ritenere che queste leggi naturali siano per così dire immutabili, eterne, che siano state poste da Dio al funzionamento del cosmo e poi lui se ne sia ritirato, oppure no? Questo è stato sempre un grande problema che si è posto fin dagli inizi della rivoluzione scientifica per il pensiero religioso. E non è un discorso di pura storiografia quello che faccio, posso mostrare subito che ha a che fare con cose anche molto attuali: perché in definitiva l’Islam, che ha contribuito così fortemente ai primi sviluppi della rivoluzione scientifica, dello sviluppo della scienza moderna, poi se ne è ritirato? L’Islam ha contribuito a trasmettere la cultura greca e ha portato anche altre forme di conoscenza, come l’algebra indiana, le operazioni, e a sua volta ha sviluppato le basi della matematica, che è poi quella che sarebbe diventata la matematica moderna, però poi si è ritirato dalla rivoluzione scientifica, non ha più dato il suo contributo, se ne è allontanato. E se ne è allontanato esattamente per questo motivo: perché non ha scelto la via di Averroè che sosteneva appunto l’idea dell’esistenza delle leggi naturali, ma ha scelto invece la via secondo cui il mondo è assolutamente frutto della volontà divina, che può cambiare ad ogni minuto, quindi non possiede alcun tipo di oggettività; e che quindi nulla può essere detto circa il mondo, perché la volontà divina può cambiare nel mondo quel che vuole ad ogni istante: questa è la posizione di Ghazzali, e l’Islam in definitiva ha adottato la posizione di Ghazzali, per cui ancora oggi il rapporto del mondo islamico con la scienza ha questa duplicità, cioè è un rapporto che in definitiva non accetta la visione scientifica, ma soltanto la visione tecnologica nella sua pura strumentalità. Il mondo occidentale ha accettato un’altra linea, che era quella di sostenere che in qualche modo il mondo è stato costruito da Dio sulla base di leggi oggettive e inamovibili, che sono state poste al suo funzionamento, dopodiché Dio si è per così dire ritirato dal mondo. Però il problema che questo pone non è in realtà da poco, perché è chiaro che, diciamo, questa era la posizione estrema di Cartesio, perché in realtà la scelta di una posizione oggettivista così forte, in realtà è vero che finisce col portare all’esilio di Dio: cioè non c’è più posto per Dio nel cosmo, una volta che l’ha fabbricato. E’ inutile, è un ente inutile. In definitiva, se uno ci riflette – questa è una questione che non mi invento certo io, ma già è rilevata da filosofi come Husserl- se c’è una radice della deviazione della scienza verso l’ateismo moderno, non c’è dubbio che sta qui. Sta qui, in questa teologia laica di Cartesio, cioè in questa idea un po’ estrema che nel cosmo non c’è più posto per Dio, diviene un ente superfluo, è il “Dieu fait-neànt”, il “Dio fannullone”: non serve più a nulla, ha costruito il mondo ma d’ora in poi è nostro, e noi facciamo quel che vogliamo. Quindi: oggettività assoluta e inutilità della presenza divina; dopodiché tutto questo ha portato, in definitiva ha trasformato questa teologia di tipo cartesiano in una forma di materialismo, cioè perché Dio dovrebbe esistere? Non c’è più posto per Dio, quindi per l’anima e per nient’altro di spirituale perché quello che c’è è soltanto il funzionamento del mondo esterno fenomenico così come lo vediamo, e quindi rimane la necessità di scoprire le leggi materiali e basta. Questo è un problema reale, in realtà è un problema di riflessione, se volete anche filosofica, aperto: io non credo che si uscirà oggi da questo divorzio tra scienza e tecnologia, che è essenzialmente basato sul trionfo di una visione materialistica e meccanicistica, se non ci si rende conto che in qualche modo bisogna adottare una linea intermedia, vedere le cose in un modo intermedio. Bisogna cioè forse ammettere – se mi è permessa una osservazione quasi personale, quello che a me per esempio affascina (nella visione cabalistica) è l’idea che il mondo in realtà non è un blocco unico ma è stratificato in una serie di sfere di cui alcune, forse quelle più basse, quelle materiali, sono rette da leggi che hanno un carattere per così dire oggettivo, simile alle leggi della fisica, mentre esistono altre sfere, quelle sempre più vicine alla spiritualità in cui invece la libertà, l’autonomia e la presenza attiva, e il rapporto dell’uomo con la divinità hanno un loro spazio, e mantengono, diciamo, una contingenza, cioè una completa libertà. Io credo che questo genere di riflessioni filosofiche o teologiche siano in realtà fondamentali, cioè sembra che andiamo sulla stratosfera rispetto ai temi “terra terra” che ho sollevato all’inizio, ma in realtà io penso di no: se noi vogliamo risollevare la problematica della scienza in una sfera che sia più vicina alle esigenze spirituali di chiunque, noi dobbiamo combattere quel tipo di visioni che hanno ridotto la scienza essenzialmente a una filosofia di tipo materialistico.
Marco Bersanelli: Vorrei ripartire dal titolo di questa serata: “Verità scientifiche o potere? La scienza a un bivio”. Perché la scienza, riflettendo proprio anche sull’esperienza che ne ho come ricercatore, è potere. La scienza è una modalità di possesso della realtà, tanto è vero che, appunto, ci ha dato un potere immenso sulla natura, ma prima ancora, con la possibilità di conoscenza che offre, ha modificato la nostra concezione del mondo: dove siamo? Da cosa siamo circondati? È quindi il posto che la nostra umanità, fisicamente parlando, ha nell’universo, nella realtà, e appunto ha aumentato in modo enorme la nostra possibilità di intervento, di manipolazione delle cose, e questo potere tecnologico di sfruttamento della realtà, per qualche tipo di scopo, è qualcosa di assolutamente evidente a tutti. Ma, appunto, come diceva Giorgio Israel poco fa, costituzionalmente, per sua natura questa capacità deriva da una conoscenza. La degenerazione, quella che lui ha chiamato – non già da stasera, ma in diversi interventi che ha fatto – la “tecnoscienza”, è questa degradazione di una ambiguità per cui diventa la tecnologia a tirare la scienza. Ma io mi fermerei un attimo su questo fatto del potere che la conoscenza scientifica è. Personalmente quando ci rifletto, rimango sempre colpito dalle cose che faccio tutti i giorni. Per esempio che noi si possa dire qualcosa di sensato – di sensato come potrei dire qualcosa di sensato di questa bottiglia d’acqua – dire qualcosa di sensato su come l’universo era 14 miliardi di anni fa: è una cosa che, se uno riflette, capisce che ha dentro qualcosa di strano. Il potere che questa conoscenza ci ha dato è avanzato in modo drammatico, appunto grazie alla scienza, negli ultimi quattro secoli. Pensate che soltanto il giorno prima delle prime osservazioni del cielo con il cannocchiale, parliamo dell’inizio del 1600, le dimensioni dell’universo conosciuto erano 15 ordini di grandezza più piccole dello spazio che oggi noi riusciamo a sondare, e ripeto, a sondare avendo ragionevolmente la possibilità di descrivere fatti che hanno una forte credibilità, una ragionevolezza. 15 ordini di grandezza vuol dire che il mondo che conosciamo oggi è un milione di miliardi di volte più grande di quello che si poteva misurare allora: questo è il potere della scienza, il potere di questa forma di conoscenza. Anche nell’infinitamente piccolo abbiamo questa fortuna di poter andare a scovare nell’intimità della materia i fenomeni in un nuovo ordine, scovare quelle che sono le leggi che regolano i fenomeni osservati, che hanno una loro eleganza, che hanno una loro sinteticità e verificare quelle che sono le nostre teorie, che sono sempre perfettibili, ma quello che già ora ci dicono è straordinario. Faccio un esempio che gli studenti di fisica qui presenti sicuramente conoscono, o dovrebbero conoscere: quando andiamo a verificare sperimentalmente l’anomalia magnetica dell’elettrone, la meccanica quantistica fa una certa previsione su quello che deve essere il valore quantitativo: la teoria prevede un fattore, un fattore adimensionale che è 1,159652133 per 10 alla -12, e l’esperimento dice che è 1,159652188: la discrepanza di un fenomeno così sottile, che riguarda una proprietà particolare di questa particella elusiva che è l’elettrone, è verificata rispetto alla meccanica quantistica dalle osservazioni per una parte su cento milioni: vuol dire che la distanza tra Milano e Roma, paragonata a questa precisione, la potrei misurare, la conosco con la precisione di un centimetro e mezzo: questa è la precisione con cui, per qualche strano motivo, noi riusciamo a descrivere la realtà. Per non parlare, appunto, della possibilità che noi abbiamo di cogliere il “trucco” che sta sotto, il trucco fisico, o chimico, che sta sotto certi fenomeni di complessità; quindi abbiamo la possibilità di scovare la chiave, o alcune delle chiavi, che fanno da substrato a quel fenomeno particolarissimo che chiamiamo vita biologica. La genesi del potere che noi abbiamo nella conoscenza, e quindi in qualche modo nel possesso delle cose, dobbiamo osservare che è qualcosa che sulla scala della storia umana tutta intera è qualcosa che avviene in modo assolutamente improvviso. Se voi pensate, i paleoantropologi ci dicono che le prime evidenze fossili della nostra specie, Homo sapiens sapiens, proprio uguale a noi, risalgono a circa 300 mila anni fa, con un margine di errore anche ampio, però quello è l’ordine di grandezza: vuol dire che questa possibilità di uso della ragione per conoscere il mondo scientificamente riguarda soltanto l’ultimo 0,1% di questa storia. È come se nella vita della persona adulta questo potere fosse accaduto improvvisamente, come se nell’età adulta uno improvvisamente, non so, vince la lotteria e gli cambia tutto sotto gli occhi, visto su questa scala.
D’altra parte, appunto, è chiaro, che ci sono delle esagerazioni che poi diventano assolutamente goffe. Già Giorgio ne parlava, prima, ma questo sogno della scienza come potere finale, come ultima possibilità di controllo e di salvezza, se è così giustificabile come errore, resta evidentemente un errore. L’illusione che si arrivi vicino, che ormai la scienza sia arrivata vicina a questo capolinea, per cui non c’è più mistero dietro le cose, è un’illusione, che prima o poi svanirà. Tempo fa (oggi mi pare che le cose stiano cambiando di nuovo) c’era molto questa illusione. Io per esempio, ho qui questo libro che si intitola “Perché non sono cristiano” di Bertrand Russell e mi ha colpito leggere come solo una cinquantina di anni fa, l’autore fosse molto convinto (comunque era una persona che si informava) che la scienza fosse a un passo dall’aver risolto il problema dell’uomo. Diceva per esempio lui: “In tutti i sensi mi sembra che la scienza stia raggiungendo i propri limiti. Si pensa che l’universo sia un’estensione limitata nello spazio, e che la luce potrebbe girare attorno ad esso in poche centinaia di milioni di anni” – tutte cose poi che la cosmologia degli ultimi decenni in realtà ha completamente sovvertito -, “che la materia si compone di elettroni e protoni, che hanno dimensioni definite, ed esistono solo in numero limitato nel mondo. Probabilmente i loro mutamenti non sono continui come si credeva ma avvengono a scatti” – questi sono appunto i primi riflessi della meccanica quantistica, “ma inferiori a un certo minimo. Le leggi di questi mutamenti possono evidentemente essere raccolte in un piccolo numero di principi molto generali che determinano il passato e il futuro del mondo. La scienza fisica sta così raggiungendo una fase compiuta, e pertanto – dice Russell – “priva di ulteriore interesse”. Una volta stabilite le leggi che regolano i movimenti degli elettroni e dei protoni, il resto è solamente geografia: una raccolta di fatti particolari, delle loro distribuzioni in alcuni parti della storia e del mondo”. Oramai l’universo è risolto. Poi va a avanti, adesso non sto qui a leggere tutto. L’uomo non è altro che una parte di questa cosa. Non resta che la geografia: abbiamo già capito tutto, la scienza ci ha dato il potere di capire tutto. Diciamo che oggi esistono ancora, qua e là, delle code di questo atteggiamento, per esempio una certa ideologizzazione delle cosiddette “Teorie del tutto” di cui si parla oggi, sono un po’ la coda di questo. Adesso non c’è tempo per entrare in merito, ma diciamo che oggi sicuramente questa ideologizzazione è in gran parte superata; ci sono ancora, appunto, un po’ come ogni tanto trovano dei giapponesi che combattono nella giungla dopo cento anni che la guerra è finita, ma sono cose che appartengono al passato. Oggi si entra, mi pare, in una fase diversa, in cui la consapevolezza dei limiti della scienza, dei limiti di questo potere, pur straordinario, emerge con maggiore chiarezza. Innanzitutto per tutti noi, non soltanto per gli addetti ai lavori, per i filosofi o gli scienziati. Io credo che questo faccia parte della autocoscienza generale: ci si accorge del limite di questo potere, e sono sempre più sotto gli occhi di tutti certe ferite, che in un mondo dominato scriteriatamente, eccessivamente da una scienza autosufficiente, come veniva detto prima, che porta quindi a un degrado: le crisi del pericolo nucleare evidentemente, se uno legge i giornali di questi giorni, capisce bene che non sono finite come Hiroshima e Nagasaki, ce le portiamo anzi dietro; l’ambiente, e naturalmente la minaccia per la persona (perché ogni potere, ogni possibilità di conoscenza porta dentro questi rischi); il fatto che questo benessere che ha portato in fondo la scienza e la tecnologia continua a rimanere per pochi privilegiati. Forse privilegiati. Quanto privilegiati? A volte viene anche da domandarselo, no? Quanto veramente siamo più contenti perché abbiamo un telefono cellulare più rapido? Bisogna avere il coraggio di domandarselo. Quanto non è invece una sopravvivenza a cui siamo costretti. Quanto siamo noi stessi trainati da questa tecnologia? E anche tra gli addetti ai lavori sta mutando l’atteggiamento, perché ci si rende sempre più conto della nostra ignoranza, forse. E questo credo che proprio sia dovuto al fatto che si sa di più. Veramente si sanno tante cose, e la sfera di quello che si conosce si espande, si è espansa negli ultimi quattro secoli in modo straordinario. Ho dato qualche numerello prima… Quando si espande questa sfera di ciò che la gente sa, e che ha capito in qualche modo, un uomo è quello che è, e quindi è sempre più piccolo rispetto a questa sfera che si espande, e in più la superficie di contatto tra ciò che in qualche modo conosciamo, e l’ignoto, evidentemente aumenta. Oggi, rispetto a Bertrand Russell e a cinquant’anni fa, credo che siamo più costretti a renderci conto di questa sorta di umiliazione, se vogliamo, a cui la stessa corsa della scienza oggi ci costringe appunto a renderci conto. Allora per dare un ultimo spunto, vorrei provare a domandare: da dove ripartire perché questo potere abbia una speranza di positività per l’uomo, per il soggetto che è protagonista di tutto ciò? Per questo credo che bisogna innanzitutto domandarsi un po’ di più in che cosa consiste questo potere, quindi riflettere. Credo che sia importante riflettere su un dato elementare, su questa sorprendente possibilità che noi uomini abbiamo, cioè il fatto che questo potere è un grande mistero; la possibilità di comprendere il mondo è qualcosa di profondamente misterioso. Noi non sappiamo se la scienza potrà continuare indefinitamente nella sua corsa, oppure se arriverà a un certo punto a un limite, come direi, intrinseco, per cui più di tanto non si potranno approfondire certe cose; ma l’aspetto che possiamo già ora dire straordinario, è che questa lotta contro l’ignoto, diciamo così, è un fatto, è reale, è possibile. C’è un passaggio che lo dice bene, perché si collega anche ad alcune osservazioni fatte prima: Paul Davies, che su queste cose ha riflettuto, dice: “Chiaramente l’universo è ordinato in una maniera molto particolare. Se non fosse così, forse non sarebbero esistiti esseri coscienti, in grado di contemplare questo fatto. Ma c’è qualcosa di ancora più straordinario nell’umana consapevolezza. Perché noi non siamo semplicemente coscienti del mondo che circonda, siamo in grado almeno in parte di comprenderlo. Gli esseri umani possono discernere le leggi fondamentali che governano l’universo, le stessi leggi che hanno facilitato in primo luogo l’emergere della nostra coscienza”. Noi siamo dentro un mondo le cui leggi permettono la nostra esistenza e per qualche motivo misterioso sono leggi in qualche modo accessibili alla nostra ragione. Questo è particolarmente sorprendente, anche perché si parla moltissimo di evoluzione in questo periodo. C’è qualcosa che non si spiega, quelli che studiano queste cose non lo spiegano, ma credo ragionevolmente che si colga la bizzarria di questo fatto, non è possibile dare una buona spiegazione evolutiva di questo fatto: del come mai la nostra ragione sia fatta in modo tale da poter cogliere queste sottigliezze, di come è fatta la struttura della realtà; la capacità di sopravvivere nella savana, non sembra dipendere granché dalla nostra predisposizione a risolvere equazioni differenziali. E che tale rapporto di conoscenza esista è qualcosa di non dovuto, una specie di eccedenza che noi ci troviamo, quasi come un lusso, una gratuità, un dono ulteriore di cui dobbiamo, secondo me, prendere coscienza. E devo dire che molti scienziati, grandi scienziati si sono resi conto di questo. Per esempio Paul Wigner, Premio Nobel nel ’63 per la fisica, quando parlando di queste cose dice: “Il fatto miracoloso – usa questa parola – che il linguaggio della matematica sia appropriato per la formulazione delle leggi della fisica, è un regalo meraviglioso che noi non comprendiamo né meritiamo. Dovremmo esserne grati e sperare che rimanga valido nella ricerca futura e che si possa estendere. È un regalo meraviglioso che non comprendiamo e non meritiamo”. Cosi lo stesso Einstein, quando dice: “La cosa più incomprensibile dell’universo è il fatto che l’universo sia comprensibile”. È proprio un grande mistero questo potere che in qualche modo ci troviamo addosso. E da dove viene? Questa è la grande domanda. E questa è la domanda che ci riporta a quello che diceva Giorgio Israel prima, e cioè alle origini stesse della scienza. Perché la scienza non nasce come un pallino di qualcuno svincolato da un contesto, ma nasce proprio da una unità di coscienza della realtà. E la scienza nasce effettivamente in una certa tradizione giudaico-cristiana, in una certa concezione teologica della realtà, in cui la realtà è fatta dalla libera creazione di un Dio razionale, un Dio da cui la realtà dipende non soltanto nel momento in cui viene buttata nell’essere, ma dipende radicalmente. La creazione non è qualcosa di circoscrivibile al Big Bang: sarebbe come dire che io sono padre di mio figlio solo nell’istante in cui mio figlio viene concepito, è un rapporto di dipendenza totale della creatura dal creatore. C’è – sto per concludere – una pagina di questa tradizione giudaico-cristiana che qui mi pare ben rappresentata, che mi commuove ogni volta che rifletto su queste cose, e che mi sembra che contenga un suggerimento interessante, profondo su questa domanda sull’origine di questo potere straordinario, di questo dono straordinario che è la nostra possibilità di conoscenza. È il Salmo 8, che dice: “Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la Luna e le stelle che hai creato, che cos’è l’uomo perché te ne ricordi, e il figlio dell’uomo perché te ne curi?”. L’uomo è nulla in questa vertigine di immensità che è il cosmo. “Eppure – dice –lo hai rifatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato”. E qui viene il passaggio: “Gli hai dato potere sulle opere delle Tue mani, tutto hai posto ai suoi piedi”. Ecco, in questa concezione dell’uomo e dell’universo il potere della scienza sembra venire, il potere della conoscenza del mondo che la scienza permette sembra venire proprio dall’origine, dal fatto che l’uomo è stato voluto, come dice questa tradizione, “a immagine e somiglianza di Dio!”; “poco meno degli angeli” – gli angeli vuol dire, appunto, l’immagine del Divino. E comunque questa concezione si sposa con l’evidenza razionale che dicevamo prima, e cioè che non possiamo non renderci conto che questo potere ci è stato dato; non ce lo siamo inventati noi, ci è stato dato, ce lo troviamo addosso. È il potere che qualcuno ci ha dato, e credo che il degrado, la possibilità dello scivolamento nella presunzione, nasca proprio da un malinteso a questo livello: cioè presumere che questo potere ce lo diamo noi. Presumere che siamo noi i padroni della realtà. Ma questo non ce lo diamo noi. È per questo che io volevo dire solo questo stasera, cioè che la scienza è potere, ma è un potere che un altro ci ha dato. Come un altro ci ha dato la vita, e non c’è cosa più razionale ed evidente di questa, e un altro ha fatto l’universo; un altro ci ha messo in grado di abbracciare l’universo e di domandarci il senso di tutta la sua storia, di tutta la sua bellezza e di tutte le sue fattezze. Il degrado è questo scivolamento nella presunzione, in una pretesa che sia la ragione umana la misura di tutto, l’origine di tutto. Credo che a questo livello si giochi tanto sia delle grandi questioni che riguardano l’uso che noi possiamo fare di tale potere, sia il nostro gusto nel fare scienza oggi, cioè nel ripartire da un entusiasmo per la realtà, cioè del renderci conto di essere privilegiati, di essere messi in grado di un bene più grande, di abbracciare, di conoscere le cose e di poterle usare: “Gli hai dato potere sulle opere delle Tue mani, tutto hai posto ai suoi piedi”. Credo che questo richieda una educazione – forse questo è l’ultimo spunto che volevo dire -, perché, come diceva Giorgio Israel, il problema non è inondare di informazioni più o meno approssimative e superficiali, il problema è di educare degli uomini. Il problema non è neanche produrre delle persone tecnicamente preparate a fare la fisica o la biologia, soltanto; il problema che dobbiamo porci è educare uomini affinché siano dei bravi fisici e dei bravi biologi. E questa è una grande sfida da cui dipende la possibilità che questo potere sia usato appunto per il bene dell’uomo e non contro di noi.
Israel: Conoscenza e trasformazione sono collegate, e l’aspetto tecnico all’inizio, tecnologico sempre più, è strettamente legato alla conoscenza. Mi spiego: per esempio, è uscito un libro anni fa che vantava il fatto che la tecnologia fosse già nata nel periodo alessandrino, perché venivano costruite macchine magnifiche, fontane, uccelli che cantavano, e tutte cose di questo tipo: naturalmente a mio avviso questo è un fraintendimento colossale, perché anche il medioevo è stato un’epoca di costruzioni di macchine portentose – gli orologi sono stati costruiti nel medioevo e non certo più tardi -. Il problema fondamentale è che esiste una differenza che caratterizza la tecnica a partire dalla rivoluzione scientifica. L’oggetto tecnico, la macchina, non è più un ritrovato che è costruito per l’abilità dell’artigiano, il quale – come si diceva nel medioevo – “inganna la natura”, le carpisce i segreti: la natura ha dei segreti, lui la imbroglia insomma, riesce a costruire una macchina che in qualche modo funziona, contrariamente a ogni aspettativa. E quindi ogni oggetto è un prodotto singolo, isolato, dell’artigiano e della sua abilità. La macchina, nella concezione moderna, è invece un prodotto standardizzato, e questo già da Galileo. Perché essenzialmente è un oggetto concettuale. Il cannocchiale di Galileo è un concetto prima che un oggetto materiale. Le macchine di Cartesio, le fontane che lui descrive sono essenzialmente il riflesso dei Principi delle meccanica, cioè la macchina è una esemplificazione dei Principi della meccanica. E d’altra parte l’idea fondamentale della fisica, a partire da Galileo, da Newton eccetera, è che se uno conosce lo stato iniziale in un sistema, sulla base delle leggi di funzionamento dei corpi materiali, può dire quale sarà lo stato futuro del sistema in un determinato istante, e questo lo potrà sapere in ogni caso, e ogni volta, e questo principio di ripetibilità è il principio base della costruzione delle macchine, cioè vuol dire che io posso sempre fare la stessa macchina, lo stesso oggetto nello stesso modo e sono sicuro che funzionerà nello stesso modo. Non così per l’artigiano medievale: fa un orologio poi ne fa un altro, fa un’altra cosa. Quello va bene, non sa neanche perché, eccetera: questa è la differenza. Quindi la tecnologia nasce con la scienza. Attenzione: non c’è una contrapposizione, al contrario. Però il malinteso, e il guaio – io in questo sono lievemente più pessimista della tua relazione -, il guaio oggi è che questo si sta un po’ perdendo. Vi posso dare un altro esempio, rapidamente? Quando Von Neumann costruì, ideò, progettò il primo calcolatore digitale – allora c’erano già grandi macchine di calcolo, c’erano il calcolatore di Atanassov, negli Stati Uniti c’erano grandi macchinoni che occupavano quasi un palazzo, e che avevano le loro performance, se ne costruivano sempre di più grosse, un po’ più veloci, però erano dei bricolage tecnici. Von Neumann riunì gli ingegneri a Princeton e fece una relazione il cui senso era questo: smettiamola di occuparci delle componenti tecniche del calcolatore perché su questa strada non andiamo avanti. Quindi è inutile che voi ingegneri mi cominciate a dire: “è meglio usare un tubo così, a vuoto, oppure questo o quell’altro”. Pensiamo alla struttura concettuale della macchina: lui aveva un modello matematico in testa, derivato da una certa analisi della struttura neuronale del cervello, e sulla base di quello ha ideato un calcolatore che ancora oggi abbiamo. Per carità, tecnologicamente è diverso, nel senso che i componenti sono fatti tutti in un altro modo, abbiamo i microprocessori e non più quei tubi e quei circuiti che c’erano allora, però essenzialmente l’idea è quella, non è che è cambiata, l’idea è quella di von Neumann, vale a dire la memoria centrale, il programma, l’elaborazione dati, e così via. Il calcolatore dunque è nato come un oggetto concettuale. Il problema consiste nel guardare bene all’evoluzione della tecnologia odierna, che pure ci dà delle cose mirabolanti, però c’è da chiedersi se non stiamo un po’ vivendo di rendita. Nel senso che i calcolatori di oggi sono essenzialmente la moltiplicazione esponenziale per velocità dei calcolatori di von Neumann, ma non è che è stata inventata una cosa nuova. Così come, se permettete, le automobili che noi abbiamo sono essenzialmente quelle di Ford. Che poi siano mirabolanti… Però l’idea è quella: il motore, a scoppio o diesel, nessuno ha pensato una cosa nuova. È abbastanza sconvolgente, a mio avviso, il fatto che siamo ancora lì. C’è da chiedersi – e in questo io ripropongo una domanda che ha fatto un celebre fisico-matematico, Clifford Truesdel, che diceva appunto questo, cioè: le scoperte tecnologiche che hanno un avvenire sono quelle basate su leggi scientifiche. Si è andati sulla Luna perché si conoscevano le equazioni di Newton, se no si aveva un bel mettere insieme conoscenze di un tipo, di un altro, di macchine. Se non c’era l’equazione del moto non si andava sulla Luna, no? Allora il problema è che oggi c’è insufficiente preoccupazione per questo aspetto teorico. Io proibirei per legge l’uso che ci propinano gli industriali della parola “innovazione”, che è deleteria, perché nella loro mente, “innovazione” significa appunto il bricolage, che ogni giorno dobbiamo trovare qualcosa di nuovo: dobbiamo modificare, cambiare un tubicino. Mi è venuta la parola tubicino perché l’anno scorso fui invitato a fare una conferenza a una università di tecnologia in Francia che sta vicino alla Peugeot-Citroën, quindi ha un rapporto stretto, e loro avevano una preoccupazione di questo genere, per cui i discorsi che gli ho fatto li hanno accolti in pieno perché dicevano: qua le richieste che riceviamo dall’industria sono delle richieste strettissime, per cui ci dicono: “Migliorateci il motore di questa macchina”, e alla fine uno studia per qualche mese e il risultato è diminuire la sezione del tubo tale di un millimetro. Ma nessuno richiede qualche cosa di sostanziale che è quello di dire: pensiamo un motore nuovo, poniamo. Completamente nuovo. Cioè innoviamo in senso vero: non innovazione nel senso dell’isterico desiderio di cambiare ogni giorno qualcosa. E questo oggi c’è, questa richiesta, spesso, questa idea che si possa assoggettare la ricerca scientifica alle richieste di carattere industriale è la morte della scienza. La scienza pura deve avere una sua autonomia, non c’è niente da fare, perché altrimenti presto o tardi ci si renderà conto che si isterilirà tutto perché si continuerà a fare bricolage sulle cose.
Bersanelli: Io su questo penso che quello che ha detto Giorgio sia molto chiaro. A me viene sempre in mente come quando in una sala come questa c’è un microfono, ci sono delle luci, il pensiero che Maxwell o Faraday giocassero con queste cose elusive, invisibili, lontane dalla immaginazione di tutti, forse anche dalla loro stessa: Maxwell che scrive il suo Sistema e, appunto, come le leggi di Newton ti portano sulla Luna, le leggi di Maxwell hanno avuto un impatto, ma realmente come possibilità di uso buono delle cose, straordinario. Allora per esempio oggi noi sappiamo che il 70% di ciò che fa l’universo è una energia di cui non sappiamo niente. Il 70% di ciò che esiste, sappiamo che esiste ma non abbiamo la più pallida idea di che cosa sia. Allora io non so se questa cosa avrà una qualche applicazione tecnologica, ma io capisco che se non si crede nella possibilità che noi abbiamo di conoscere, di familiarizzare con la realtà, anche quella realtà di cui non vediamo il tornaconto industriale, noi siamo impoveriti. Ma perché siamo già poveri. Ecco, l’ultimo accenno su questo è che credo che per osare una novità, per immaginare, invogliare a una novità che sia per un bene, credo che occorra “voler bene”. Bisogna desiderare un bene, avere un’idea di che cosa sia il bene, avere un’idea non distorta di che cosa sia il bisogno delle persone. Perché innovare per innovare non è quello che vogliamo. Allora, di nuovo, è una questione che va alla radice di quello che è il desiderio verso cui tutta la nostra attività si dirige. È una questione di educazione.
Domanda: Come pone questa possibilità di indagine o di comprensione delle cose? Lei ha fatto riferimento a Cartesio, alla Cabbala, a Sefiroth: come colloca in questo percorso questo accenno che Einstein fece a Spinoza?
Israel: A partire dalla fine del ‘600 e l’inizio del ‘700 ci fu un’acerrima discussione di carattere teologico tra gli scienziati: la posizione di Galileo o Cartesio o di Newton non era affatto la stessa, nel senso che Newton era fautore di una visione secondo cui Dio opera nell’universo, e anzi le perturbazioni del sistema planetario sono corrette per l’intervento divino: cioè Dio agisce, altrimenti qualche pianeta se ne scapperebbe via, o succederebbe qualcosa di questo tipo: sta là presente, e garantisce la stabilità del sistema planetari. In ogni caso l’idea è che Dio è presente. Lo spazio per Newton è il sensorium Dei, cioè il luogo delle sensazioni divine, in cui Dio si esplica; Newton ha una visione di tipo cabbalistico. Del resto è stato dimostrato che aveva un influsso di questo tipo, diretto. In Inghilterra è prevalsa una concezione come la sua, mentre nel continente è prevalsa la concezione cartesiana che era rigidamente oggettivista, è cioè: Dio non ha più alcun ruolo. La prima volta che è stato usato il termine “leggi della Natura” è stato usato da Cartesio, il quale ha detto appunto: Dio garantisce la conservazione della quantità di moto ma la Natura è assolutamente libera nel suo funzionamento, e segue delle “leggi di Natura”. Questa posizione, “continentale” diciamo, produsse poi uno scontro famoso tra i seguaci di Newton e Leibniz, in particolare tra il filosofo Clarke e Leibniz ci fu una polemica violentissima sulla questione della presenza o meno attiva di Dio nel cosmo. Erano discussioni tipiche allora tra gli scienziati, oggi sembra assurdo che uno scienziato discuta di queste cose, ma allora si discuteva di queste cose. E la scienza, la fisica moderna se vogliamo, è nata in un modo strano, per così dire una sorta di centauro, che ha messo insieme la fisica newtoniana, che funzionava, (però ha accantonato completamente la visione teologica di Newton), insieme alla metafisica di Cartesio, buttando via la fisica di Cartesio che era completamente sballata, diciamo, non funzionava. Quindi per la metafisica la scienza moderna si è basata sulla concezione di Cartesio, e però ci ha “incollato” la fisica newtoniana, buttando via quella visione invece teologica. Einstein sicuramente si colloca in questa visione: il riferimento è Spinoza, certo non è la stessa cosa di Cartesio, però appartiene più alla visione continentale, a una visione di tipo oggettivista e sicuramente Einstein sta in quest’ottica. Poi uno può anche dire che addirittura la Relatività einsteiniana essenzialmente è un recupero di certe idee della fisica di Cartesio, quindi c’è una continuità. Quindi questo filone newtoniano in qualche modo si è perso, però ha avuto un interesse, e ha secondo me un interesse notevole. Io volevo fare rapidamente soltanto alcune piccole osservazioni, anche ascoltavo con molto interesse la relazione di Marco Bersanelli e vorrei su quella sottolineare un punto. Quando lui ci raccontava del grande potere della scienza, del suo successo, gli esempi che ha fatto sono essenzialmente degli esempi di fisica. Allora, questo è importante, perché, io penso, ne sono convinto di questo, il mondo dei fenomeni fisici è uno spicchio importantissimo ma minimo della realtà. La realtà è una cosa enormemente vasta e il mondo dei fenomeni fisici è una minima parte. Ora, noi abbiamo un potere enorme su quello, ma il resto? Il problema è che cosa noi intendiamo per scienza: se noi intendiamo per scienza quello che intendeva appunto Newton, che intendeva Cartesio, magari con visioni che oggi non accetteremmo più, ma cioè come un processo di conoscenza globale, in cui non c’era, badate bene, la pretesa, che oggi c’è, che lo studio dei fenomeni fisici includa ogni tipo di conoscenza, (perché oggi questa pretesa c’è, ma questa non era la pretesa di allora); potevate andare a chiedere a un Galileo se lui pensasse che i problemi della teologia oppure i problemi della filosofia o i problemi della mente, dello spirito, fossero dei problemi che rientravano nella fenomenologia fisica; avrebbe certamente risposto di no. Provate a chiederlo a un Newton, i cui manoscritti fisici sono un terzo del totale, i restanti due terzi sono di alchimia e di teologia, insomma: assolutamente no. E questa a mio parere era molto più sana come visione. E se noi guardiamo a tutto il resto dei fenomeni che ci circondano, noi ci rendiamo conto che il nostro potere lì non è che sia minore, ma che se noi interpretiamo il nostro potere conoscitivo come una proiezione degli strumenti che usiamo in fisica e in matematica, allora siamo veramente poveri. Perché in definitiva, prendete il caso della biologia: lo studio del vivente, che sempre più viene condotto estrapolando dei metodi di carattere non fisico ma riduzionistico, di tipo materialisticomeccanico, ha prodotto quale risultato? che oggi noi abbiamo una grande capacità di manipolazione del vivente, ma non ne sappiamo un accidenti, questa è la verità. Perché lo dicono per primi gli scienziati, i biologi, lo dicono chiaramente: già trent’anni fa François Jacob, il Nobel, disse nel suo libro La logica del vivente: “Noi non ci occupiamo più della vita nei nostri laboratori”. Una frase tremenda: la vita non è più un problema che ci riguarda; noi manipoliamo il biologico, non ci occupiamo del “problema della vita”: è finito. Ma oggi come oggi ancora continuamente leggete nei libri affermazioni candide in cui si dice: sappiamo fare questo, non si capisce perché funziona, ma insomma, ha funzionato. La stessa clonazione è stata una cosa che ha ribaltato completamente tutte le teorie che c’erano in quel momento, perché la possibilità di riuscire a clonare un essere vivente implica che la teoria del “tutto è genetico” è falsa, altrimenti non si poteva fare. Quindi, voglio dire, già in quel campo, vedete, siamo ai balbettamenti, è un modo completamente oscuro. Ma se andiamo più in là, ancora peggio: cosa sappiamo noi in realtà, scientificamente parlando – vuol dire questo, vuol dire applicando le idee di tipo fisico matematico – della possibilità di prevedere, nel senso che dicevo nel precedente intervento, il corso dei fenomeni nel campo per esempio della psicologia, della sociologia, della stessa economia? Nulla. Io mi sono occupato per anni di successi e insuccessi della matematizzazione nel campo delle scienze sociali, e vi posso assicurare che è un disastro. L’idea di avere accantonato il metodo storico in sociologia, nelle scienze sociali ed economiche, è stata una perdita secca. In questo senso io credo che la conoscenza sia qualcosa di molto più vasto che non la scienza come la intendiamo oggi, perché pensare che anche la letteratura non sia conoscenza è una perdita secca. La letteratura è una conoscenza della psiche umana profonda. È una conoscenza. Cioè, a fronte di certi infimi modelli matematici in psicologia i romanzi di Dostoevskij sono un approfondimento della psiche umana molto più profondo. Io non vedo per quale motivo quello che è stato accumulato in secoli di conoscenze dal punto di vista psicologico, letterario, filosofico, in modo informale, cioè non seguendo i metodi della fisica matematica, debba essere gettato alle ortiche e si debba stare in questo stato pietoso in cui oggi siamo, in cui sembrerebbe che tutte le conoscenze informali siano state messe, per così dire, “in congelatore”, in attesa che certe cose vengano formalizzate in modo fisico-matematico, perché finché non si è fatto quello non vale niente – perché questo è l’atteggiamento. Quando capiremo i problemi dell’economia attraverso equazioni di tipo matematico che funzionino, bene; per il momento tutto quello che ci è stato detto dagli economisti del passato in modo informale non vale niente, perché non è scientifico. Ecco, questo è lo scientismo deteriore a cui noi assistiamo, che è una perdita secca della conoscenza. In questo senso io sostengo che esiste un mondo che è estremamente più vasto del mondo dei fenomeni puramente materiali, rispetto al quale la conoscenza deve articolarsi in una molteplicità di strumenti che vanno da quelli della scienza nel senso stretto del termine ad altre forme di conoscenza che includono anche quelle letterarie, e poi anche le conoscenze di carattere psicologico e religioso.
Bersanelli: Non aggiungo se non una cosa a questo intervento di Giorgio Israel che condivido totalmente, e cioè che secondo me proprio questa pretesa della scienza fisica, della scienza in senso stretto se vogliamo, di ergersi a unico autorevole metodo di conoscenza, trascurando tutta la vastità, l’elasticità della ragione – perché parliamo della ragione umana di fronte alla realtà -, questa pretesa, secondo la mia opinione, è proprio alla radice della crisi. È alla radice del fatto che ha voluto vivere una pretesa, isolandosi al punto tale da non saper più parlare di ciò che ha scoperto. Non ci sono più uomini che fanno questo mestiere che hanno il gusto di parlare di quello che hanno scoperto, perché non c’è più l’altro, non c’è più il resto: c’è un isolamento, c’è una solitudine, ecco. Il particolare, anche l’universo è un particolare, perché è sezionato secondo la sua misurabilità, se viene, diciamo, estrapolato dal contesto, dalla totalità, muore di solitudine. E, di conseguenza, perde attrattiva. E si capisce anche perché c’è più estraneità da parte dei giovani ad avvicinarsi a questo tipo di conoscenza e a questo tipo di strada. Si chiedeva poi dei finanziamenti che costringono a stare a ruota della tecnologia così come l’industria la impone: questo è sicuramente uno dei condizionamenti con cui abbiamo a che fare. Di nuovo, secondo me la possibilità positiva è che esistano esempi – io non credo nelle grandi teorie – di lavoro comune, di intesa tra gente che fa la ricerca scientifica e gente che fa l’imprenditore, in cui ci si pone insieme di fronte a certe questioni. “Come possiamo fare qualcosa di buono?”: se uno non ha questa domanda elementare, che appunto mette in gioco diverse modalità di conoscenza, ci si riduce a quella visione tecnico-quantitativa; è necessaria invece un’osservazione della realtà, del bisogno, di come poter andare avanti insieme. Ecco, c’è bisogno di esempi secondo me, di fatti di novità di questo tipo, perché qualunque schema astratto ho l’impressione che vada a cozzare contro una disgregazione su cui non si riesce a costruire nulla.
Israel: Conoscenza e trasformazione sono collegate, e l’aspetto tecnico all’inizio, tecnologico sempre più, è strettamente legato alla conoscenza. Mi spiego: per esempio, è uscito un libro anni fa che vantava il fatto che la tecnologia fosse già nata nel periodo alessandrino, perché venivano costruite macchine magnifiche, fontane, uccelli che cantavano, e tutte cose di questo tipo: naturalmente a mio avviso questo è un fraintendimento colossale, perché anche il medioevo è stato un’epoca di costruzioni di macchine portentose – gli orologi sono stati costruiti nel medioevo e non certo più tardi -. Il problema fondamentale è che esiste una differenza che caratterizza la tecnica a partire dalla rivoluzione scientifica. L’oggetto tecnico, la macchina, non è più un ritrovato che è costruito per l’abilità dell’artigiano, il quale – come si diceva nel medioevo – “inganna la natura”, le carpisce i segreti: la natura ha dei segreti, lui la imbroglia insomma, riesce a costruire una macchina che in qualche modo funziona, contrariamente a ogni aspettativa. E quindi ogni oggetto è un prodotto singolo, isolato, dell’artigiano e della sua abilità. La macchina, nella concezione moderna, è invece un prodotto standardizzato, e questo già da Galileo. Perché essenzialmente è un oggetto concettuale. Il cannocchiale di Galileo è un concetto prima che un oggetto materiale. Le macchine di Cartesio, le fontane che lui descrive sono essenzialmente il riflesso dei Principi delle meccanica, cioè la macchina è una esemplificazione dei Principi della meccanica. E d’altra parte l’idea fondamentale della fisica, a partire da Galileo, da Newton eccetera, è che se uno conosce lo stato iniziale in un sistema, sulla base delle leggi di funzionamento dei corpi materiali, può dire quale sarà lo stato futuro del sistema in un determinato istante, e questo lo potrà sapere in ogni caso, e ogni volta, e questo principio di ripetibilità è il principio base della costruzione delle macchine, cioè vuol dire che io posso sempre fare la stessa macchina, lo stesso oggetto nello stesso modo e sono sicuro che funzionerà nello stesso modo. Non così per l’artigiano medievale: fa un orologio poi ne fa un altro, fa un’altra cosa. Quello va bene, non sa neanche perché, eccetera: questa è la differenza. Quindi la tecnologia nasce con la scienza. Attenzione: non c’è una contrapposizione, al contrario. Però il malinteso, e il guaio – io in questo sono lievemente più pessimista della tua relazione -, il guaio oggi è che questo si sta un po’ perdendo. Vi posso dare un altro esempio, rapidamente? Quando Von Neumann costruì, ideò, progettò il primo calcolatore digitale – allora c’erano già grandi macchine di calcolo, c’erano il calcolatore di Atanassov, negli Stati Uniti c’erano grandi macchinoni che occupavano quasi un palazzo, e che avevano le loro performance, se ne costruivano sempre di più grosse, un po’ più veloci, però erano dei bricolage tecnici. Von Neumann riunì gli ingegneri a Princeton e fece una relazione il cui senso era questo: smettiamola di occuparci delle componenti tecniche del calcolatore perché su questa strada non andiamo avanti. Quindi è inutile che voi ingegneri mi cominciate a dire: “è meglio usare un tubo così, a vuoto, oppure questo o quell’altro”. Pensiamo alla struttura concettuale della macchina: lui aveva un modello matematico in testa, derivato da una certa analisi della struttura neuronale del cervello, e sulla base di quello ha ideato un calcolatore che ancora oggi abbiamo. Per carità, tecnologicamente è diverso, nel senso che i componenti sono fatti tutti in un altro modo, abbiamo i microprocessori e non più quei tubi e quei circuiti che c’erano allora, però essenzialmente l’idea è quella, non è che è cambiata, l’idea è quella di von Neumann, vale a dire la memoria centrale, il programma, l’elaborazione dati, e così via. Il calcolatore dunque è nato come un oggetto concettuale. Il problema consiste nel guardare bene all’evoluzione della tecnologia odierna, che pure ci dà delle cose mirabolanti, però c’è da chiedersi se non stiamo un po’ vivendo di rendita. Nel senso che i calcolatori di oggi sono essenzialmente la moltiplicazione esponenziale per velocità dei calcolatori di von Neumann, ma non è che è stata inventata una cosa nuova. Così come, se permettete, le automobili che noi abbiamo sono essenzialmente quelle di Ford. Che poi siano mirabolanti… Però l’idea è quella: il motore, a scoppio o diesel, nessuno ha pensato una cosa nuova. È abbastanza sconvolgente, a mio avviso, il fatto che siamo ancora lì. C’è da chiedersi – e in questo io ripropongo una domanda che ha fatto un celebre fisico-matematico, Clifford Truesdel, che diceva appunto questo, cioè: le scoperte tecnologiche che hanno un avvenire sono quelle basate su leggi scientifiche. Si è andati sulla Luna perché si conoscevano le equazioni di Newton, se no si aveva un bel mettere insieme conoscenze di un tipo, di un altro, di macchine. Se non c’era l’equazione del moto non si andava sulla Luna, no? Allora il problema è che oggi c’è insufficiente preoccupazione per questo aspetto teorico. Io proibirei per legge l’uso che ci propinano gli industriali della parola “innovazione”, che è deleteria, perché nella loro mente, “innovazione” significa appunto il bricolage, che ogni giorno dobbiamo trovare qualcosa di nuovo: dobbiamo modificare, cambiare un tubicino. Mi è venuta la parola tubicino perché l’anno scorso fui invitato a fare una conferenza a una università di tecnologia in Francia che sta vicino alla Peugeot-Citroën, quindi ha un rapporto stretto, e loro avevano una preoccupazione di questo genere, per cui i discorsi che gli ho fatto li hanno accolti in pieno perché dicevano: qua le richieste che riceviamo dall’industria sono delle richieste strettissime, per cui ci dicono: “Migliorateci il motore di questa macchina”, e alla fine uno studia per qualche mese e il risultato è diminuire la sezione del tubo tale di un millimetro. Ma nessuno richiede qualche cosa di sostanziale che è quello di dire: pensiamo un motore nuovo, poniamo. Completamente nuovo. Cioè innoviamo in senso vero: non innovazione nel senso dell’isterico desiderio di cambiare ogni giorno qualcosa. E questo oggi c’è, questa richiesta, spesso, questa idea che si possa assoggettare la ricerca scientifica alle richieste di carattere industriale è la morte della scienza. La scienza pura deve avere una sua autonomia, non c’è niente da fare, perché altrimenti presto o tardi ci si renderà conto che si isterilirà tutto perché si continuerà a fare bricolage sulle cose.
Bersanelli: Io su questo penso che quello che ha detto Giorgio sia molto chiaro. A me viene sempre in mente come quando in una sala come questa c’è un microfono, ci sono delle luci, il pensiero che Maxwell o Faraday giocassero con queste cose elusive, invisibili, lontane dalla immaginazione di tutti, forse anche dalla loro stessa: Maxwell che scrive il suo Sistema e, appunto, come le leggi di Newton ti portano sulla Luna, le leggi di Maxwell hanno avuto un impatto, ma realmente come possibilità di uso buono delle cose, straordinario. Allora per esempio oggi noi sappiamo che il 70% di ciò che fa l’universo è una energia di cui non sappiamo niente. Il 70% di ciò che esiste, sappiamo che esiste ma non abbiamo la più pallida idea di che cosa sia. Allora io non so se questa cosa avrà una qualche applicazione tecnologica, ma io capisco che se non si crede nella possibilità che noi abbiamo di conoscere, di familiarizzare con la realtà, anche quella realtà di cui non vediamo il tornaconto industriale, noi siamo impoveriti. Ma perché siamo già poveri. Ecco, l’ultimo accenno su questo è che credo che per osare una novità, per immaginare, invogliare a una novità che sia per un bene, credo che occorra “voler bene”. Bisogna desiderare un bene, avere un’idea di che cosa sia il bene, avere un’idea non distorta di che cosa sia il bisogno delle persone. Perché innovare per innovare non è quello che vogliamo. Allora, di nuovo, è una questione che va alla radice di quello che è il desiderio verso cui tutta la nostra attività si dirige. È una questione di educazione.
Domanda: Come pone questa possibilità di indagine o di comprensione delle cose? Lei ha fatto riferimento a Cartesio, alla Cabbala, a Sefiroth: come colloca in questo percorso questo accenno che Einstein fece a Spinoza?
Israel: A partire dalla fine del ‘600 e l’inizio del ‘700 ci fu un’acerrima discussione di carattere teologico tra gli scienziati: la posizione di Galileo o Cartesio o di Newton non era affatto la stessa, nel senso che Newton era fautore di una visione secondo cui Dio opera nell’universo, e anzi le perturbazioni del sistema planetario sono corrette per l’intervento divino: cioè Dio agisce, altrimenti qualche pianeta se ne scapperebbe via, o succederebbe qualcosa di questo tipo: sta là presente, e garantisce la stabilità del sistema planetari. In ogni caso l’idea è che Dio è presente. Lo spazio per Newton è il sensorium Dei, cioè il luogo delle sensazioni divine, in cui Dio si esplica; Newton ha una visione di tipo cabbalistico. Del resto è stato dimostrato che aveva un influsso di questo tipo, diretto. In Inghilterra è prevalsa una concezione come la sua, mentre nel continente è prevalsa la concezione cartesiana che era rigidamente oggettivista, è cioè: Dio non ha più alcun ruolo. La prima volta che è stato usato il termine “leggi della Natura” è stato usato da Cartesio, il quale ha detto appunto: Dio garantisce la conservazione della quantità di moto ma la Natura è assolutamente libera nel suo funzionamento, e segue delle “leggi di Natura”. Questa posizione, “continentale” diciamo, produsse poi uno scontro famoso tra i seguaci di Newton e Leibniz, in particolare tra il filosofo Clarke e Leibniz ci fu una polemica violentissima sulla questione della presenza o meno attiva di Dio nel cosmo. Erano discussioni tipiche allora tra gli scienziati, oggi sembra assurdo che uno scienziato discuta di queste cose, ma allora si discuteva di queste cose. E la scienza, la fisica moderna se vogliamo, è nata in un modo strano, per così dire una sorta di centauro, che ha messo insieme la fisica newtoniana, che funzionava, (però ha accantonato completamente la visione teologica di Newton), insieme alla metafisica di Cartesio, buttando via la fisica di Cartesio che era completamente sballata, diciamo, non funzionava. Quindi per la metafisica la scienza moderna si è basata sulla concezione di Cartesio, e però ci ha “incollato” la fisica newtoniana, buttando via quella visione invece teologica. Einstein sicuramente si colloca in questa visione: il riferimento è Spinoza, certo non è la stessa cosa di Cartesio, però appartiene più alla visione continentale, a una visione di tipo oggettivista e sicuramente Einstein sta in quest’ottica. Poi uno può anche dire che addirittura la Relatività einsteiniana essenzialmente è un recupero di certe idee della fisica di Cartesio, quindi c’è una continuità. Quindi questo filone newtoniano in qualche modo si è perso, però ha avuto un interesse, e ha secondo me un interesse notevole. Io volevo fare rapidamente soltanto alcune piccole osservazioni, anche ascoltavo con molto interesse la relazione di Marco Bersanelli e vorrei su quella sottolineare un punto. Quando lui ci raccontava del grande potere della scienza, del suo successo, gli esempi che ha fatto sono essenzialmente degli esempi di fisica. Allora, questo è importante, perché, io penso, ne sono convinto di questo, il mondo dei fenomeni fisici è uno spicchio importantissimo ma minimo della realtà. La realtà è una cosa enormemente vasta e il mondo dei fenomeni fisici è una minima parte. Ora, noi abbiamo un potere enorme su quello, ma il resto? Il problema è che cosa noi intendiamo per scienza: se noi intendiamo per scienza quello che intendeva appunto Newton, che intendeva Cartesio, magari con visioni che oggi non accetteremmo più, ma cioè come un processo di conoscenza globale, in cui non c’era, badate bene, la pretesa, che oggi c’è, che lo studio dei fenomeni fisici includa ogni tipo di conoscenza, (perché oggi questa pretesa c’è, ma questa non era la pretesa di allora); potevate andare a chiedere a un Galileo se lui pensasse che i problemi della teologia oppure i problemi della filosofia o i problemi della mente, dello spirito, fossero dei problemi che rientravano nella fenomenologia fisica; avrebbe certamente risposto di no. Provate a chiederlo a un Newton, i cui manoscritti fisici sono un terzo del totale, i restanti due terzi sono di alchimia e di teologia, insomma: assolutamente no. E questa a mio parere era molto più sana come visione. E se noi guardiamo a tutto il resto dei fenomeni che ci circondano, noi ci rendiamo conto che il nostro potere lì non è che sia minore, ma che se noi interpretiamo il nostro potere conoscitivo come una proiezione degli strumenti che usiamo in fisica e in matematica, allora siamo veramente poveri. Perché in definitiva, prendete il caso della biologia: lo studio del vivente, che sempre più viene condotto estrapolando dei metodi di carattere non fisico ma riduzionistico, di tipo materialisticomeccanico, ha prodotto quale risultato? che oggi noi abbiamo una grande capacità di manipolazione del vivente, ma non ne sappiamo un accidenti, questa è la verità. Perché lo dicono per primi gli scienziati, i biologi, lo dicono chiaramente: già trent’anni fa François Jacob, il Nobel, disse nel suo libro La logica del vivente: “Noi non ci occupiamo più della vita nei nostri laboratori”. Una frase tremenda: la vita non è più un problema che ci riguarda; noi manipoliamo il biologico, non ci occupiamo del “problema della vita”: è finito. Ma oggi come oggi ancora continuamente leggete nei libri affermazioni candide in cui si dice: sappiamo fare questo, non si capisce perché funziona, ma insomma, ha funzionato. La stessa clonazione è stata una cosa che ha ribaltato completamente tutte le teorie che c’erano in quel momento, perché la possibilità di riuscire a clonare un essere vivente implica che la teoria del “tutto è genetico” è falsa, altrimenti non si poteva fare. Quindi, voglio dire, già in quel campo, vedete, siamo ai balbettamenti, è un modo completamente oscuro. Ma se andiamo più in là, ancora peggio: cosa sappiamo noi in realtà, scientificamente parlando – vuol dire questo, vuol dire applicando le idee di tipo fisico matematico – della possibilità di prevedere, nel senso che dicevo nel precedente intervento, il corso dei fenomeni nel campo per esempio della psicologia, della sociologia, della stessa economia? Nulla. Io mi sono occupato per anni di successi e insuccessi della matematizzazione nel campo delle scienze sociali, e vi posso assicurare che è un disastro. L’idea di avere accantonato il metodo storico in sociologia, nelle scienze sociali ed economiche, è stata una perdita secca. In questo senso io credo che la conoscenza sia qualcosa di molto più vasto che non la scienza come la intendiamo oggi, perché pensare che anche la letteratura non sia conoscenza è una perdita secca. La letteratura è una conoscenza della psiche umana profonda. È una conoscenza. Cioè, a fronte di certi infimi modelli matematici in psicologia i romanzi di Dostoevskij sono un approfondimento della psiche umana molto più profondo. Io non vedo per quale motivo quello che è stato accumulato in secoli di conoscenze dal punto di vista psicologico, letterario, filosofico, in modo informale, cioè non seguendo i metodi della fisica matematica, debba essere gettato alle ortiche e si debba stare in questo stato pietoso in cui oggi siamo, in cui sembrerebbe che tutte le conoscenze informali siano state messe, per così dire, “in congelatore”, in attesa che certe cose vengano formalizzate in modo fisico-matematico, perché finché non si è fatto quello non vale niente – perché questo è l’atteggiamento. Quando capiremo i problemi dell’economia attraverso equazioni di tipo matematico che funzionino, bene; per il momento tutto quello che ci è stato detto dagli economisti del passato in modo informale non vale niente, perché non è scientifico. Ecco, questo è lo scientismo deteriore a cui noi assistiamo, che è una perdita secca della conoscenza. In questo senso io sostengo che esiste un mondo che è estremamente più vasto del mondo dei fenomeni puramente materiali, rispetto al quale la conoscenza deve articolarsi in una molteplicità di strumenti che vanno da quelli della scienza nel senso stretto del termine ad altre forme di conoscenza che includono anche quelle letterarie, e poi anche le conoscenze di carattere psicologico e religioso.
Bersanelli: Non aggiungo se non una cosa a questo intervento di Giorgio Israel che condivido totalmente, e cioè che secondo me proprio questa pretesa della scienza fisica, della scienza in senso stretto se vogliamo, di ergersi a unico autorevole metodo di conoscenza, trascurando tutta la vastità, l’elasticità della ragione – perché parliamo della ragione umana di fronte alla realtà -, questa pretesa, secondo la mia opinione, è proprio alla radice della crisi. È alla radice del fatto che ha voluto vivere una pretesa, isolandosi al punto tale da non saper più parlare di ciò che ha scoperto. Non ci sono più uomini che fanno questo mestiere che hanno il gusto di parlare di quello che hanno scoperto, perché non c’è più l’altro, non c’è più il resto: c’è un isolamento, c’è una solitudine, ecco. Il particolare, anche l’universo è un particolare, perché è sezionato secondo la sua misurabilità, se viene, diciamo, estrapolato dal contesto, dalla totalità, muore di solitudine. E, di conseguenza, perde attrattiva. E si capisce anche perché c’è più estraneità da parte dei giovani ad avvicinarsi a questo tipo di conoscenza e a questo tipo di strada. Si chiedeva poi dei finanziamenti che costringono a stare a ruota della tecnologia così come l’industria la impone: questo è sicuramente uno dei condizionamenti con cui abbiamo a che fare. Di nuovo, secondo me la possibilità positiva è che esistano esempi – io non credo nelle grandi teorie – di lavoro comune, di intesa tra gente che fa la ricerca scientifica e gente che fa l’imprenditore, in cui ci si pone insieme di fronte a certe questioni. “Come possiamo fare qualcosa di buono?”: se uno non ha questa domanda elementare, che appunto mette in gioco diverse modalità di conoscenza, ci si riduce a quella visione tecnico-quantitativa; è necessaria invece un’osservazione della realtà, del bisogno, di come poter andare avanti insieme. Ecco, c’è bisogno di esempi secondo me, di fatti di novità di questo tipo, perché qualunque schema astratto ho l’impressione che vada a cozzare contro una disgregazione su cui non si riesce a costruire nulla.