Riproponiamo la presentazione della mostra presentata al Meeting di Rimini il 22 agosto 2005.
Relatori: Marco Bersanelli, Docente di Astrofisica presso l’Università degli Studi di Milano
Peter Hodgson, Fisico nucleare, Emeritus Yellow al Corpus Christi College
Moderatore: Mario Gargantini, direttore della Rivista Emmeciquadro
Il tema è strettamente connesso a quello della libertà, che è al centro di queste giornate; è la libertà dei medievali, che hanno seguito con umiltà i giganti dell’antichità classica, ma sono stati liberi di vagliarne criticamente i contenuti e di andare oltre, diventando essi stessi giganti. A trattare questo tema, abbiamo oggi non due storici ma due scienziati, due fisici che hanno guardato il passato e interrogato quei momenti iniziali della scienza, con le domande e con la passione per l’oggi della ricerca.
Peter Hodgson si è dedicato alla ricerca di fisica nucleare, teorica e sperimentale e ha insegnato fisica e matematica a Oxford dove fa parte, come Emeritus Yellow, del Corpus Christi College. È inoltre consulente del Pontificio Consiglio della Cultura. Lo ringraziamo per aver accettato il nostro invito. Il professor Marco Bersanelli, docente di astrofisica all’Università di Milano e membro del Consiglio Scientifico dell’Istituto nazionale di Astrofisica, ha lavorato presso laboratori internazionali ed è tra i responsabili della missione spaziale Planck dell’Agenzia spaziale europea per lo studio delle origini dell’universo. La parola al professor Hodgson.
Peter Hodgson: Mi spiace moltissimo perché non posso parlarvi nella vostra lingua, peraltro bellissima. Però ci sarà la traduzione man mano che procedo nella mia presentazione. Sono particolarmente lieto di essere qui oggi, insieme a tutti voi, per parlarvi di un argomento che secondo me ha un’estrema importanza, il rapporto tra la scienza e la fede. Molto spesso, nei libri di testo, si può leggere che c’è un conflitto tra la fede e la scienza. Questo è ciò che molte persone dicono. Quindi, la cosa più importante che devo dirvi oggi, in breve, è che c’è un rapporto di tipo organico tra la fede e la scienza, vale a dire che la fede costituisce la base di tantissime cose, però è anche alla base della scienza, quindi c’è un rapporto diretto tre fede e scienza. Questo in breve è il sunto di quello che voglio trasmettervi.
Quindi, se per un attimo pensiamo alle grandi civiltà che si sono succedete nella storia, se pensate per esempio alla civiltà di Babilonia, a quella degli Egizi, dei Greci, alla civiltà dell’India, della Cina, e poi alle civiltà americane – gli Atzechi, gli Incas, i Maya -, in quelle civiltà si vedono parecchi trionfi dello spirito umano. Si vedono esempi di architettura splendida, si vede un’enorme capacità di lavorare il metallo, la ceramica, il legno, la pietra. In queste civiltà, soprattutto in quelle greche, si trovano grandi esperti di matematica e anche, in un certo qual modo, di fisica.
Però nessuna di queste civiltà ha una qualsiasi delle caratteristiche della scienza moderna. Quando parliamo di scienza moderna, occorre distinguere tra quella che io chiamo la scienza primitiva, vale a dire le conoscenze che si acquisiscono con strumenti empirici, e la scienza moderna, che invece si basa su una comprensione dettagliata, specifica, di come funziona la materia attraverso le equazioni differenziali. E praticamente questa è una scoperta unica nel suo genere, conseguita dalla nostra civiltà dell’Europa occidentale.
Abbiamo visto questi dati storici e con voi, a questo punto, vorrei che ci soffermassimo un attimo sullo sviluppo della scienza nella nostra civiltà occidentale. Quali sono le condizioni che servono a una civiltà perché si sviluppi una scienza? Possiamo vedere, mediante un lavoro di introspezione, molte delle condizioni necessarie per lo sviluppo della scienza. In primo luogo, occorre che la società sia sviluppata in modo che molti di noi, più fortunati, possano passare tempo a pensare a determinate cose senza preoccuparci se avremo o meno qualcosa da mangiare quel giorno. Poi, oltre a una struttura sociale sviluppata, abbiamo bisogno di un linguaggio, della scrittura, della matematica. Per elaborare le cose, abbiamo bisogno di strumenti, di metodi di comunicazione, la scrittura, quindi.
Tutte queste cose sono quelle che io definisco i pre-requisiti materiali per la scienza. Se si pensa che tutte queste condizioni sono state presenti nelle civiltà antiche, allora non sono solo queste, quelle necessarie per lo sviluppo della scienza nelle civiltà occidentali. Manca ancora qualcosa a questa struttura. Cosa manca? Mancano convinzioni necessarie perché abbia inizio la scienza. Pensando a queste convinzioni, a cosa bisogna credere per diventare uno scienziato? Che la materia sia bene e che valga la pena passare la vita, dal punto di vista dello scienziato, a capire la materia nella sua complessità. Dobbiamo anche credere che la materia sia ordinata, cioè si comporti in maniera costante, coerente. Quindi, che quello che arrivo a scoprire un giorno vale anche il giorno successivo e anche in altri luoghi. E che quello che altre persone possono scoprire in altri momenti e luoghi, tutto contribuisce a formare un unico corpus di conoscenze ordinate. In terzo luogo, dobbiamo anche ritenere che la materia sia accessibile alla mente umana, cioè bisogna cercare di comprendere la materia in un compito che abbia una qualche garanzia di successo. Magari, diverse persone cercano di fare esperimenti di laboratorio. Nella consapevolezza che qualcosa va sempre storto, bisogna perseverare per ottenere un risultato, anche buono. Quindi, bisogna essere convinti che l’impresa che si è incominciata valga la pena di essere portata a termine. Bisogna anche credere che le conoscenze che si ottengono dagli studi della materia siano valide per se stesse. Però, successivamente si può scoprire che queste conoscenze possono avere anche delle implicazioni pratiche utili. Questo è un fatto importante, perché se la scienza ha delle applicazioni utili allora tutta la società avrà una considerazione positiva della scienza e sarà disposta a sostenere gli scienziati nel loro lavoro. Tutte queste convinzioni sono necessarie – lo vediamo se svolgiamo questo lavoro di introspezione – perché si sviluppi la scienza. Guardando le antiche civiltà, si vede che molte di queste convinzioni, quasi tutte, non ci sono state. Ecco perché la scienza in queste antiche civiltà non si è sviluppata.
Diamo ora uno sguardo alla storia dello sviluppo della scienza. In primo luogo, bisogna riconoscere l’enorme contributo che è stato dato alla storia dello sviluppo della scienza dagli antichi greci e, prima di loro, anche dai babilonesi, che hanno effettuato importanti osservazioni astronomiche e calcoli matematici. In particolar modo, gli antichi greci hanno avuto degli importantissimi filosofi e il loro contributo è stato quello di porsi le domande giuste, vale a dire che per avere una risposta bisogna porsi la domanda giusta, e questa è stata la più grande conquista degli antichi greci. Si sono chiesti, per esempio: come possiamo comprendere il mondo che ci circonda? Forse tutto quello che vediamo è il risultato della combinazione di determinate particelle fondamentali di un tipo o dell’altro. E cercando di scoprire queste particelle, possiamo vedere come è nata la complessità del mondo. Quindi, hanno fatto determinate ipotesi e si sono domandati: esiste una realtà microscopica? Cioè, se continuo a tagliare una cosa in pezzi sempre più piccoli, mi posso fermare a un certo punto o no?
Si sono posti le domande giuste senza ancora trovare una risposta definitiva. Aristotele, uno dei maggiori filosofi greci, riteneva semplicemente, pensando alle cose, di poter scoprire la loro natura, semplicemente pensandoci. Però, per esempio davanti a un triangolo in geometria, si conosce cos’è un triangolo, si possono calcolare le sue proprietà: quindi, è un oggetto aperto per la mente umana. Invece la materia non è un oggetto aperto alla mente umana, dobbiamo osservare attentamente le cose, condurre esperimenti e gradualmente cominciare a capirla. Aristotele ha utilizzato argomentazioni, dicendo che i pianeti e le stelle sembrano essere corpi incorruttibili che si muovono secondo una forma perfetta. La forma più perfetta è il cerchio, quindi si spostano in cerchio: e ha fatto una distinzione tra la materia celeste e quella terrestre, dove quest’ultima è soggetta al cambiamento e l’altra no. Pensava a un universo dove tutto avesse un fine, per esempio le pietre scendono verso il basso perché cercano il loro luogo naturale che è la terra, mentre il fuoco ha la tendenza ad andare verso l’alto. Abbiamo i quattro elementi che sono combinati in natura in diversi modi, secondo lui. La terra, al centro con i pianeti attorno, che si muovevano in cerchi perfetti. Era uno schema perfetto, questo, che seguiva molte intuizioni sensate e ragionevoli. Però purtroppo era un approccio sbagliato, quindi, malgrado tutta la gloria della scienza greca, questa non si è mai perpetuata nel tempo.
Occorreva un nuovo inizio, un nuovo punto di partenza per allontanarsi da questi principi, da queste idee. E il nuovo inizio è avvenuto da una zona inattesa. C’erano i grandi imperi – Siria, Egitto, Babilonia -, però, tra questi grandissimi imperi c’era una tribù, quella degli israeliti, che migrava qui e là, e che praticamente era stata separata dai suoi vicini perché credeva in un Dio, mentre i vicini credevano in diverse divinità. Gli israeliti hanno conservato il loro credo in un unico Dio, che aveva creato tutto, aveva creato tutto esattamente nel modo in cui voleva che fosse. E questo ha rappresentato l’inizio di idee che alla fine, nel corso di diversi secoli, hanno portato allo sviluppo della scienza. Essi ritenevano che la materia fosse buona e, nel primo capitolo della Genesi, leggiamo che “Dio vide ciò che aveva fatto ed era buono”. Dio è un essere razionale, quindi tutto ciò che crea automaticamente è razionale, ne condivide la razionalità. Crediamo anche che il mondo sia aperto alla mente umana, perché sempre nel primo capitolo della Genesi all’uomo viene ordinato di riempire la terra e conquistarla: questo implica che l’uomo possa capire il mondo.
Il mondo è prezioso e la sapienza, la conoscenza del mondo è più dell’oro e dell’argento. Si legge appunto che la sapienza più dell’oro e dell’argento dev’essere liberamente condivisa, e poi Cristo ordina di dare da mangiare agli affamati e dare da bere agli assetati. Queste sono state le premesse della scienza, quello che ha portato al fondamento della scienza. Poi è arrivato l’evento centrale della storia, l’incarnazione di Cristo che ha ulteriormente nobilitato la materia perché si pensava che la materia fosse adatta a formare il corpo e il sangue di Cristo. L’incarnazione di Cristo è stato un evento unico nel suo genere, che immediatamente ha spezzato, ha posto fine, a un’idea presente in tutte le antiche civiltà.
Adesso è un po’ difficile per noi capire come potessero crederci, ma tutte le civiltà antiche, inclusi i greci, ritenevano che il tempo fosse ciclico, vale a dire che tutto quello che succede fosse già successo prima nel passato e che si ripeterà di nuovo nel futuro. Questa è, credo, una convinzione molto scoraggiante perché uno si chiede: se è già successo, perché dobbiamo preoccuparci di quello che succederà? Però l’incarnazione di Cristo ha rotto questa credenza, e quindi ha spezzato l’idea che il tempo fosse ciclico, che ci fosse sempre l’inizio da un’alfa fino a un’omega. In questo modo, l’incarnazione di Cristo ha fornito ulteriori convinzioni per la scienza.
All’inizio del Medioevo, nei primi anni della Chiesa, si è discusso molto sulla natura del Cristo e, per esempio, molto spesso dovevano essere risolte delle controversie in atto su questo argomento. È stato convocato per esempio, nel 325, il Concilio di Nicea, che ha definito praticamente gli elementi essenziali della fede cattolica che poi vengono ripresi ogni domenica durante la Messa. Oltre ad aver fornito gli elementi fondamentali della fede, vengono anche definite diverse condizioni e convinzioni essenziali per la scienza, cioè che, praticamente, Dio creò tutto. All’inizio Dio ha creato tutto, in cielo e in terra, quindi la creazione è alla base di tutte le nostre convinzioni e credenze. Poi, un altro credo di Nicea è quello secondo cui solo Cristo fu generato, solo Cristo è della stessa sostanza del Padre, creato grazie a proprietà conferitegli da Dio. Questo è importante, perché ha eliminato il concetto del panteismo: la materia è creata e non generata, questo esclude il panteismo. Un altro credo è che tutto è creato attraverso Cristo. Questo credo esclude il dualismo che si trova in alcuni filosofi antichi: ci sono forze del bene e forze del male che si combattono. Invece, il credo di Nicea dice che tutto è creato attraverso Cristo, quindi tutto è bene. In questo modo, le convinzioni che vengono dagli ebrei nel Vecchio Testamento e da Cristo nel Nuovo Testamento rappresentano le convinzioni necessarie per lo sviluppo della scienza.
Naturalmente c’è voluto tempo perché tutto ciò avvenisse, queste idee richiedono molto tempo per essere assorbite dalla coscienza umana e anche per diffondersi in tutta la società. All’inizio, i cristiani erano una minoranza oggetto di persecuzioni, quindi a quel tempo non si poteva avviare una vera e propria scienza, anche se c’erano molti filosofi, per esempio, che avevano cominciato già nel VI secolo a sviluppare idee che poi avrebbero portato importanti frutti. Soltanto nel Medioevo la società era permeata da credenze cristiane ed è stato solo in quel momento che la scienza ha potuto avere inizio. Gli insegnamenti, nel Medioevo, si basavano molto sugli insegnamenti dei filosofi greci Aristotele e Platone. Nuove università vennero fondate in Europa dalla Chiesa per facilitare la discussione e la diffusione della teologia e della filosofia. Le prime università sono state aperte qui in Italia, a Bologna e Padova, poi oltre le Alpi sono state fondate le università di Parigi e Praga, quindi molte altre, andando sempre più a Nord, tra le quali anche la mia di Oxford. Queste università erano centri di intensa discussione e argomentazione. L’insegnamento veniva fatto sulla base dei testi di Aristotele, elaborandoli, leggendoli, cercando di capirne il significato. Quando però Aristotele era in disaccordo coi principi cristiani, veniva abbandonato. Per esempio, Aristotele pensava che il mondo fosse eterno, noi invece sappiamo che è stato creato, quindi da questo punto di vista veniva lasciato perdere quello che diceva. C’è stato un importante filosofo parigino, Giovanni Buridano, che pensava ai problemi del moto e quindi ha avuto inizio la scienza, la fisica, con lo studio del moto. Buridano si è chiesto: perché se, per esempio, prendo su qualcosa da terra e lo getto, continua a muoversi? Secondo Aristotele, tutto ciò che viene mosso si muove perché c’è un elemento che lo muove. Buridano si è chiesto: cos’è che permette all’oggetto di continuare a muoversi, una volta che ha lasciato la mia mano? I greci avevano avuto alcune ipotesi in questo senso, relativamente al movimento dell’aria che spingeva l’oggetto. Buridano ha pensato a questa cosa nel contesto della creazione: Dio, creando le cose, non le ha create in modo statico, ha creato le cose in movimento e quindi ha dato loro un impeto. Quindi, ha avuto questa idea dell’impeto secondo cui, una volta che noi gettiamo un oggetto, gli forniamo un impeto, che adesso è noto come movimento. Ha così formulato quella che poi sarebbe diventata la prima legge del moto di Newton: tutto quello che viene gettato continua a muoversi per propria forza interna.
Quindi, gradualmente, secondo questo processo, sono state ipotizzate diverse cose e le idee di Aristotele che avevano impedito lo sviluppo di una vera e propria scienza per due millenni, sono state modificate e hanno aperto la strada al Rinascimento.
Non soltanto a livello di scienza, ma anche ad altri livelli, il Medioevo ha dato un importante contributo. Per esempio, anche a livello di tecnologia, nonostante questo non sia sempre riconosciuto. La tecnologia è l’applicazione della scienza, con l’obiettivo di rendere più semplice il lavoro. I pionieri di tutto questo si ritrovano nei monasteri. Nei monasteri si trovano moltissime nuove idee dal punto di vista tecnologico, idee che provenivano da altre civiltà, alcune di esse dalla Cina; però nei monasteri c’erano mulini ad acqua, a vento, c’erano sistemi per macinare il grano, per tagliare il legno. Per riuscire a conservare le ore di preghiera importanti per il monastero, e rispettarle, sono stati realizzati degli orologi meccanici, i primissimi orologi meccanici sono stati proprio realizzati nei monasteri. Nella bellissima mostra che dovete andare a visitare, vedrete immagini e riproduzioni di questi antichissimi orologi ritrovati nei monasteri. Dopodiché, gli orologi sono stati installati anche nel centro delle città per regolare il commercio, però l’idea è venuta proprio dai monasteri. Dunque, non soltanto la scienza, ma anche la tecnologia viene dalla rivoluzione che è stata portata avanti da queste convinzioni cristiane.
Una volta spianata la strada, come dice il titolo di questa mostra, vediamo che nel Rinascimento si è incominciato a costruire sulle spalle dei giganti del Medioevo, rendendo possibile lo splendore della scienza nel Rinascimento grazie a Brahe, a Keplero e a Newton, che ha formulato le leggi del moto e ha avviato e portato a maturità tutta la scienza moderna. Queste sono le idee fondamentali che volevo trasmettervi oggi. Come vedrete, nella mostra che vi invito ad andare a visitare, le radici della nostra conoscenza scientifica, della tecnologia, sono da ricercarsi nella fede cristiana. Grazie.
Gargantini: Grazie molte, professor Hodgson, perché è un notevole contributo che ci aiuta anche a inquadrare meglio quello che abbiamo esposto nella mostra. Passo ora la parola al prof. Bersanelli.
Marco Bersanelli: Io vorrei, più che altro, proporre qualche esemplificazione di quello che il prof. Hodgson ha illustrato. Mi pare che sia un punto culturalmente cruciale, quello che stiamo toccando, e ricco di documentazione, appunto, che la mostra in qualche modo inizia – ma è solo un inizio, in realtà. Vorrei appunto esemplificare qualche spunto, utilizzando quello che è uno dei vertici della cultura medievale, e cioè Dante Alighieri, il cui profilo e contributo sono presenti anche nella mostra. In realtà sono un po’ imbarazzato a parlare di Dante, visto che non sono un esperto, ma forse la cosa interessante è proprio questa e cioè che, come scienziato e ricercatore, scopro insieme agli amici con cui ho lavorato a questa mostra una strana ma reale risonanza con lo sguardo, la curiosità, l’attenzione che Dante porta al mondo nella sua poesia.
Dante, evidentemente, esprime un concezione, elabora una serie di conoscenze che erano tipiche, diffuse nel mondo medievale: non è che tutte le intuizioni, anche quelle scientifiche che sono presenti nella sua opera, vengano da lui. Ma questo rende ancora più interessante la sottolineatura del suo esempio. Abbiamo sentito adesso dal prof. Hodgson che c’è una certa concezione della realtà fisica, starei per dire un certo sentimento delle cose, che è stato cruciale, essenziale per il fiorire, il nascere della scienza. La realtà materiale, il mondo fisico deve essere concepito come qualcosa di buono, qualcosa che ha un ordine interno, come qualcosa, anche, che è aperto, si dispone alla conoscenza dell’uomo. E che questa conoscenza è, quindi, importante e utile all’uomo. Ecco, queste condizioni, così ben sottolineate prima, sono presenti, mi pare, in modo continuo, luminoso, in modo poetico, suggestivo, nell’espressione di Dante. Direi in modo quasi commovente, perché proprio si scorge l’inizio di un modo di trattare le cose secondo una prospettiva che ha portato dei frutti incalcolabili per l’umanità.
Ad esempio, a me ha sempre colpito il primo Canto del Paradiso: lì noi troviamo un condensato di questo sguardo, di questa razionalità. Quando, per esempio, Dante dice: “Le cose tutte quante/hanno ordine tra loro, e questo è forma/che l’universo a Dio fa simigliante”. “Le cose tutte quante hanno ordine tra loro” vuol dire, non solo l’universo, la realtà genericamente, ma le cose tutte quante, una per una, la singolarità della creatura ha un valore, suscita un interesse e un’attenzione in quanto segnala, è segno di questo ordine totale. Infatti, poi entra a spiegare come ogni singola creatura ha la sua bellezza e la sua significanza – “Questi ne porta il foco inver’ la luna;/questi ne’ cor mortali è permotore;/questi la terra in sé stringe e aduna” -, ogni creatura secondo la sua natura. Scoprire l’ordine che è dentro le cose, appunto, significa cercare l’orma dell’eterno valore, cioè ogni cosa è significativa di colui che la fa. Allora, è chiaro che nasce un’attenzione, un’affezione alle cose senza precedenti.
Ma in queste due terzine che ho citato si ravvisa anche un altro degli aspetti che Peter Hodgson ha sottolineato, cioè la distinzione tra il creatore e la creatura. Perché “Qui veggion l’alte creature l’orma/de l’etterno valore”. È segno del creatore, ma l’universo è distinto dal creatore. La natura, il mondo fisico è qualcosa conoscendo il quale io sono portato a intravvedere la mano di chi lo fa, ma c’è una distinzione e questa è fondamentale per il nascere della scienza, per il nascere di quella concezione della ragione che indaga sperimentalmente sulla realtà. “Le cose tutte quante hanno ordine tra loro”: questa contiene anche l’evidenza di una razionalità che è disposta all’idea di una legge di natura. “Le cose tutte quante”: non c’è un mondo privilegiato rispetto ad altri. Tutta la realtà fisica è soggetta a quest’ordine, perché tutta la realtà fisica è creata.
Questa è la grande novità che, appunto, introduce l’idea potentissima, rivoluzionaria di legge di natura, che neanche i greci avevano concepito, intravisto. Questo è un ordine che Dante, che la mentalità medievale sente provvidenziale per l’uomo. Ad un certo punto, nel X Canto del Paradiso, Dante descrive un angolo critico, l’angolo dell’inclinazione dell’elittica rispetto all’asse di rotazione terrestre, al quale noi dobbiamo il mutare delle stagioni e quindi la continuità della vita, la possibilità del ciclo naturale. Dice “Vedi come da indi si dirama/l’oblico cerchio”, il cerchio obliquo “che i pianeti porta,/per sodisfare al mondo che li chiama”: dunque, questo è un ordine che soddisfa uno scopo, lo scopo è l’esistenza di quel punto nell’universo che di tutto l’universo è cosciente e può lodare Dio. l’uomo. “Per sodisfare al mondo che li chiama”, e continua: “Che se la strada lor non fosse torta”, cioè se questa inclinazione loro non ci fosse, molta virtù nel ciel sarebbe in vano,/e quasi ogne potenza qua giù morta”. Si rende conto che questo dettaglio nell’ordine della natura è cruciale per l’esistenza della vita. Dante, come la mentalità medievale, era persuaso che fosse il sole a ruotare intorno alla terra, ma questo non tocca la verità rigorosa di quello che sta dicendo, perché l’inclinazione è questo angolo che non dipende da questo fatto. “E se dal dritto più o men lontano/fosse ‘l partire, assai sarebbe manco/e giù e sù de l’ordine mondano”: se questo angolo fosse diverso da quello che è, la natura ne soffrirebbe. Dunque, è un ordine che è disposto a uno scopo. Questa, per la verità, è la prima documentazione che io conosca di quello che oggi in astrofisica e in cosmologia chiamiamo il “principio antropico”, cioè l’evidenza sottile, misteriosa di un cosmo, di una natura che mostra di essere allineata con l’esigenza di far emergere e sostenere la vita.
Oggi abbiamo un’infinità di evidenze – molte di più di quelle di cui Dante disponeva – di questa unità dell’universo intorno al fatto della vita, della complessità, della consapevolezza che l’uomo è, della libertà, ultimamente, che la creatura umana esprime nell’universo. Quanto Dante avrebbe goduto a sapere tutte le cose che sappiamo noi!
Oggi, per esempio, un esempio fra i mille che si potrebbero avere, ci rendiamo conto che l’universo primordiale – qui non parliamo dell’angolo di inclinazione dell’asse rispetto all’eclittica, ma dell’universo appena nato – era strutturato in una granulosità il cui numero, (anche qui non abbiamo un angolo, ma di nuovo abbiamo un certo numero) una parte su 100.000, 10-5 è il grado di disomogeneità dell’universo primordiale.
Noi sappiamo che, se 14 milioni di anni fa questo numero fosse stato diverso da quello che è, l’universo attuale sarebbe stato diverso da quello che è: le galassie, le stelle, i pianeti, anche il nostro pianeta di cui noi oggi usufruiamo per vivere, non avrebbero potuto formarsi. C’è questa unità straordinaria che mostra come l’ordine della natura sia proiettato verso una fecondità, verso la capacità di ospitare la vita, di ospitare la coscienza, di ospitare l’uomo.
C’è anche un certo modo della razionalità che a mio avviso emerge in tantissimi esempi nel poema dantesco. Si rimane stupiti dall’attenzione al fenomeno naturale e dall’affezione con cui poeticamente viene abbracciato e descritto appunto ogni aspetto della natura. Un’affezione e un’attenzione che nascono, come dicevo, dalla consapevolezza che ogni cosa è voluta, come diceva il prof. Hodgson: “E vide che era cosa buona”, “per mezzo di Lui tutte le cose sono state create”. Questo introduce uno sguardo per cui ogni cosa ha un valore, ogni cosa è non banale, ogni cosa mi dice di una prospettiva infinita. Come aspetto della razionalità cruciale che nel Medioevo si afferma e che nella Divina Commedia è più volte sottolineata, è la prevalenza dell’osservazione. L’osservazione come amore al dato. Beatrice molte volte rimprovera Dante della sua dis-attenzione, della sua poca osservazione, e teorizza proprio la prevalenza dell’osservazione sul ragionamento. Ad esempio, a un certo punto, sempre nel I Canto, quando stanno salendo al cielo e Dante non si rende conto di quello che sta succedendo ed è tutto affollato dal suo pregiudizio, Beatrice dice: “Tu stesso ti fai grosso/col falso imaginar, sì che non vedi/ciò che vedresti se l’avessi scosso”: ti fai torbido nel tuo pensiero col falso immaginar, col pregiudizio, cosicché non vedi, non sei in grado di vedere ciò che la realtà è. Devi scuotere il tuo pregiudizio, devi lasciarti dominare dal dato. Oppure, più avanti, quando dice nel II Canto: “S’elli erra/l’oppinion», mi disse, «d’i mortali/dove chiave di senso non diserra,/certo non ti dovrien punger li strali/d’ammirazione omai, poi dietro ai sensi/vedi che la ragione ha corte l’ali”.Dietro ai sensi vedi che la ragione ha corte le ali. L’osservazione, lo sguardo, la capacità di abbraccio del dato è dominante: la ragione ha le ali corte, non può volare troppo distante da quello che il dato mostra. Sembra di sentire, molti secoli prima, Alexis Carrel dire: “Molto ragionamento e poca osservazione conducono all’errore”, occorre il prevalere dell’osservazione. Questo è un modo della razionalità, ma Dante, anche, spinge questo in alcuni punti fino all’esperimento, cioè fino a usare la realtà in modo da poterla interrogare fino in fondo.
Vorrei adesso, in pochi minuti, dare un esempio, che è presente anche nella mostra, di dove e come questo avviene; poi, come vedremo, anche la capacità logica, l’amore al rigore logico nell’affermarsi del discorso. Nel II Canto abbiamo una disquisizione che spesso e volentieri nelle scuole si salta, perché sembra un po’ noiosa e invece è fantastica, è proprio veder germogliare un inizio di sguardo realmente scientifico alla realtà. Si tratta della discussione fra Dante e Beatrice a riguardo della natura delle macchie della Luna che vedete nella diapositiva. Questo era un problema nell’antichità perché, appunto, si pensava che il mondo celeste fosse fatto di materia incorruttibile e allora la presenza di queste strane macchie nella superficie della Luna, ben visibili anche a occhio nudo, destava discussione, problema. Per cui, appunto, Dante domanda a Beatrice: “Ma ditemi: che son li segni bui/di questo corpo, che là giuso in terra/fan di Cain favoleggiare altrui?”. Era una delle leggende legata alla figura di Caino, ma qui il problema era quello che vi dicevo: l’apparente contraddizione della presenza di queste macchie rispetto alla credenza di allora. Beatrice risponde dicendo “Ma dimmi quel che tu da te ne pensi». E Dante risponde: “Ciò che n’appar qua sù diverso/credo che fanno i corpi rari e densi”, cioè lui fa un’ipotesi, propone che la ragione delle macchie scure della Luna sia che alcune parti della Luna siano meno dense, più rarefatte del resto. Allora Beatrice qui lo demolisce. Dà una risposta secondo una logica rigorosa e arriva a proporre, appunto, un esperimento per mostrare come mai questo sia falso. Dice: va bene, se questo è il motivo, facciamo un modello. Immaginiamo che la Luna sia un globo in cui abbiamo delle parti più dense dove abbiamo maggior luminosità, e delle parti più rarefatte dove abbiamo minor densità. Allora, i casi sono due, dice Beatrice: o questa materia rarefatta attraversa in alcuni i punti tutto il globo della Luna, “o d’oltre in parte/fora di sua materia sì digiuno/esto pianeto”, per cui questa parte attraversa tutta la sfera della Luna, “o, sì come comparte/lo grasso e ‘l magro un corpo, così questo nel suo volume cangerebbe carte”, oppure ci sono delle zone che non attraversano tutto il globo, ma che si arrestano a un certo punto in cui abbiamo delle zone più rarefatte, come il grasso e il magro in un corpo umano. Adesso Beatrice, usando l’osservazione e l’esperimento, confuterà entrambe queste possibilità. Dice allora: “Se ‘l primo fosse”, cioè se abbiamo il primo caso in cui queste zone rarefatte attraversano tutta la Luna, “fora manifesto/ne l’eclissi del sol per trasparere/lo lume come in altro raro ingesto”: dovresti essertene accorto perché allora, quando abbiamo l’eclissi di sole – come sapete significa che il sole sparisce dietro al disco della luna – ma, appunto, se ci sono delle zone rarefatte che lasciano passare la luce, allora vuol dire che dovremmo aspettarci nel disco della luna, durante le eclissi, delle zone luminose in cui la luce del sole dovrebbe trasparire attraverso la luna. Quindi, vedete: l’osservazione è ciò che mi distingue le due possibilità. E dice: “Questo non è”, perché l’osservazione mi dice che non è. “Però è da vedere/de l’altro; e s’elli avvien ch’io l’altro cassi,/falsificato fia lo tuo parere”. Però è da vedere dell’altro caso, e se ti posso dimostrare che anche l’altro caso non è vero, “falsificato fia lo tuo parere”: interessante la parola “falsificato”, che tanta filosofia della scienza ha poi utilizzato. Passiamo quindi al secondo caso in cui “come comparte/lo grasso e ‘l magro”: quindi, abbiamo delle zone rare e dense che però non attraversano l’intera luna.
Se questo è il caso, dice a Dante, tu dirai che il motivo per cui ci sono delle zone di ombra è che in quelle zone la luce del sole, come mostra l’immagine, viene lì “refratto più a retro”, cioè viene riflessa in zone più profonde, più distanti. E questa potrebbe essere, concede Beatrice, una delle ragioni per cui vedi delle zone più scure. Continua: “Da questa instanza può deliberarti/ esperienza, se già mai la provi,/ch’esser suol fonte ai rivi di vostr’arti”. L’esperienza, l’esperimento. Beatrice propone a Dante: fai questo esperimento, costruisciti uno strumento e verifica che la realtà non è questa, “Tre specchi prenderai; e i due rimovi/da te d’un modo, e l’altro, più rimosso,/tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi”. Cioè, prendi tre specchi, mettine due alla stessa distanza e il terzo più distante. Quindi, creando una situazione analoga a quella della superficie della luna in cui ci sono delle zone più esposte e delle zone più distanti. “Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso/ti stea un lume che i tre specchi accenda/e torni a te da tutti ripercosso”. Accendi una candela e aspetta di vedere le riflessioni i riflessi dei tre specchi arrivare ai tuoi occhi. E questa è esattamente la situazione che propone Beatrice. Ebbene, conclude: “Ben che nel quanto tanto non si stenda/la vista più lontana, lì vedrai/come convien ch’igualmente risplenda”. Cioè, nonostante che, nel caso dello specchio più distante, la riflessione sia più piccola, la luminosità della riflessione più distante è identica alla luminosità della riflessione più vicina. E questo è un concetto fondamentale, ben noto nella fisica moderna, cioè che la brillanza superficiale è indipendente dalla distanza. E’ un’osservazione attentissima della realtà. Richiede un’attenzione scrupolosa, affezionata, appassionata, per potersi rendere conto di questo. Non è ovvio per nessuno di noi, ma è così. Fate l’esperimento quando tornate a casa. E’ un concetto che quotidianamente, nella ricerca, oggi viene utilizzato. Per misurare per esempio gli oggetti più distanti, le galassie che si trovano miliardi di anni luce da noi, quello che si utilizza è questo concetto, che la brillanza superficiale è indipendente dalla distanza.
Quello che con questo esempio ho cercato di dimostrare è proprio che non c’è una soluzione di continuità tra la percezione di ogni particolare come tipico della cultura medioevale, come segno, come voluto dal Creatore, l’affezione che ne nasce e la conseguente attenzione dello sguardo, fino ad ingegnarsi per carpire il segreto di quest’ordine. Perché questo è ciò che muove il desidero di conoscenza. Il desiderio di intravedere la mano che fa questo ordine e che fa ogni cosa.
Si potrebbero fare diversi altri esempi, e se visitate la mostra ne avrete diversi, compreso il fatto che ci trova di fronte a testimonianze di anticipazioni straordinarie di quello che normalmente viene pensato e concepito come unico dominio di quello che accade, dal 1600 in poi. Solo un accenno perché Buridano, nella prima metà del 1300, anticipa ad esempio, con la sua concezione dell’impetus di cui è già stato accennato, quello che è il principio di relatività galileiana. Sentite qua. “Benché a noi sembri che la terra sulla quale viviamo sia in quiete, il sole ruoti intoni a noi sulla sua sfera, potrebbe essere vero anche il contrario” dice Buridano. “Poiché i fenomeni celesti osservati sarebbero gli stessi”. Vedete che è l’osservazione che discrimina. “Se la terra ruotasse noi non ci accorgeremmo del suo moto rotatorio. La situazione” dice Buridano nel 1300 “sarebbe analoga a quella di una persona che si trovasse su una nave in movimento mentre questa sta sorpassando un’altra nave ferma. Se l’osservatore sulla nave in movimento immagina di essere in quiete, l’altra nave che è realmente in quiete gli apparirà in movimento. In modo analogo, se il sole fosse realmente in quiete e la terra ruotasse intorno a lui noi avremmo la percezione opposta”.
Vedete come realmente dobbiamo ricomprendere e ricapire quello che è accaduto nell’occidente, quello che è accaduto all’origine della nostra concezione di ragione che ha portato alla scienza, che ha portato alla tecnologia.
Oggi sappiamo molte più cose, sicuramente, sull’universo, sull’infinitamente grande e sull’infinitamente piccolo, di quante ne sapesse Dante o di quante ne sapesse Buridano. E questo è grazie al progresso della scienza moderna. Dante non era uno scienziato moderno, come non lo era Buridano. La genialità delle intuizioni di questi giganti, da Ruggero Bacone a Buridano a Nicola Oresme, non è tanto di aver conquistato dei punti di arrivo ma quello di aver posto delle fondamenta essenziali. La scienza moderna ha superato molte delle spiegazioni, talvolta ingenue, che nel mondo medioevale venivano date per certi fenomeni naturali. Non è certo scopo di questa mostra esaltare la scienza medioevale quasi a discapito della scienza moderna. Al contrario, lo scopo principale, il movente che ci ha fatto pensare a questa mostra, è opposto: parte da una constatazione di una urgenza nella scienza moderna.
Noi abbiamo un problema, noi abbiamo bisogno di ricapire quali sono le fondamenta della ragione e dell’affezione che hanno portato fino al frutto maturo della scienza moderna. Giorgio Israel – che avremo come ospite domani – ha scritto recentemente che siamo in presenza di una vera e propria crisi di orientamento, e persino di identità, della scienza contemporanea. E non è un mistero. È un fatto ben noto che in tutto l’occidente, ad esempio, che le iscrizioni alle facoltà scientifiche da parte dei giovani siano in continuo calo. Come mai? Ci possono essere tante ragioni, ma sicuramente val la pena interrogarsi a fondo su questo. Negli ultimi quattro secoli abbiamo imparato molte cose ma forse stiamo rischiando di perdere la cosa più preziosa, quella affezione, quella amicizia, quel gusto dell’esserci della realtà. Della realtà come dato, della realtà come dono che, come abbiamo visto, è all’origine della razionalità scientifica.
La ragione moderna, affermando se stessa come ultimo orizzonte di tutto, ha via via reso sempre più estranea l’idea di totalità. E quindi, quasi inesorabilmente, anche il valore del singolo particolare si è come offuscato. Rischia di offuscarsi anche il gusto della fisicità delle cose, il gusto della corporalità di ciò che è stato creato. L’aspetto corporale di ciò che è creato. C’è una frase di Sartre che don Giussani tante volte ci ha ricordato come emblema di questo smarrimento di fronte al mondo fisico dell’uomo moderno. Dice Sartre: “Le mie mani, cosa sono le mie mani? La distanza incommensurabile che mi divide dal mondo degli oggetti e mi separa da essi per sempre”. È la tragica constatazione dell’impossibilità di un rapporto. Che abisso di razionalità e di affezione rispetto a come Dante esclama nel suo poema: “Le cose tutte quante/ hanno ordine tra loro, e questo è forma/che l’universo a Dio fa simigliante”. È da questa posizione che è nata la scienza moderna, e forse è da questa posizione che la scienza moderna può rinascere.
Gargantini: Grazie Bersanelli. Come preannunciato, con qualche immagine dò una inquadratura della mostra della quale Marco ha già annunciato l’obiettivo e lo scopo. Mi limito ad indicare le modalità organizzative e quindi dare una breve indicazione di visita. Lo scopo, prendendo come riferimento il sottotitolo che è “Luoghi e maestri della scienza nel medioevo europeo”, è quello di mostrare il contributo fondamentale del Medioevo europeo allo sviluppo della scienza moderna. La modalità che abbiamo pensato è stata quella di descrivere i luoghi dove si sono create le condizioni culturali, sociali, educative favorevoli alla crescita e alla trasmissione della conoscenza. Descrivere i luoghi e incontrare i maestri che hanno saputo interrogare la natura con curiosità appassionata e cercare con rigore, per quanto lo consentivano le conduzioni generali della cultura dell’epoca, le risposte e guidare altri a un’avventura conoscitiva che aveva molti tratti di novità e di originalità. Questo riguarda il sottotitolo.
Il titolo, “Sulle spalle dei giganti”, che è una citazione ricorrente e abbiamo scoperto essere proprio di Bernardo di Chartres, studioso medioevale e cosmologo, esprime la consapevolezza dei medioevali di partire da una preziosa eredità, di avere quindi alle spalle una grande eredità, di poter salire sulle spalle degli antichi e di poter vedere più lontano. Ma noi abbiamo interpretato questo titolo anche dal nostro punto di vista perché, come ha fatto vedere anche in modo suggestivo Bersanelli, tutto quello che abbiamo detto riguarda direttamente noi, l’oggi della scienza e di chi si interessa di scienza. Questo lavorare, essere sulle spalle dei giganti, è la condizione permanente dello scienziato. Essere inseriti in una tradizione che continua e desidera continuamente di poter ampliare gli orizzonti è la condizione per procedere.
In pochi passaggi, la struttura della mostra: inizia con una galleria introduttiva che vuole immergerci in questo clima che dà il contesto adeguato per lo sviluppo della conoscenza scientifica. Il contesto adeguato è fatto della concezione che sosteneva il lavoro dei ricercatori, ma di tutti, nel Medioevo, perché tipicamente è un’esperienza unitaria che si condivideva e coinvolgeva tutto un popolo. Questo è un altro aspetto interessante che dice qualcosa anche alla scienza di oggi. Una visione unitaria e positiva dell’uomo e del cosmo, una piena valorizzazione della ragione, un grande dinamismo costruttivo che portava questa gente a desiderare di costruire, di operare, di realizzare e quindi di esprimere una caratteristica tipica dell’uomo a imitazione del Creatore. Appunto, la creatività che si manifestava dall’arte alla poesia e alla scienza, e una grande apertura di orizzonti, una grande capacità di guardare lontano, di non avere remore a cogliere spunti, indicazioni dovunque arrivassero.
Poi iniziano tre spazi fondamentali, i luoghi indicati nel sottotitolo: lo spazio delle abbazie, centrato sui due punti focali del chiostro e dello scriptorium. In modo possibilmente fedele, abbiamo ricostruito una postazione di lavoro degli amanuensi che, negli scriptoria medioevali, hanno avuto questo grande compito di portare a noi, di recuperare tanta cultura antica, col grande lavoro delle traduzioni. Lo stesso spazio ha delle eleganti e intelligenti immagini di schemi visuali, di diagrammi di cui nel Medioevo facevano molto uso, un primo tentativo di avvicinarsi a un linguaggio sempre più adatto a comprendere la natura. La natura richiede un linguaggio particolare per essere compresa e per essere comunicata. Non si limitavano quindi a tradurre ma, nel tentativo di interpretare, avevano realizzazioni di questo genere che abbinavano all’eleganza e all’ordine formale, anche una possibilità di memorizzare i contenuti e di spiegarli meglio.
Sempre in questo spazio, al centro del chiostro che abbiamo ricostruito anche architettonicamente, campeggia quello che è un po’ il pezzo forte di questa mostra, il famoso Albion, realizzato da Richard of Wallingford, abate dell’abbazia di St. Albans in Inghilterra, grande studioso di matematica e astronomia. È un esemplare unico, autentico, realizzato da Wallingford con un volume che spiega sia la realizzazione che l’utilizzo. È uno strumento per calcoli astronomici, praticamente un computer dell’epoca con tante caratteristiche tipiche dei computer di oggi, perché aveva la facilità d’uso, era “user friendly”. Era un planetario portatile. Albion deriva dalla contrazione di “All by one”, tutto in uno: uno strumento compatto, direbbero i tecnologi di oggi. Tra l’altro è incompleto quello che abbiamo, c’erano altri pezzi che componevano l’insieme e con quest’unico oggetto riusciva in modo facile fare tutti i calcoli che servivan. È attualmente conservato in Italia, in un museo all’Osservatorio di Roma, ed è l’Istituto nazionale di astrofisica che ci ha concesso di esporlo per l’occasione di Rimini.
E poi, lo spazio dell’università. Lo spazio dell’università è un po’ a cavallo tra le due parti, perché è stato realizzato in un’abbazia ma ha dentro tutto il sapere condensato delle università, in particolari quelle inglesi che Wallingford aveva frequentato. Università dei matematici di Oxford, i famosi calculatores di Oxford, che sono andati molto vicini in alcune spiegazioni relative al moto, alla legge di caduta dei gravi, che sarà di Galileo. Nello spazio dell’università abbiamo focalizzato le figure dei maestri. In questo spazio vedrete soltanto pannelli che descrivono in breve le figure dei principali maestri, da un lato, e dall’altra parte i primi passi, come già Bersanelli indicava, della scienza sperimentale. Esemplificati nella mostra con alcune raffigurazioni di strumenti dell’epoca, con l’esempio più significativo di lavoro sperimentale e di tentativo di spiegazione che era legato alla interpretazione dell’arcobaleno. Esperimenti moderni riprendono un esperimento che probabilmente ha fatto – perché lo descrive nei particolari – Ruggero Bacone, che era arrivato ad intuire che il fenomeno dell’arcobaleno è dovuto a fenomeni ottici di rifrazione e riflessione in una goccia d’acqua. Allora, abbiamo riprodotto questa goccia e potrete intervenire facendo voi stessi gli esperimenti, per comprendere meglio quello che poi nei secoli successivi si è capito sull’arcobaleno.
Infine, terzo e ultimo spazio è quello delle città, lo abbiamo chiamato così. Le città sono state i grandi cantieri di questa Europa che rinasceva. Sono state il luogo dell’espressione massima di questa energia, passione di costruzione dove c’è stato anche lo sviluppo – accanto a quello della scienza che avveniva nelle università – di un sapere pratico, più orientato a risolvere problemi concreti che allora erano anche tanti, perché le condizioni di vita erano più difficili. Abbiamo per esempio uno sviluppo di macchine, magari partendo come spunto dall’Oriente ma reinventate, per le esigenze della vita sociale e pratica dell’epoca. Quindi, soprattutto macchine che hanno permesso di iniziare a dominare energia, grande tema anche di oggi. E d’altra parte, il fenomeno interessante delle scuole d’abaco dove soprattutto in Italia, in Toscana o a Venezia, i commerci portava l’esigenza dei giovani a padroneggiare gli strumenti matematici di allora, in modo sempre più personalizzato ed efficace. Lì potrete anche fare l’esperienza di giocare con un gioco matematico medioevale molto più raffinato e sofisticato del Sudoku, ma anche piuttosto complesso: un gioco ammesso addirittura nelle università medioevali. Era uno strumento dove, giocando, ci si esercitava a mangiare i numeri e le regole del calcolo.
Entrando nello spazio delle città, abbiamo voluto che dominasse l’esperienza della cattedrale. La costruzione delle cattedrali – anche lì potrete operare su un modellino dove si può sperimentare la genialità che ha portato alla costruzione degli archi a sesto acuto, e quindi alle grandi costruzioni del gotico che ancora oggi rendono bella e affascinante l’Europa – è proprio l’emblema di una genialità tecnica alimentata da una tensione ideale e condivisa. È questo il bello. C’era una tensione ideale che muoveva, e che faceva sì che nel lavoro della cattedrale si riassumessero tutte le novità, anche tecnologiche, che man mano si acquisivano: ed erano una passione condivisa, un’opera di popolo dove ognuno aveva la sua funzione. La chiusura ci riporta all’oggi, ci permette di recuperare i passi di coloro che hanno studiato questo periodo e che l’hanno riscoperto. È da un secolo che da parte degli storici della scienza si è riscoperto il valore del periodo medioevale. Ma l’importanza di recuperare questi primi passi della scienza è ancora più urgente oggi, di fronte a un sapere frammentato che ha bisogno di ritrovare – e riguarda in primis gli scienziati ma coinvolge tutti noi, che in qualche modo abbiamo a che fare continuamente con la scienza e con la tecnologia – quelle motivazioni, quelle condizioni favorevoli, quella visione unitaria che può sostenere un’impresa così impegnativa. Così si conclude la mostra. Naturalmente, l’invito è a visitarla. C’è anche un catalogo che quest’anno abbiamo voluto rendere più ricco, dove sarà possibile approfondire e ampliare i contenuti proposti nella mostra. L’invito è anche, magari, a ospitarla nelle vostre città, visto che è una mostra itinerante e contribuire a quell’opera che abbiamo iniziato di ritrovare altre tracce, altri documenti di questa straordinaria epopea della cultura europea. Grazie.
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